di Sergio Pastena
Sentimenti contrastanti.
Quando Marion Bartoli ha messo a segno l’ultimo punto, che le ha consegnato un inaspettato successo a Wimbledon, ho provato quelli. A molti la Bartoli sta antipatica, ma è un’antipatia di riflesso simile a quella per altri tennisti che hanno genitori invadenti. E Walter Bartoli non è quel che si dice l’emblema della discrezione.
O almeno, è difficile definire “discreto” un padre che, oltre ad allenare la figlia, la plasma partendo da zero. Fin qui, a dire il vero, non ci sarebbe molto da obiettare, perché tutti gli allenatori in fondo lavorano su un talento naturale modellandolo nel modo migliore, e il modo migliore può essere anche quello di sviluppare un gioco atipico come quello di Marion, incluso il diritto bimane di funambola tradizione.
Il problema, però, sta in dichiarazioni come quelle secondo cui l’alimentazione della giocatrice francese, non proprio un peso piuma, sarebbe stata studiata per evitare che si facesse distrarre da questioni sentimentali. Dichiarazioni del padre stesso, per inciso. Molti dubitano che il motivo sia quello anche se, a dire il vero, il problema che la Bartoli dimagrendo troppo rischi di perdere tono muscolare non toglie nulla al fatto che, con qualche chiletto in meno, il suo fisico dovrebbe sopportare minori sollecitazioni e rischi di infortuni senza perdere in mobilit·.
Riassumendo: se consideriamo che qualche chilo “inutile” c’è, viene proprio il dubbio che il padre non stesse scherzando e, ad ogni modo, se anche così fosse un figlio con un rapporto normale con il proprio genitore quanto meno avrebbe dovuto mandarlo a quel paese senza passare dal via. Solo per il cattivo gusto della cosa.
… per quello, probabilmente, che la Bartoli è diventata la più odiata delle tenniste, non solo per certe sue ruvidezze o per il fatto di non giocare in Fed Cup, che giustificherebbe la cosa solo in Francia. Il problema è che molti, pensando ad un suo successo, l’avrebbero visto come un trionfo del padre e la cosa non sarebbe stata piacevole. E mi metto nel mazzo, personalmente, perché legare la partecipazione alla Fed Cup alla presenza del padre nello staff tecnico è un atto di arroganza che a voler essere diplomatici nella risposta lo stesso si rasenterebbe il filo del vaffanculo. E scusate il francesismo. Quel filo sfondato dalla Bartoli quando nel 2011 cacciò il padre dagli spalti a Wimbledon e molti pensarono che Spartaca avesse rotto le catene, rimanendo delusi dalle dichiarazioni concilianti del post-partita. Già, anche a quello si arriva.
Forse proprio per questo, però, si potrebbe essere contenti della vittoria della Bartoli. Perché arriva in seguito a profondi cambiamenti nello staff tecnico e al ridimensionamento della figura del padre: molti, quindi, magari godono di converso ad immaginare un Walter Bartoli “rosicante” perché Wimbledon è arrivato proprio ora. Non mi spingerei fino a tanto nell’odio, pur avendo un’antipatia neanche tanto cordiale per Monsieur Walter: vedere una figlia vincere Wimbledon è sempre stupendo anche se, in fondo, non è un male che sia successo ora. Eppure, signori, per quanto la Bartoli non mi fosse antipatica perché la vedevo più vittima che carnefice, mi si perdoni se di questa vittoria non riesco proprio a gioire.
“In questa storia i meriti non c’entrano”.
Così diceva William Munny, feroce bounty killer, quando alla fine di “The Unforgiven” sparava l’ultimo colpo in faccia a un Little Bill che dichiarava di non meritarselo. Clint Eastwood che spara a Gene Hackman, e Hollywood è servita.
Qualcuno potrebbe essere tentato di dire una cosa del genere perché, in fondo, Marion ha dovuto superare molti problemi e soffrire per arrivare al Top. Molto poetico, ma decisamente discutibile: se basassimo il nostro giudizio sulla sola fatica allora meriterebbe di vincere Wimbledon anche il tennista che gira dieci anni giocando per i Futures e facendosi il mazzo a trapezio per migliorare il proprio incerto rovescio col sogno irrealizzabile di fare il miracolo e riuscire a sfondare. La verità è che spaccarsi la schiena è la precondizione per avere successo e tanti lo fanno: per meritare davvero un titolo del genere, però, bisogna quanto meno battere qualche avversaria di assoluto rilievo.
No, non si può fare una colpa alla Bartoli del fatto di non avere incontrato neanche una delle prime sedici tenniste al mondo nella sua strada verso la vittoria, ma di certo un tabellone del genere per vincere Wimbledon sarebbe una benedizione per chiunque. Svitolina, McHale, Giorgi, Knapp, Stephens, Flipkens, Lisicki. Con tutta la buona volontà possibile, è possibile beccare draw peggiori in tornei di fascia media. La Lisicki, invece, aveva battuto Serena Williams e Agnieszka Radwanska, senza approfittare di autostrade e senza tremare nei momenti decisivi.
E che nessuno dica “La Bartoli però ha battuto la Lisicki” perché non è vero: la tedesca si è battuta da sola sbagliando decine di palle mentre la sua avversaria continuava a rimandarla (giustamente) di là senza eccedere nei rischi. Complimenti sinceri a Marion per aver sfruttato l’occasione, ma quando la tedesca si è risvegliata infilando tre games di fila si è visto chiaramente chi avrebbe dovuto essere la padrona di quella finale. Risveglio tardivo, lacrime a profusione.
Ma proprio per quanto detto, sia chiaro che non influisce l’umana “pietas” nel mio giudizio, né la vaga tenerezza maschilista dettata dal fatto di vedere lineamenti dolci come quelli della bella Sabine contrarsi per il dolore. Il problema è che la Lisicki meritava questo trofeo, punto. E anche se non faccio gli almanacchi e niente ho contro la Bartoli, per me la tedesca resta la vincitrice morale di questo Wimbledon.
In quanto a Marion, le auguro un giorno di vincere il suo primo Slam. Il suo primo Slam serio, intendo.
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