di Alessandro Mastroluca
Una scelta d’ambizione, per uscire dalla prigionia del sogno. Anche Agnieszka Radwanska avrà il suo super-coach, come Federer, come Djokovic, come Nishikori, come Cilic, come Murray. Aga ha voluto nel suo staff Martina Navratilova, che lavorerà insieme al suo attuale coach, Tomasz Wiktorowski, a partire dalle prime sedute di allenamento dopo Natale a Miami. «Mi sono illuminata quando Agnieszka mi ha chiesto di collaborare con lei come tecnico, ma tornare in modalità partita con tutto lo stress delle competizioni non sarà facile». L’obiettivo di Radwanska è chiaro: vincere uno slam, almeno uno. «I suoi trionfi parlano da soli, è sempre stata il mio idolo, abbiamo più o meno lo stesso approccio col tennis e la vita. Sono certa che Martina sarà decisiva per la mia carriera».
È una decisione finanche tardiva, questa, perché da almeno due stagioni Radwanska continua a galleggiare appena sotto l’eccellenza, a comparire in tutte le selezioni dei colpi più spettacolari della stagione e perdere tanti, troppi treni. Tante, troppe occasioni. E soprattutto l’anno scorso la ripetitività delle sconfitte, nell’approccio e nei modi, si è fatta perfino prevedibile. Una macchia fatale per chi gioca un tennis di insostenibile leggerezza che richiede la costante invenzione di nuove geometrie. Invece, la fenomenologia della Maga più recente è uno stanco ripetersi, piatto e indolente, che non brilla e non fa male, una pervicace replica di un copione grigio e già scritto, un testardo insistere nel non cambiare nulla e sperare invano che tutto cambi.
Certo, ha comunque chiuso il 2014 con un titolo Premier a Montreal, la finale incerottata persa a Indian Wells da una raggiante Flavia Pennetta, al più importante successo in carriera, la semifinale a Madrid e agli Australian Open. Ma allo stesso tempo ha chiuso con la sensazione di un gap cresciuto con le top-3, e con troppi rimpianti per le svolte mancate negli Slam.
L’epifania è già in Australia. Batte Azarenka, è la favorita con Sharapova e Serena Williams già fuori, ma quando il gioco si fa duro gioca una partita incomprensibile contro Dominika Cibulkova. Il 61 62 finale parla da solo. A Parigi situazione simile. Fuori Na Li e Serena, Radwanska si presenta al terzo turno contro Ajla Tomljanovic da prima favorita o quasi e si perde: 64 64. Si perde e non sa tornare, Aga, che anche nel Wimbledon delle sorprese (anche se non è il Wimblegeddon del 2013), si ritrova con il tabellone clamorosamente aperto ma agli ottavi fa quattro game con Ekaterina Makarova. Agli Us Open va anche peggio: fuori al secondo turno con Shuai Peng, ed è il modo, la misura, l’atteggiamento, che stupisce più della sconfitta.
Il Masters finale conferma tutta la discontinuità di Aga, cui sembra attagliarsi uno storico titolo di un quotidiano brasiliano per la squadra della Fluminense, celebre per le sconfitte in finale e i secondi posti: “I campioni del quasi”. Ecco, Aga è una campionessa del quasi, che ha scelto di affidarsi a chi il quasi non sa nemmeno cos’è, a chi sa bene quanto un coach possa contare nella carriera di un tennista.
Nel 1981, sei anni dopo la richiesta di asilo politico negli Usa, la sua carriera tocca il suo punto più basso. Ha vinto il suo primo slam, a Wimbledon nel 1978 quando non era già più cecoslovacca ma non ancora americana, ed è diventata numero 1 del mondo. A marzo, però, a Amelia Island, perde 60 60 da Chris Evert. È il momento della svolta. Perché lì incontra Nancy Lieberman, “Lady Magic”, la più grande giocatrice nella storia del basket, che attraversava New York in metro di sera per sfidare i ragazzi di Harlem. È a lei, argento olimpico a Montreal nella prima edizione dei Giochi in cui compare il basket femminile, che Martina si affida per dare una svolta alla sua carriera e per conquistare New York dopo tre semifinali perse da Wendy Turnbull, Pam Shriver e Tracy Austin, e l’eliminazione agli ottavi nel 1980 contro Hana Mandlikova.
A Flushing Meadows c’è una Navratilova diversa in campo. Ha imparato il valore della preparazione atletica, e aggiunto un po’ di pensiero laterale grazie a Renée Richards, la transessuale che ha battuto al primo turno e scambia con Martina, assiste agli allenamenti e alle partite, e le dà una serie di consigli strategici, stupita dalla poca attenzione che la due volte campionessa di Wimbledon metteva agli aspetti tattici del suo gioco. Il duo Lieberman-Richards diventa subito il Team Navratilova. È l’inizio di una rivoluzione: Martina vincerà 442 partite su 474 tra il 1981 e il 1989.
Ne perde solo una nel 1983. E’ probabilmente la miglior stagione tennistica di sempre, più del 1984 di McEnroe (82-3), del 1988 di Steffi Graf, che ha chiuso l’anno del Golden Slam con 72 vittorie e 3 sconfitte, più dei due anni migliori di Roger Federer (81-4 nel 2004, 92-5 nel 2005), più del 2011 di Djokovic, più anche del 1969 di Rod Laver, che ha perso 15 volte nell’anno in cui ha realizzato il Grande Slam. Cede 64 06 63 alla 17enne Kathleen Horvat, cresciuta a Hopewell Junction e allenata dal leggendario Harry Hopman, al Roland Garros. Dopo quella partita, Martina cambia coach e decide di affidarsi a Mike Estep. “Perché, ti serve un coach?” le chiede, “sei numero 1 del mondo”. “Sì” risponde, “non ho mai vinto il Grande Slam. E poi vorrei diventare la più giocatrice mai esistita”. Con cui vincerà dieci titoli dello slam tra il 1983 e il 1986.
E adesso Martina, che ha tentato di scalare il Kilimangiaro, che ha partecipato a Ballando con le stelle Usa e sconfitto un cancro al seno, è pronta a vincerne altri di Slam. Un nuovo ruolo, una nuova sfida. Un altro giro di giostra.
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