Gli affezionati lettori della rubrica “Tennis Genitori e Figli” avranno letto tante volte il racconto di familiari che si auguravano, in modo più o meno esplicito, di avere una figlia o un figlio che fosse in grado di entrare nel tennis che conta. Questa volta abbiamo intervistato, in esclusiva, un genitore che ce l’ha fatta a esaudire questo desiderio, eccome se ce l’ha fatta, perché Sara Errani è entrata di diritto con i propri risultati nella storia del tennis, non solo italiano, ma mondiale. Giorgio Errani, da uomo di sport, probabilmente lo aveva capito fin da subito, quando ha appoggiato la scelta della figlia, solo dodicenne, nella scelta di trasferirsi un anno negli Stati Uniti per allenarsi nell’Accademia di Nick Bollettieri. Allora, e anche anni dopo, non molti credevano che questa ragazzina gracile e minuta potesse arrivare in finale in una prova del Grande Slam, vincere tutto quello che è possibile vincere in doppio e arrivare al numero cinque del mondo, eppure la grande caparbietà e costanza di Sara e, molto probabilmente, anche di papà Giorgio e mamma Fulvia, hanno avuto la meglio anche su chi non avrebbe puntato su di lei. (Nelle foto all’interno dell’articolo presenti Giorgio e Fulvia, i genitori, e il fratello maggiore Davide, oggi manager della campionessa azzurra, e ovviamente la stessa Sara Errani).
Con Giorgio Errani non vogliamo affrontare, se non marginalmente, il discorso tecnico e tennistico, ma vogliamo farci raccontare la bambina, la ragazza Sara e la campionessa, viste con gli occhi del padre.
Partiamo dall’inizio. Come si è avvicinata al tennis Sara?
“Sara, fin da bambina, era un maschiaccio e voleva fare tutto quello che faceva il fratello Davide, che è più grande di cinque anni. Davide ha praticato diversi sport, basket, tennis e poi calcio. Nel periodo in cui Davide giocava a tennis tutti i giorni, anche con ottimi risultati, perché è stato campione regionale under 12, Sara lo seguiva nei campi provando a impugnare la racchetta per la prima volta a 5 anni. Poi Davide ha lasciato il tennis per dedicarsi esclusivamente al calcio e allora Sara lo ha seguito, giocando lei stessa a calcio in una squadra femminile, praticando anche nuoto e pallacanestro prima di tornare al tennis. Il calcio, fra l’altro, era una vera passione per Sara: tornata a casa da scuola, subito dopo aver mangiato, andava al campetto a giocare a calcio con i maschi della sua età ed era molto brava peraltro”.
Quando ha capito che il “suo” sport era il tennis?
“E’ andata avanti parecchi anni alternando diverse discipline sportive, poi è stata convocata a un raduno nazionale della Fit a Trento con tutte le bambine del 1987; Sara era tra le più magroline e comunque tra le meno conosciute nell’ambiente tennistico proprio perché non giocava ancora molte partite, ma hanno fatto un torneo tra tutte le convocate, ha giocato benissimo ed è arrivata in finale, perdendo solo con Verdiana Verardi. Ecco, in quel momento ha capito che il tennis era il suo vero sport e soprattutto che avrebbe potuto competere con le altre ragazze della sua età”.
E’ rimasta ad allenarsi in Romagna alcuni anni e poi c’è stato il passaggio fondamentale in Florida da Nick Bollettieri. Come è stato vissuto questo momento importante della vostra storia familiare?
“Sara ha continuato ad allenarsi costantemente e diligentemente con le altre ragazzine del suo gruppo ed è stata scelta per andare a fare l’Orange Bowl in Florida. Siamo andati anche noi genitori ad accompagnarla. E’ stata un’esperienza straordinaria, un ambiente bellissimo, molto organizzato. Siamo andati a visitare l’Accademia di Bollettieri, abbiamo guardato i programmi per i ragazzini di 12-13 anni e io, quasi scherzando, le ho proposto di fare un anno di studio e tennis negli Stati Uniti. Lei si è dimostrata super entusiasta dell’idea. Senza pensarci troppo, forse con un po’ di incoscienza, detto-fatto, l’abbiamo iscritta per il successivo anno scolastico in Florida all’Academy di Bollettieri. Forse al giorno d’oggi non permetterei più ad una figlia di 12 anni di fare un anno così lontano da casa, i tempi sono cambiati, ma allora non mi sembrava una scelta strana o pericolosa, avevo anche spinto Davide a fare un’esperienza simile in Inghilterra ma non ci riuscì per problemi di organizzazione con la scuola. Sara è stata fortunata e forse brava a fare sempre scelte oculate che si sono rivelate vincenti, qualche volta anche in modo assolutamente contrario a ciò che pensavo io. In questo caso però eravamo tutti e due convinti che la scelta di fare un anno in America sarebbe stata un’esperienza straordinaria sia dal punto di vista umano che tennistico”.
Non sarà comunque stato facile la separazione né per voi né per lei…
“Noi ci sentivamo spesso, lei era sempre entusiasta, mi raccontava cosa faceva, quello che imparava, mi parlava della scuola, del tennis, dei nuovi amici, delle questioni tecniche, apparentemente sembrava che andasse tutto bene. Certamente a noi mancava, ma eravamo tranquillissimi perché la sentivamo serena. Poi, oltre un anno dopo il ritorno, in una delle prime interviste che ha rilasciato, Sara ha detto che piangeva tutti i giorni e che è stata durissima. Per noi è stato davvero un fulmine a ciel sereno, non ce lo saremmo mai aspettati. Evidentemente lei era così forte e matura a dodici anni da non volerci spaventare o preoccupare”.
Siete davvero riusciti a vivere senza preoccupazioni questo distacco?
“Naturalmente c’erano i pensieri e le preoccupazioni, ma senza troppi patemi, perché comunque eravamo convinti che lei stesse bene. In realtà ci sono stati un paio di episodi che ci hanno fatto preoccupare, ma giusto un paio in dieci mesi. Vi racconto il più clamoroso: noi avevamo regalato a Sara un telefono cellulare, uno dei primi in commercio e ci chiamava normalmente quando da noi era sera e da lei mezzogiorno. Una notte, verso le 3 suona il telefono, era Sara, non vi dico lo spavento che ci siamo presi vedendo il suo numero. Con la massima serenità Sara mi dice: ‘Babbo sono andata a fare un giro, adesso devo tornare in Accademia, ma non sono sicura se questo è l’autobus giusto per tornare, ti ricordi il numero?” Io cercando di restare il più calmo possibile, e non era facile, mi sono fatto passare una persona a caso che era in fila con lei ad aspettare l’autobus e ho parlato con questo sconosciuto per cercare di capire se la direzione per andare verso l’Accademia di Bollettieri a Bradenton era quella giusta. Vi assicuro che quella notte e anche le successive non abbiamo dormito molto io e mia moglie, però credo che comunque sia stata per lei una grande esperienza di vita, prima ancora che di crescita tennistica”.
Dopo la Florida è maturata subito la decisione di trasferirsi all’estero?
“Dopo l’esperienza in Florida Sara ha continuato ad allenarsi per due-tre anni qua in Romagna, ma la convinzione di doversi trasferire all’estero per crescere tennisticamente è stata subito condivisa sia da me che da mia figlia. In quegli anni, nei primi 2000, il tennis giovanile in Italia era organizzato molto male, non c’era un programma a lunga scadenza, non c’erano obiettivi e anche i maestri italiani non erano preparati a dovere. Ora, per fortuna, va molto meglio e io sto vedendo che stanno facendo moltissimo per i giovani tennisti e infatti mi pare che anche i risultati a livello giovanile stiano iniziando ad arrivare, dopo anni molto bui per il movimento giovanile italiano”.
Chi ha deciso definitivamente per la Spagna?
“La scelta, in questo caso, è stata molto sofferta e ben ponderata. Prima del trasferimento abbiamo valutato decine di Accademie, sparse un po’ in tutta Europa. Siamo stati da Mouratoglu in Francia e quindi da Sanchez. Abbiamo anche riprovato in qualche modo a cercare garanzie dalla federazione italiana, ma in quel momento in Italia era, come detto, diverso. Ci sono stati alcuni anni di transizione e meditazione su quale fosse la scelta migliore e poi si è deciso per la Spagna. All’inizio era una prova, non si pensava subito che fosse un trasferimento definitivo di oltre un decennio. Infatti il primo trasferimento è stato a Barcellona all’Accademia di Bruguera, dove si trovava bene, ma non benissimo. In seguito Sara ha deciso di provare a Valencia seguendo i consigli di Paul Dorochenko, che si sarebbe trasferito a Valencia per aprire un’Accademia. Si è trovata bene e dopo due anni di Accademia ha incontrato Pablo Lozano e da quel momento la loro storia tennistica è proseguita assieme fino a pochi giorni ed è stata molto più rosea di quanto anche i più ottimisti di noi potessero aspettarsi”.
Con l’arrivo di Pablo Lozano anche voi familiari vi sarete in qualche modo tranquillizzati sapendo che vostra figlia si era “sistemata” nel migliore dei modi dal punto di vista sportivo e professionale…
“A dire il vero, l’inizio del rapporto sportivo con Lozano è stato uno dei pochi momenti di tensione tra me e Sara, perché io non ero per nulla convinto della scelta. Un giorno, tornata dalla Spagna per qualche giorno di vacanza, Sara ci ha detto che aveva deciso di abbandonare l’Accademia, dove comunque fino al giorno prima diceva di trovarsi benissimo, per passare ad un rapporto individuale con questo ragazzo che comunque era molto giovane, inesperto e quasi sconosciuto fuori da Valencia. Io non ero per nulla convinto della scelta e ci sono stati momenti di “maretta” in famiglia, qualche litigata, ma, come sempre, ho lasciato scegliere lei e, come sempre, ha avuto ragione come i fatti hanno ampiamente dimostrato”.
Si parla spesso del fatto che i genitori interferiscano troppo, almeno in Italia, con i maestri di tennis e intervengano a sproposito su questioni tecniche facendo solo del male ai propri figli. Secondo te succede veramente tutto questo oppure è una normale dimostrazione di affetto verso i propri figli?
“Sì succede spesso, soprattutto in Italia. Io credo che debba essere chiaro fin dall’inizio che l’esperto è il maestro e non il genitore. Qualche volta succede che il genitore sia troppo presuntuoso e abbia troppe aspettative, ma qualche volta succede anche perché i maestri italiani non hanno abbastanza personalità e forse nemmeno qualità eccelse dal punto di vista tecnico. Ovviamente non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ci sono le eccezioni e la situazione sta migliorando per fortuna, ma per questo dico che in quel momento la scelta di andare all’estero per migliorare è stata quasi obbligata”.
Andare all’estero però comporta costa notevoli, immagino sia stato un impegno importante.
“Purtroppo il tennis è questo. Il tennis non è uno sport popolare come il calcio. Chissà quanti tennisti talentuosi abbiamo perso per strada perché non avevano i mezzi per pagare maestri validi o iscriversi in Accademie prestigiose. La Federazione fa quello che può, e ora fa molto più che in passato, ma è indubbio che le famiglie debbano investire parecchio nel futuro professionale dei propri figli. Ora credo che la federazione cerchi di aiutare un po’ tutti con finanziamenti “a pioggia”, per poi capire chi siano i veri talenti su cui puntare. Al primo raduno con Sara dodicenne, di cui abbiamo parlato prima, i piccoli aiuti e le convocazioni successive furono fatte solo per le due bambine finaliste. E se Sara avesse perso in semifinale? Magari non avrebbe più avuto voglia di continuare e non saremmo qua a raccontare questa bella storia”.
A anche la scuola non aiuta il tennis…
“La scuola non aiuta nulla il tennis e non aiuta quasi per nulla nemmeno tutti gli altri sport. Manca proprio la cultura sportiva in Italia. A scuola dovrebbero far provare a tutti i bambini le varie discipline e poi deve essere il bambino a valutare quale è lo sport che preferisce e quale sia quello in cui riesce meglio. Invece in alcune scuole si fa un solo sport, in molte nemmeno quello, ma solo inutili esercizi ginnici che non divertono i bambini e anzi li allontanano dallo sport. Chi vuole fare sport, deve farlo privatamente pagando una quota, che vincola il ragazzo a fare solo quello sport per tutta la stagione, perché giustamente il genitore che paga un anno di pallavolo, per esempio, non ha nessuna intenzione di ritirare il figlio e ripagare per mandarlo a fare nuoto o un altro sport. All’estero in genere funziona tutto molto meglio anche da questo punto di vista”.
Torniamo a Sara. Per molti anni è stata snobbata e sottovalutata da tanti appassionati, ma anche dai mass media, perché forse non aveva il fisico o il gioco di altre campionesse. Come siete riusciti a vivere la situazione con distacco?
“Diciamo le cose come stanno. Ancora oggi Sara è snobbata dai media. Quando vince ha il tabellone fortunato, quando perde è solo una pallettara che vale meno della sua classifica. Se le considerazioni vengono dagli appassionati e dai tifosi di altre tenniste, ci può stare, ognuno è libero di tifare per la propria beniamina, però sicuramente quando alcune considerazioni le leggi e le senti da quelli che dovrebbero essere gli addetti ai lavori dispiace parecchio, perché i risultati ottenuti in tanti anni di carriera sono un dato oggettivo. Il fatto che qualcuno possa mettere in dubbio che questa ragazza sia una campionessa mi sembra veramente ridicolo. Però nessuna rivalsa, solo un certo fastidio, che sicuramente ha più la stessa Sara di noi, anche se preferisce non esternarlo per non creare altre polemiche. Se torniamo indietro al 2008, quando Sara a venti anni, subito dopo aver vinto a Palermo, ha vinto il suo secondo torneo WTA a Portorose e al momento della premiazione, invece di esultare e ringraziare tutti, come da prassi, si è sentita di dedicare la vittoria “a tutti gli italiani che dicono che sono solo una pallettara e che non sono in grado di vincere nulla”. Ecco questo non dovrebbe mai succedere, si è liberi di seguire e apprezzare chi si vuole, ma ci deve essere il rispetto verso tutti. In molti, di rispetto verso il grande lavoro e la grande professionalità di Sara, ne hanno avuto davvero poco”.
Qual è stato il momento più bello della carriera sportiva di Sara, quello che avete vissuto più intensamente?
“Sono stati tanti per fortuna, non voglio fare una classifica. Direi tutti quelli in cui io e mia moglie abbiamo avuto la fortuna di essere presenti sugli spalti, come ad esempio la semifinale e poi la finale del Roland Garros del 2012, ma anche il terzo turno degli US Open del 2014, quando ha vinto al tie break del terzo set con Venus Williams… Se non mi è venuto un infarto in quella partita penso di avere il cuore pronto per ogni emozione”.
Ultima domanda: quando vi ritrovate a Natale o in altre occasioni tutti assieme, riuscite a non parlare di tennis?
“Certamente. A Natale in tennis è bandito. Si ride, si scherza, si fanno i puzzle insieme, si gioca a carte, però si finisce comunque per discutere, perché Sara vuole sempre vincere a tutto, a carte, ma anche a testa o croce o a pari e dispari, quando non vince diventa una furia, in senso buono [risata], ed è meglio starle lontano”.
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