Il centrale di Flushing Meadows non è mai sembrato così grande come quel sabato pomeriggio. Il tunnel che porta al campo sembra non finire mai, le gambe sono rigide, la braccia sembrano addormentate. Il rumore della folla che la aspetta là fuori fa battere forte il cuore e accelera il respiro. Flavia Pennetta sa che con lei in quel tunnel c’è Roberta Vinci, l’amica di sempre, la conterranea con cui ha scalato le classifiche mondiali sin dai tempi dei junior: che scherzo del destino, a quasi vent’anni da quando si giocavano i titoli italiani di categoria si ritrovano ora a giocarsi la finale più importante delle loro carriere. Lì fuori c’è la storia ad aspettarle, ma il lungo camminare attraverso quel tunnel non può che portare la mente indietro, al lontano 1997.
Ha 15 anni, è piccolina e si diverte a fare il maschiaccio quando non gioca a tennis, è cresciuta sulla terra rossa della sua amata Puglia ed è proprio vicino a casa, a Galatina, che sta per fare il debutto Flavia. Ha sempre vissuto con agitazione i match, ma quel giorno più che mai ci sono eccitazione e paura. L’incontro dura pochissimo: due giochi soltanto e la sua avversaria si ritira. Non è come lo sognava, ma al primo match ITF è arrivata la prima vittoria e si sente la ragazzina più felice del mondo. Un anno più tardi torna a calcare la terra di casa, questa volta proprio nella sua Brindisi e in coppia con quella ragazzina tutto pepe, l’amica Robertina da Taranto, trionfa in doppio: è il loro primo successo, un suggellamento della loro amicizia.
In una corsa frenetica arrivano per Flavia il primo titolo in singolare a Cagliari e un ranking junior che in doppio sale vertiginosamente fino alla seconda piazza mondiale. Sempre in coppia con Roberta nel 1999 conquista il titolo del Roland Garros battendo in finale Kim Cljisters. Poco dopo in Friuli, a Grado, conquista il primo torneo $25k ed inizia la scalata del ranking mondiale anche tra le professioniste.
Da fuori dello stadio arriva sempre più insistente il rumore dei fan, sono tanti, tantissimi, quel campo è un catino gigante e quel giorno sono tutti lì per vedere del bel tennis. Non c’è più Serena, non c’è più il sogno di un Grande Slam americano, ci sono due veterane azzurre, due straniere che hanno imparato a farsi amare anche oltreoceano. Lo sa Flavia che sarà come giocare in campo neutro, perché per l’Italia entrambe hanno già vinto, ma solo una di loro solleverà il trofeo davanti a milioni di tifosi incollati al televisore. “Non parlatemi di tifo,” disse una volta la brindisina in un’intervista. “A me la parola non fa venire in mente i sostenitori sugli spalti, ma uno dei momenti più brutti della mia vita. Io ho avuto il tifo, una malattia che nel mondo occidentale sembrerebbe scomparsa. Beh, è capitato a me.”
Era il 2001, il sogno di essere una tennista professionista a tutti gli effetti era ormai a portata di mano, ma durante una trasferta a Dubai qualcosa è andato storto, ha cominciato a sentirsi male, debole e febbricitante. Tornata a Milano, dove si allenava e divideva la stanza con la cugina Fiorella, la situazione non migliora: le dicono che è influenza e lei continua ad aspettare di ristabilirsi, ma questo non succede. Poi le cose peggiorano, viene portata via in ambulanza e messa in isolamento: ha il tifo. Costretta ad uno stop lunghissimo, quando esce dall’ospedale si trova 11 chili più magra ma più decisa che mai. Il tennis le è mancato, tanto, ma come diverrà consuetudine nella sua vita, dalle difficoltà ne è emersa più saggia: “Io credo che ciascuno di noi abbia una dote: non sfruttarla è delitto, di qualsiasi dote si tratti,” scrive nel suo libro. “La passione è un’altra cosa. Non penso che valga la pena soffrire e lottare per una passione quando le doti sono altre.” La scelta è fatta, se entro i 21 anni non avrà fatto il salto di qualità, prenderà un’altra strada.
Più motivata, più organizzata, più matura, nel 2002 entra tra le top 100, di poco, è numero 95, ma tanto basta per mantener fede alla promessa fattasi: il tennis è una sua dote, vale la pena soffrire per essa.
Nel 2004 a Roma si respira un’aria nuova, il tennis italiano sta faticando, ma il campo secondario è comunque pieno: gioca una bella pugliese contro la numero 6 del mondo Nadia Petrova. Se il primo set è stata una carneficina a cui pochi hanno avuto il coraggio di assistere, il secondo si è trasformato in una battaglia ed ora lo stadio tutto è lì per sostenere la giovane ed atletica Pennetta opposta ad un carrarmato di retaggio sovietico come la Petrova. Questa tira forte, anzi, fortissimo, nemmeno la terra romana riesce a rallentarne le pallate. Il primo set è volato via 6-1 in suo favore, ma l’azzurra ha messo in piedi una tattica efficace nel secondo: muovendo la russa a destra e sinistra, con palle cariche o tagliate, poi, con la più antica delle combinazioni di tocco, la mette in ginocchio con continue palle corte e pallonetti. Lo stadio esplode per l’impresa: è la prima vittoria della ventiduenne su una top 10. Quell’anno le regalerà anche il primo titolo WTA, sempre sul rosso, in Polonia, a Sopot.
Lo speaker le sta annunciando, l’accento americano non perdona la pronuncia del suo cognome che costantemente viene storpiato oltreoceano, ma lei non se ne risente. Come tanti italiani hanno fatto fortuna il secolo scorso, anche Flavia ha vissuto il suo sogno americano, perché da terraiola è diventata specialista di questi campi duri, spesso veloci, e ora, mentre il pubblico esplode in un’ovazione per il suo ingresso in campo, lei sistema la borsa con il solito rituale e guarda il polso destro bendato. Quante volte è stata ad un passo dalla storia ed aveva fallito? Quella fasciatura glielo ricordava, ora più che mai. Ora che si giocava uno slam in singolare, il sogno di una vita, di una carriera, quel sogno che aveva cominciato a prendere forma proprio quando quel polso l’aveva abbandonata.
Era il 2006, era entrata tra le prime 20 giocatrici del mondo, aveva accanto a sé l’uomo che voleva presto sposare, il tennis li aveva uniti, lei e Carlos Moya, la coppia più bella del circuito, scrivevano in molti: lui ex numero uno del mondo, lei la bella tennista italiana di successo. Poi un infortunio al polso, grave, ma l’Italia ha bisogno dei lei, a Charleroi sfidano il Belgio per il primo titolo di una Fed Cup mai arrivata nel bel paese. Lei combatte contro la fortissima Justin Henin, ci va vicina, ma perde. Il polso però le fa malissimo e non giocherà più in quel weekend storico per le azzurre, la gioia per la conquista del trofeo è a metà, dovrà operarsi e rientrare dopo un lungo stop. Nel mentre la relazione con Moya entra in crisi: escono foto che lo ritraggono con un’altra, i progetti di matrimonio vanno in frantumi. Il tennis, se possibile, va anche peggio. Ridotta ad uno scheletro, consumata dalla rabbia e dall’infelicità, la Pennetta si immerge nell’unica cura che conosce: la fatica, il lavoro, il campo da tennis. Sul cemento di Bangkok sconfigge Venus Williams, vince il primo titolo sul duro e si lancia all’attacco dei vertici mondiali con un fuoco fino ad allora sconosciuto. Il 2008 però diventa l’anno delle occasioni mancate: al Roland Garros gioca l’ultimo match di giornata contro Venus e sul fango parigino ne ha la meglio, ma al quarto turno gioca contro la sconosciuta Carla Suarez Navarro per un posto ai quarti di finale e la paura la attanaglia e viene eliminata. I quarti arriveranno insperati e bellissimi agli US Open. In un finale di stagione segnato dai tanti infortuni tra le top si trova in lotta con Nadia Petrova per un posto alle finali di Doha. Le speranze non sono molte ma l’ultima chiamata è il torneo di Quebec City, quando arriva improvvisa e terribile la notizia della scomparsa di Federico Luzzi. È il 25 Ottobre 2008, lui è una delle persone più care a Flavia, il migliore amico di una vita, ma in quegli anni più che mai. Lei cancella il volo, dimentica il duello con la Petrova e sceglie di essergli vicino il giorno dell’ultimo addio.
L’anno dopo è quello della magia, il 2009 è l’anno in cui l’azzurra ha rotto la maledizione della top 10, quel dannato 10 che non voleva arridere all’Italia, ma lei è stata più forte, anzi è stata fortissima: ha vinto Palermo, poi è volata a Los Angeles, dove un anno prima aveva perso in finale dalla sua bestia nera Dinara Safina, e lì ha messo in riga la solita Petrova, Vera Zvonareva, Maria Sharapova ed in finale Sam Stosur. Ma ancora non bastava, quel numero 10 era così vicino, ma ancora così lontano: a Cincinnati batte Venus per l’ennesima volta ed eguaglia il punteggio di Ana Ivanovic. Sarebbe decima, ma non lo è, perché un cavillo del regolamento non consente gli ex-equo: deve battere Daniela Hantuchova se vuole quel traguardo. Strapazza la slovacca ed è fatta, l’attesa lunga tutta la storia del tennis è rotta, un’italiana è tra le prime 10 del mondo! L’estate più bella della sua carriera la porterà al secondo quarto di finale consecutivo a New York, dove agli ottavi giocherà uno dei match più belli ed intensi della storia del tennis azzurro, annullando sei match point alla Zvonareva prima di chiudere al terzo set. Anche quell’anno però il posto al Master le sfugge in un rush finale e il destino sembrò chiuderle l’ultima porta per quella competizione.
Flavia cammina verso la rete, sia lei che Roberta non si erano mai spinte così in là in un torneo dello slam, non in singolare. Loro due, da sempre ottime doppiste, hanno già vinto a livello slam in doppio ed entrambe sono state numero uno nella disciplina, ma il singolare è un’altra cosa, in campo sei solo, non c’è nessuno con cui trainarti, nessuno con cui dividere la responsabilità di un punto, un break point, un match point…Gisela Dulko la starà sicuramente guardando da casa, ne è certa, Gise ci ha sempre creduto, forse per questo ci ha creduto sempre anche lei stessa.
Era il 2010, in singolare le cose non erano andate male, ma nemmeno come nei fasti dell’anno prima. In coppia con l’amica Dulko, però, succede qualcosa di magico, qualcosa che nessun italiano, maschio o donna che fosse, era mai riuscito a fare. La coppia rinominata Dulketta dai fan si qualifica per il master di Doha, quello sfuggito per tanti anni in singolare, e un volta lì fa a pezzi la concorrenza ed alza il trofeo che nessun italiano aveva mai alzato prima. A Gennaio poi la consacrazione con il titolo agli Australian Open e il primato mondiale spartito con l’amica argentina.
Il ritorno sul cemento di New York, come da qualche anno a quella parte, le riaccende forti emozioni e al terzo turno elimina ancora una volta la Sharapova, numero 3 del mondo, quindi passa Shuai Peng in due set, nonostante un colpo di calore e uno svantaggio di 6-2 nel tiebreak. Ai quarti c’è Angelique Kerber, tedesca ancora sconosciuta, numero 93 del mondo arrivata fin lì pochi mesi dopo aver quasi appeso la racchetta al chiodo, ma convinta a non mollare da Andrea Petkovic. Il flashback è lo stesso del Roland Garros di qualche anno prima, Flavia è imbrigliata dalla paura, la semifinale è a portata di mano e ad aspettarla c’è Samantha Stosur con cui non ha mai perso. L’occasione è ghiotta e la pressione la schiaccia, perde il primo set, poi rimonta, si porta avanti di un break nel terzo, ma infine soccombe. Di nuovo così vicina, eppure così lontana. A ottobre si toglie la soddisfazione di essere una delle pochissime nella storia ad aver battuto le numero 1 del mondo in singolare e doppio lo stesso giorno. Ma la delusione per quella sconfitta rimane e brucia ancora di più quando per tutto l’anno successivo litiga con un fisico malandato. A Roma vive una settimana che sembra da sogno, gioca benissimo, regola diverse avversario di gran calibro e davanti ad un centrale gremito inizia benissimo contro Serena Williams: ha due palle break, l’americana sembra svogliata, l’azzurra prova una smorzata, ma il polso cede. Quel polso operato nel 2006 fa male di nuovo, fa malissimo, è costretta al ritiro. Con le olimpiadi prova a tenere botta, ma ad Agosto non ce la fa più, chiude la stagione anzitempo, a 30 anni si opera di nuovo al polso, in pochi credono possa tornare di nuovo competitiva.
Mentre inizia il palleggio per quella finale storica per i colori italiani, la prima in cui due tennisti italiani si affrontano per un titolo slam, la prima finale di un italiano al di fuori del Roland Garros, Flavia si guarda attorno e memorizza ogni istante di quanto la circonda: ogni rumore, ogni emozione, ogni luce. Aveva già preso la sua decisione, ma mai come in quel momento si sentiva vicina al proprio ritiro dal mondo del tennis, lei che lo era già stata non più tardi di due anni prima, così poco, eppure una vita fa.
164 è il numero che legge Flavia vicino al suo nome quando si presenta alle qualificazioni del torneo di Strasburgo. Non cadeva così in basso da moltissimi anni, le vittorie non arrivavano, la fiducia era sempre meno. A Parigi perde al primo turno, a Wimbledon entra grazie ad un ranking protetto ma si sente stanca, si sente fiacca, per la prima volta in carriera si sente vecchia. Come dopo il tifo si fa una promessa, a fine torneo deciderà che fare. Al primo turno batte Elena Baltacha, poi gli Dei del tennis le sorridono, perché Victoria Azarenka, numero due del mondo, non può scendere in campo dopo l’infortunio del primo turno e quindi senza muovere un dito si ritrova al terzo turno dei Championships. Lì trova Alizé Cornet, non ci ha mai perso, ma quel giorno sull’erba londinese la transalpina sembra avere il fantasma di Suzanne Lenglen in sé: recupera tutto, tira forte, gioca smorzate e volée perfette. In un batter di ciglia fa suo il primo set 6-0. Ma non ci stava Flavia ad uscire così, ci mette tutto in campo, soprattutto quella cattiveria che sembrava persa con l’operazione. Il tennis di entrambe è di altissimo livello, ma è l’azzurra a prendere il largo, poi si inceppa, dal 5-1 per lei si trova sotto 5-6. Non respira che a fatica, le gira la testa, sta male. Chiama il trainer ma sa benissimo cos’è, a 7 anni per la stessa cosa era svenuta in campo e l’avevano portata in ospedale: un attacco di panico. Si sgrida da sola, “è solo un match di tennis,” si dice, rientra in campo, torna a lottare ed infine a vincere. Perderà agli ottavi con la stessa Kirsten Flipkens che l’aveva eliminata a Parigi, ma decide di continuare. A New York poi cancella la paura del passato e con una cavalcata magnifica arriva in semifinale, fermata solo dall’Azarenka che in qualche modo aveva evitato si ritirasse qualche mese prima.
Sul cemento si sente più forte che mai, non è più solo New York ad ispirarla, a Melbourne conquista il primo quarto di finale slam fuori dagli Stati Uniti, poi ben si comporta in Medio-oriente e si presenta ad Indian Wells carica come non mai, in un torneo dove storicamente non era mai andata bene. Lei però sa di essere più forte della storia, ormai l’ha riscritta troppe volte per fermarsi: gioca sempre meglio con il passare dei turni, batte avversarie insidiose, si erge più forte della tempesta di sabbia che per poco non compromette il match con Sloane Stephens e poi in due set elimina Li Na, fresca vincitrice degli Australian Open, e Agnieszka Radwanska. È la prima italiana a conquistare un Premier Mandatory. Sulla via di un ritorno tra le prime 10 del mondo, però, le energie la disertano, i risultati si perdono e solo a New York torna a ruggire con l’ennesimo quarto di finale. Nonostante tutto, nonostante i successi e le grandi soddisfazioni, una voce dentro la sua testa le continua a dire che è tempo di accasarsi, quel sogno di metter su famiglia che il tradimento di Moya aveva messo in un angolo ora tornava più forte. Vicino ha l’uomo che ama, quel Fabio Fognini di cui lei ha trovato il lato gentile che in campo non mostra spesso. Vuole una famiglia, ma al contempo l’agonista in lei vuole uscire con stile.
Non c’è stato nulla di facile nella sua carriera, si è sempre presa tutto nuotando controcorrente, soprattutto contro la storia. A questi US Open si è presentata dopo una stagione deludente, in questo Roberta la assomiglia tanto. Hanno due storie diverse le loro fatiche, ma entrambe si sono mostrate lontane dalla loro forma migliore fino a quell’estate. Roberta era risorta già nei tornei di preparazione agli US Open, Flavia aveva fatto bene ad Indian Wells e Miami, ma nessuno se le aspettava protagoniste a Flushing Meadows. Mentre aspettano il “time” dell’arbitro per dare inizio al match, Flavia pensa a quanto incredibile tutto quello fosse: Roberta aveva fermato Serena Williams, aveva messo fine al sogno di chiudere il Grande Slam all’incontrastata numero uno del mondo. Lei stessa aveva dovuto battere Stosur, Kvitova e Halep per arrivare fino a lì e ora tutti la davano per favorita. Prende un grosso respiro e va a rispondere. La paura è una sola, quella di rivivere l’ennesima beffa di una carriera in cui da favorita non è quasi mai riuscita ad imporsi. Man mano ingrana il suo gioco, sente il suo rovescio, lotta su ogni punto, come anche Roberta fa con determinazione. Non fosse per il fondo blu del cemento americano e il volto ed il corpo più maturi di entrambe, potrebbe essere il ricordo di uno dei tantissimi match giocati sul rosso della loro Puglia.
Arriva al match point la brindisina: è stata una battaglia di nervi, ma ne è uscita vincitrice, quell’ultimo colpo è quasi una formalità, la palla schizza via, pulita e potente come milioni, miliardi di altre volte, ma questa ha un rumore nuovo, il suono che vale il trofeo sognato fin da bambina. Lancia la racchetta in aria ed il pubblico esplode in un boato. Ce l’ha fatta, è un’emozione indescrivibile, abbraccia Roberta a rete e le due non si staccano, quasi abbiano paura che il lasciarsi avrebbe infranto il sogno. Sono troppo amiche perché la gioia di una non sia quella dell’altra, si siedono sulla stessa panchina e mentre viene allestito il palco delle premiazioni ridono e scherzano come aspettassero il bus che le riporti all’Acquacetosa come tanti anni addietro.
La cerimonia è divertente, Roberta è una show woman nata, scherza e fa ridere il pubblico tutto, Flavia solleva il trofeo, poi chiede di dire un’ultima parola e mentre a casa i suoi tifosi e l’Italia tutta ancora saltano di gioia per quanto appena successo, lei si libera di un peso che aveva in sé. Con semplicità annuncia che quello sarebbe stato il suo ultimo match in uno slam, che a fine anno avrebbe appeso la racchetta al chiodo. Il mondo sembra fermarsi un istante, poi è un tripudio di applausi. Con stile e classe, proprio quelle del suo gioco e del suo modo di essere, aveva deciso di lasciare il mondo del tennis.
Un’ultima sfida però l’aspettava, un’ultima vendetta contro il destino beffardo, un ultimo tributo anche ad un amico scomparso: qualificarsi per le WTA Finals. La pressione, quella nemica sconfitta a New York, torna a fare capolino in Asia, ma per il rotto della cuffia a Mosca agguanta la qualificazione e il 25 Ottobre, a 7 anni precisi dalla scomparsa di Federico, scende in campo a Singapore per l’ultimo atto di una carriera da film. Con la Halep debutta male, contratta e poco incisiva, ma con la Radwanska si riscatta, trova il suo miglior tennis e con esso la prima vittoria al Master in singolare. In questo suo ultimo torneo della carriera le sue possibilità di accedere alle semifinali, di ritardare quell’ultimo match, sono legate ad un incontro con Maria Sharapova, l’ennesimo delle loro carriere così diverse, perché diverse sono le due: una gelida, l’altra focosa, una potente, l’altra ingegnosa. Ma entrambe accomunate da due cose: il talento e la capacità di risorgere dalle proprie ceneri. Non si sono mai amate le due, ma c’è sempre stato rispetto e quel rispetto la siberiana l’ha mostrato portando il miglior match dell’anno proprio nell’ultimo atto della carriera dell’azzurra. Flavia aveva bisogno solamente di un set per passare il girone ed accedere ad una storica semifinale, ma pur giocando un match di gran cuore e gran classe, nulla ha potuto contro una Sharapova che non giocava così bene da moltissimo tempo.
Ci mancherai Flavia, ci mancherà il tuo rovescio, il tuo carattere, il tuo continuo lottare per i tuoi sogni. Le tue vittorie, le tue sconfitte, i tuoi ritorni e il tuo finale da favola sono stati un ispirazione per tutti, perché hai mostrato che non ci sono sogni troppo grandi per chi ha il coraggio di lottare contro tutto fino alla fine.
Grazie.
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