di Luca Brancher
“Non è la ragione che ci guida nella vita, ma l’abitudine. Soltanto essa induce il pensiero, in ogni occasione, a credere che il futuro sia conforme al passato. Per facile che sembri questo passo, la ragione non riuscirebbe a farlo mai per tutta l’eternità.”
[David Hume, Trattato sulla natura umana, 1739]
Quella palla viaggiava velocemente, si muoveva in maniera spedita e sembrava indirizzata dove la sua testa avrebbe voluto cadesse: la partita si era dipanata secondo un canovaccio che aveva assecondato ogni sua aspettativa, anche la più rosea. Non si giunge, in altra maniera, al match-point contro una tennista di talento e personalità come la cinese Li Na. Tutto deve andare secondo copione.
Invece ogni certezza si sarebbe sgretolata nello stesso momento in cui quella maledetta palla gialla, impattando il terreno, avrebbe di qualche centimetro oltrepassato la linea che, a fondo campo, delimita ciò che i giudici considerano buono da ciò che non lo è. Non ha senso richiedere l’aiuto del falco, perché la palla, pur di poco, è chiaramente out. Il match point si smaterializzava così, la partita di colpo, da una semplice volata di gruppo, si trasformava in una salita hors catégorie, fino all’inevitabile sconfitta. L’amarezza avrebbe preso il sopravvento, per quanto quel minimo di coscienza ci trasmetteva un’altra sensazione: quella della rassegnazione, quella del “tanto si sa come va a finire, mai una gioia, mai una”. Con Lucie Safarova ci siamo abituati, male, ma ci siamo abituati, per cui, anche una partita prossima alla fine, nasconde delle insidie. E così era stato in quel terzo turno dell’edizione più recente degli Open di Melbourne.
Mestamente ci eravamo illusi, e non era una situazione inedita, prima di ricomporci ebbri di nuova linfa che rinsaldava la disillusione cosmica, patina non occasionale nella nostra visione quanto mai onirica del mondo del tennis. Onirica sì, ma mica siamo dei sognatori sregolati: non è che se batti il giocatore che poi avrebbe vinto lo Slam, automaticamente ti saresti meritato il medesimo titolo – la storia è piena di esempi di questo genere, da Russell al Roland Garros contro Guga Kuerten, a Rostagno contro Becker a Flushing Meadows, passando per altre situazioni di questo tipo – nemmeno ci passa per l’anticamera del cervello. Però, alla fine arriva sempre il momento dei “però”.
Abitudine, una parola chiave, nella vita di Lucie Safarova. Piace, perché a tennis sa giocare bene, è una talentuosa mancina della scuola ceca (musica per le orecchie dei puristi della racchetta) che ha avuto la sfortuna di non essere sostenuta da una testa da campionessa, o comunque da giocatrice col killer istinct. Basta osservarla, per notare in lei tratti di bontà anche esasperata, di persona che quando guarda il mondo, lo scruta con accento marcatamente ottimista, aspetto che come filosofia di vita andrebbe bene, ma nel mondo dello sport, dove vige il più esasperato degli homo homini lupus, ci azzecca poco o niente. Ci sarà sempre un domani per conquistare i propri sogni, lascia intendere alla fine dei suoi discorsi dopo una cocente sconfitta, anche quando gli ieri frustranti si accumulano ad uno ad uno creando una pila senza soluzione di continuità.
Nemmeno la vittoria in Fed Cup, marchiata da lei, proprio nell’anno successivo a quell’unica certezza che sembrava accompagnarla lungo la vita, vale a dire il fidanzamento col collega Tomas Berdych, conosciuto da giovanissima quando entrambi frequentavano lo stesso circolo tennis, a Prostejov, si sgretolava, ha cambiato quel destino che si porta dietro da ormai 10 anni, ovvero da quando ha bagnato il suo esordio nel circuito. Le due prime semifinali, colte nei tornei da 25.000$ di Greenville, South Carolina, e Ostrava, anno 2004, rappresentano perfettamente quanto le è mancato nel successivo decennio: dopo un set dominato, Lucie ha smarrito la retta via fino a quel momento perseguita, contro avversarie di maggior esperienza. Un conto è che questo accada quando hai 17 anni – ma ci sono tenniste che alla stessa età palesano personalità da vendere – un altro a 27. E se con l’Italia ha da sempre mostrato un feeling particolare, cogliendo i primi due titoli a Bergamo e Capriolo, competizioni ITF che andavano per la maggiore a metà dello scorso decennio, è sintomatico che l’unico titolo WTA che Safarova si sia non solo aggiudicato, ma che è riuscita a perfino a bissare, è quello di Forest Hills, vale a dire la località dove un tempo si disputava lo U.S. Open. Manifestazione particolare, che si svolgeva la settimana antecedente a quella della grande kermesse di Flushing Meadows, con campo partecipanti bloccato a 16, in cui la ceca ha prestato visita in 3 occasioni: 2 titoli ed 1 sconfitta all’esordio. Vincere a Forest Hills nel 2000 non equivale a farlo negli anni 70, vincere questo torneo non vuol dire accaparrarsi uno Slam. E’ la vita, la sua vita.
Gli altri titoli sono stati conquistati, in quel 2005 che la vide cogliere il primo successo a New York, ad Estoril, partendo dalle quali e superando in finale la futura campionessa del Roland Garros Li Na (proprio lei), a Gold Coast contro Flavia Pennetta ad inizio 2006 e lo scorso autunno a Quebec City sempre nel periodo degli U.s. Open. Nonostante i tre titoli vinti in quel momento dell’anno, lo Slam statunitense è tradizionalmente il più avaro di soddisfazioni per la ragazza di Brno, che non è mai andata oltre il terzo turno, dove ha pure patito una tragica sconfitta nel 2011 contro la rumena Monica Niculescu: 6-0 6-1. All’Australian Open può vantare un quarto di finale, exploit del 2007, dove giunse senza perdere alcun set, prima di venire sconfitta dalla connazionale Nicole Vaidisova, mentre nel 2011 gettò alle ortiche il tie break del secondo set contro Vera Zvonareva, che avrebbe potuto trascinarla al terzo parziale di una partita molto equilibrata, valida per l’accesso agli ottavi di finale. Parigi è invece stato il teatro della maggior parte dei suoi amari rovesci Slam, da Anna Chakvetadze, nel 2007, contro cui vinse nettamente un set (6-0), prima di capitolare al terzo, a Jamie Hapton (7-9 al terzo) la scorsa stagione, passando per Venus Williams (5-7 al decider) nel 2009, Polona Hercog nel 2010 (secca sconfitta al secondo turno, sebbene venisse dal periodo migliore in carriera, con i quarti a Roma e la semifinale a Madrid) e Julia Goerges nel 2011 (dopo un inizio dominato venne clamorosamente rimontata a livello di secondo turno). Quest’anno è giunto il primo ottavo di finale, colto dopo un bellissima affermazione su Ana Ivanovic, Svetlana Kuznetsova si sarebbe però vigorosamente frapposta tra lei ed i quarti di finale.
Le cavalcate senza perdere set sono un’eventualità non così estemporanea nel pedigree di una tennista che fa del buon talento e della fragilità mentale il sale del proprio essere. Parimenti nello Wimbledon appena concluso Lucie è arrivata in semifinale senza dover ricorrere alla terza frazione, e purtroppo per lei non c’è stata storia affinché l’incontro che valeva un posto per la finale si potesse portare al parziale conclusivo, dal momento che la sua avversaria ed amica, Petra Kvitova, dopo un inizio un po’ ballerino, ha preso in mano le redini del gioco, come le sarebbe poi capitato nella sfida che metteva in palio la corona, riconquistata dopo tre stagioni. In tutta la carriera da professionista si erano fino a quest’anno incontrate una solta volta, nel 2012 a New Haven, ed a trionfare fu Petra, e così è accaduto in tutti e cinque i confronti avvenuti nel corso del 2014, l’anno in cui Lucie ha saputo trarre probabilmente il massimo dal proprio tennis, per quanto concerne la costanza – nel 2010 giocò bene qualche mese, non di più – ma andando incontro a mancati successi che avrebbero potuto farle svoltare la stagione già da prima.
Scritto dell’incontro con la Kvitova, come non ricordare il match contro Simona Halep ad Indian Wells – dopo aver perso male la prima frazione, Safarova aveva vinto il secondo e cominciato bene pure il terzo, prima di subire il ritorno rumeno: era un terzo turno, la Halep avrebbe poi colto la semifinale – ed i due confronti con Maria Sharapova. Il primo a Miami, sempre al terzo turno, tre ore di partita, nelle quali la ceca non ha mai avuto realmente la possibilità di portarla a casa, ma in cui ha retto contro una tennista che si sarebbe classificata per la semifinale, perdendo da Serena Williams, il secondo a Stoccarda, dove Lucie ha gettato alle ortiche una ghiotta occasione, dopo aver compiuto una rimonta clamorosa da 1-5 nel terzo set e non aver sfruttato un vantaggio di 6-5 30-0 e servizio: Maria si sarebbe poi aggiudicata quel torneo. Opportunità più o meno gettate, a cui Safarova pareva reagire in maniera sempre positiva, quasi invidiabile, che ci si augurava sarebbe stata prima o poi ricompensata. Poi, ripensandoci, dicevamo “No, sarà sempre così, ci siamo abituati”. E quelle dichiarazioni post-match in verità sembravano, più che un modo di rimanere serena nonostante la dura sconfitta, un modo per accettare un destino che la voleva bella in campo, ma perdente.
Ed invece Safarova non lo ha mai accettato ed ha continuato a lottare. Sudare sul campo, mentre fuori, dopo l’uragano Berdych, ha trovato una nuova serenità, che col tempo l’ha aiutata ad avere maggiore considerazione di se stessa. Questa semifinale, dopo la Fed Cup del 2012, potrebbe essere una piccola, e meritata, ciliegia, sulla torta, ma non è escluso che, d’ora innanzi, possa regalarci nuove sorprese. Non è che ci contiamo troppo, ma se si fosse immedesimata in questo nuovo ruolo, chi la fermerebbe più? Si tratta pur di sempre di abitudine.
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