Certe partite o certi tornei segnano per sempre un giocatore: che si tratti della sede del primo trionfo Slam, della prima vittoria in un torneo minore o dei primi quarti raggiunti nel circuito maggiore non importa. Rimangono nella testa del tennista e dei suoi fan quei ricordi positivi che negli anni, quando si torna a calcare quei palcoscenici, evocano splendide sensazioni che difficilmente riuscirà a dimenticare. Se la stessa cosa valga per quanto riguarda le sensazioni negative non è dato sapersi, in quanto spesso gli atleti di vertice tendono a sottolineare come sia importante per loro mettersi il più velocemente possibile alle spalle memorie nefaste ed episodi spiacevoli, ma nel recente passato la terra battuta, specialmente a livello femminile, è stata teatro di alcune tra le più grandi imprese (per lo sport in generale o a livello anche solo personale) del tennis dell’ultimo decennio. Per quanto rigurda l’Italia, la terra rossa ha fatto da cornice alle imprese di Francesca Schiavone a Parigi nel 2010 , quando riuscì a portare a casa il primo Slam in singolare al femminile nella storia del tennis nostrano, e nel 2011, quando riuscì a confermare la finale dell’anno precedente fermandosi però ad un passo da quello che sarebbe statico un bis quasi epico; anche Sara Errani ha avuto (e ha ancora oggi) nella terra il suo più fedele alleato, al punto di aver raggiunto la finale del Roland Garros nel 2012, persa contro un’inarrivabile Sharapova, la semifinale e i quarti delle due stagioni successive e la finale a Roma la scorsa stagione. Negli ultimi anni anche tenniste come Rezai e Martinez Sanchez hanno raggiunto risultati insperati sul rosso come, rispettivamente, le vittorie a Madrid e Roma del 2010, ma noi vogliamo tornare alla calda primavera del 2006, anno in cui Roma era sede di un torneo non ancora ‘combined’ puro e che non riusciva a richiamare ancora tutto il pubblico che oggi garantisce il tutto esaurito nella maggior parte delle sessioni previste.
Il 2006 è stato l’anno della prima Fed Cup vinta dall’Italia, primo vero tassello dei successi degli anni successivi di Schiavone, Pennetta, Vinci ed Errani; tuttavia, l’edizione di Roma di quell’anno è ricordata soprattutto, per quanto riguarda l’Italia, per l’inattesa corsa di Romina Oprandi, giocatrice estremamente talentuosa ma nota a pochi perché poco legata all’Italia in quanto cresciuta per lo più nel Paese di Federer, terra natale della madre. A suon di palle corte, colpi insidiosi in back, dritto solido e raffinati tocchi a rete passò le qualificazioni battendo giocatrici che non hanno fatto certamente la storia del tennis femminile come Diaz-Oliva e Sun, approdando così per la prima volta al main draw dell’evento tennistico italiano più famoso e blasonato. Senza eccessive pressioni sulle sue spalle, passo indenne l’esame Brandi (la giocatrice più forte di Porto Rico prima dell’arrivo ad alti livelli di Monica Puig), nonostante un match complicato e terminato al terzo set dopo aver dominato per 6-0 il primo, ha incontrato al secondo una giocatrice che negli anni a venire avrebbe raccolto risultati pesantissimi sul rosso: la Stosur all’epoca era già nella top 50 WTA, era additata da molti come una futura giocatrice di vertice ma nel 2006 era soprattutto nota per i risultati in doppio (formava la coppia numero uno di specialità insieme all’eterna Raymond) e le sue doti sul rosso erano ancora tutte da scoprire. Il 6-2 6-2 che le rifilò l’italo-elevetica faceva pensare a tutto fuorchè la possibilità per l’australiana di raggiungere una finale (persa nel 2010 contro la Schiavone) e due semifinali (2009 e 2012) sul rosso di Parigi, senza contare altri piazzamenti di rilievo sulla terra battuta come la finale a Roma nel 2011. Al terzo turno la ragnatela tessuta da una già incerottata Oprandi, vittima per tutta la sua carriera di ripetuti infortuni anche gravi a polso, ginocchia e avanbraccio in particolare, fu letale per una futura numero 2 e bi-finalista Slam come Vera Zvonareva, semifinalista nella precedente edizione del torneo romano e in cerca di risultati importanti per risalire la china dopo uno stop per problemi fisici e una crisi piuttosto evidente in termini di fiducia; a rendere più pesante quel vuoto di autostima che imperversava nella mente complicata della russa ci pensò Romina, che le lasciò un misero game, giocando colpi di assoluta classe che spesso fecero passare la Zvonareva come un’atleta inesperta e in balìa delle giocate divertenti ed insolite della sileziosa e timida tennista nata a Jegenstorf. L’approdo ai quarti, primo risultato di rilievo nella carriera della Oprandi, era sì stato insperato, ma molti appassionati di tennis si erano velocemente innamorati del tennis di una giocatrice che parlava poco e male la nostra lingua, ma capace allo stesso tempo di mettere d’accordo tutti attraverso le sue giocate che poco hanno ed avevano da sparire con il power tennis che imperversa nel terzo millennio. I quarti di finale, traguardo fatale all’altra italiana arrivata fino a quel punto, Flavia Pennetta, costetta alla resa di fronte alle geometrie assassine di una svizzera ben più titolata come la rediviva Martina Hingis, sembravano poter essere per la Oprandi già un traguardo sufficiente per la sua fiducia e la sua classifica, ma Romina non aveva certo intenzione di fermarsi. L’avversaria di quel caldo venerdì di maggio era una russa già vincitrice Slam, fresca di trionfo in un torneo “pesante” come Miami ed esperta nel’affrontare qualsiasi tipologia di avversaria: Svetlana Kuznetsova non aveva mai ne’ visto ne’ sentito nominare la Oprandi, ma dovette abituarsi in fretta al suo gioco atipico per i nostri giorni. Il match divenne una lotta tra la potenza della russa e il gioco a tutto campo della “nostra”, anche se inizialmente la moscovita sembrò avere la meglio: in poco piu di un’ora finì avanti 6-4 4-1, pensando che avrebbe risparmiato energie preziose in vista dei turni successivi. La nostra però non mollò e, spinta da un caloroso pubblico che mai aveva e avrebbe avuto nella sua carriera, recuperò lo svantaggio di un set e si portò avanti per 5-3 nella terza frazione, ad un solo punto da una storica semifinale che all’Italia mancava da 21 anni (ci avrebbe poi pensato la Errani, giunta addirittura in finale nella passata edizione, a porre fine a questa lunga stricia per noi negativa). Una prima carica ma non trascendentale della russa costrinse la Oprandi a una risposta choppata di dritto che terminò di poco larga in corridoio e anche i tentativi successivi di chiudere il match in suo favore si rivelarono vani. Il 6-4 5-7 7-6(4) che permise alla Kuznetsova, quell’anno poi finalista a Parigi contro un’inarrivabile Henin e trionfatrice nel 2009 proprio al Bois de Boulogne, non racconta di tutte le emozioni che un’inaspettata Oprandi visse sulla propria pelle, passando da essere una tennista semisconosciuta anche a chi seguiva piuttosto assiduamente il tennis ai tempi ad improvvisa star ed eroina del Foro nel giro di una manciata di giorni.
Per quanto riguarda il torneo, la Kuznetsova si arrese in semifinale nel derby contro la futura numero 1 Safina, la quale perse la finale per 6-2 7-5 contro Martina Hingis, la svizzera che era da poco rientrata a disputare match ufficiali dopo uno stop di 4 anni ma che un po’ tutti aspettavano nelle fasi salienti del torneo. La svizzera (la Oprandi sarebbe diventata elvetica a tutti gli effetti nel 2012) che però colpì di più i tifosi fu una giocatrice che nessuno aspettava in quelle fasi del torneo e che nessuno pensava potesse esprimere un livello di gioco tanto alto. Quello può essere considerato uno dei pochi picchi della carriera della Oprandi, che ha vissuto una carriera di alti e bassi tra cambi repentini di coach, nazionalità e stato di forma, ma ancora oggi rimane negli occhi di chi ricorda quei giorni di maggio quel tennis di classe, pura geometria ed intelligenza formatosi nella terra dei cantoni, del cucù e del cioccolato; e non per forza quel tennis portava esclusivamente il marchio “Hingis”.