A Toruń, cittadina nel cuore della Polonia nota per aver dato i natali a Copernico, appena fuori dal centro storico si può incontrare una struttura sportiva di tutto rispetto. Campi da tennis all’aperto e altri, presumibilmente, al chiuso. All’ingresso il nome in polacco dice “Akademia Tenisowa Karoliny Woźniackiej”, ovvero “Accademia tennistica di Karolina Woźniacka”. Questo nome, scritto così, non sembra evocare niente di particolare, ma sul telone accanto c’è la gigantografia di una che nel mondo del tennis che conta è tutt’altro che una sconosciuta, Caroline Wozniacki, tennista che ha girato per il tour e raggiunto la posizione più alta del ranking esibendo un passaporto danese.
A Puszczykowo, cittadina di poco meno di diecimila anime a una quindicina di chilometri dalla terza città più grande della Polonia – Poznań – si trova un’altra struttura completa di campi in terra e cemento, al coperto e all’aperto, il nome sulla targa all’ingresso dice “Akademia Tenisowa Angelique Kerber”. Stavolta il nome non può ingannare nessuno, Angelique Kerber è senza ombra di dubbio quella Angelique Kerber, potente mancina tedesca che da anni frequenta il tennis di vertice con la sua difesa quasi impenetrabile.
Verrebbe da chiedersi che cosa ci fanno due scuole di tennis per ragazzini su suolo polacco che portano il nome (e anche il capitale) di due tenniste che negli appuntamenti di Fed Cup giocano sotto altre bandiere e che difatti sono cittadine di altri Paesi. Certo è noto a tutti che tanto la Kerber quanto la Wozniacki hanno origini polacche nemmeno troppo lontane, Caroline in particolare che – da quanto si può intuire dai numerosissimi coaching con il padre – sembrerebbe usare il polacco come sua lingua “domestica” e la Kerber stessa che nel villaggio di Puszczykowo ha addirittura la sua residenza ufficiale. Si tratta di casi particolari, quelli di Kerber e Wozniacki, testimoni di un vero e proprio micro-mondo che all’interno dei circuiti ITF e WTA riunisce molte giocatrici di origini polacche con quelle che lo sono in tutto e per tutto in una sorta di ambiente protetto e confidenziale.
Il perché ci siano tante atlete di origini polacca si spiega facilmente con la massiccia emigrazione dalla Polonia e non solo che si ebbe durante gli anni del socialismo reale e soprattutto dopo. Casi diventati noti come quello di Martina Navratilova, per spostarsi dalla Polonia in Cecoslovacchia, di tenniste che approfittarono della propria e privilegiata condizione di viaggiatrici per poter “fuggire” dai paesi del patto di Varsavia sono sempre più accompagnati da tenniste che – per ovvi motivi di età anagrafica – sono soprattutto figlie di persone che a ridosso degli anni ’80 hanno preso la decisione, oltre ad averne chiaramente avuto la possibilità, di emigrare in occidente.
È il caso appunto di Caroline Wozniacki, il cui padre è stato da giovane un dignitoso calciatore professionista e che ha potuto approfittare dell’ingaggio di una squadra danese – il Boldklubben – per poter progettare una nuova vita proprio nel Paese di Andersen, ma non è certo stato il solo. Basta anche solo dare un’occhiata ai cognomi per scovarle, le altre figlie della diaspora polacca, dalla tedesca di passaporto Sabine Lisicki il cui padre Richard (Ryszard, per la precisione) emigrò nell’allora Germania Ovest con la famiglia nel 1979 e poi ebbe le possibilità di coltivare il talento della giovane Bine sui campi della Bollettieri Academy o quello delle canadesi Aleksandra Wozniak e Gabriela Dabrowski (in origine Dąbrowski) con quest’ultima che ha raggiunto discreti risultati in doppio proprio con un’atleta che gioca da sempre per i colori polacchi come Alicja Rosolska. Se, come dicono spesso e volentieri i diretti interessati, la capacità di comunicare e di trovare affinità tra i membri di una squadra di doppio è un elemento di sicura importanza, se non addirittura fondamentale, allora il fatto di trovare una compagna di doppio che parli la stessa lingua può incidere non poco sul tanto chiacchierato affiatamento.
E questo può accadere tra una tennista polacca e una emigrata di seconda generazione a causa di una peculiarità di tanti popoli costretti alla diaspora, ma di quello polacco in particolare, ovvero quella di conservare come una corazza la propria identità culturale e linguistica. Nell’esperienza personale di chi scrive non esiste un solo figlio di emigrati polacchi che non parli polacco, è quindi plausibilissimo che la giovane canadese Gabriela Dabrowski lo faccia altrettanto, in famiglia tanto quanto nel circuito alla bisogna.
È inevitabile a questo punto del discorso entrare nel vischioso campo del sentimento nazionale e della legittimità a giocare con la propria nazionale, in Fed Cup o in sede olimpica, o con quella di adozione. La precisazione d’obbligo in questo caso è che, rispetto a quelli delle numerose tenniste nazionalizzate di volta in volta statunitensi, australiane o altro, è che qui si parla di atlete che seppure in un alveo culturale originariamente diverso sono nate e cresciute nel Paese d’adozione. Sarebbe insomma puro fantatennis immaginare un dream team polacco nel quale assieme alla cracoviana Radwańska (curiosità, anche lei passò in Germania gli anni della prima infanzia e avrebbe potuto restarci se non fosse stato per la scelta finale del padre di tornare in patria) possano concorrere Angelique Kerber, Sabine Lisicki o anche Caroline Wozniacki che sono pur sempre rispettivamente tedesche e danesi a tutti gli effetti. Una prospettiva impossibile, ma affascinante, per un Paese che ancora si aggrappa alle sole sorelle Radwańska per le sue sorti nazionali anche se c’è un sottobosco che scalpita come le giovani (ma non giovanissime) Katarzyna Piter, Magda Linette e Paula Kania. Nella speranza che nelle stanze della federtennis di Varsavia non si debba più sospirare di rimpianto per le figlie della Vistola ormai lontane e straniere.
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