Di Giulio Gasparin (@giuliogasparin)
Ha appena sprecato un match point Coco Vandeweghe, ma ce ne sono altri due per lei con il servizio a favore, quel servizio che tanto le ha regalato in questa settimana, come in tutta la sua giovane carriera. Dall’altra parte della rete c’è Sam Stosur, che di erbivoro non ha nemmeno la dieta, ma l’avversario più insidioso è nella metà del campo dell’americana, perché in palio c’è il primo biglietto per un quarto turno slam, perché dopo aver battuto Karolina Pliskova è lei la favorita per la vittoria, perché poco più di 12 mesi fa lei era 243 al mondo, perché i match possono sempre girare, perché di perché ce ne sono tanti, forse troppi. Qualcuno mormora negli spalti e lei sorride, anzi abbozza una piccola risata. La prima non entra, ma invece che irrigidirsi trova una bella seconda e il punto arriva di lì a poco e con esso la tanta agognata prima apparizione alla seconda settimana di un torneo dello slam. Si lascia andare ad un sorriso gioioso ma contenuto, diverso da quello che forse sarebbe apparso anche solo lo scorso anno.
Classe 1991, nata a New York ma californiana di sangue e carattere, Coco Vandeweghe porta da sempre addosso il peso di una famiglia che è un pilastro dello sport americano: la madre Tauna ha partecipato alle Olimpiadi del 1976 nel nuoto e poi è entrata nella nazionale di pallavolo, destino poi seguito dal fratello di Coco, Beau. La nonna è stata miss America, il nonno ha giocato nei NY Knicks, mentre lo zio è una sorta di leggenda del basket NBA. Mostrando talento e amore per il tennis vi si è lanciata la giovane Vandeweghe, mostrando da subito innate doti al servizio, ma anche un caratterino tutt’altro che facile. È salita alle luci della ribalta nel 2012 quando ripescata come Lucky Loser al torneo di Stanford ha raggiunto la finale, battuta solo da Serena Williams, ma mostrando grandi capacità di lotta anche con un mostro sacro come l’attuale numero uno del mondo. Da lì però se ne perse traccia, tanto che quando la vidi di persona a Nottingham lo scorso anno il ranking mostrava un eloquente numero a tre cifre, la prima delle quali un 2.
Pauso qui la storia della sua crescita per raccontare di un terzo set che le vidi giocare contro Michelle Larcher de Brito, perché in un certo modo sarebbe stato come se quell’ultima eruzione di caratteraccio avesse messo fine alla vecchia Coco, quella arrogante e incontrollata, quella che per poco non veniva alle mani con Julia Putintseva, che l’aveva accusata di essere fortunata di avere il servizio perché il resto del suo gioco faceva schifo. Ad ogni modo, la Vandeweghe si trovava sotto 5-2 nel terzo set contro la portoghese e in quei 7 giochi l’americana aveva sfasciato una sedia di plastica lanciando la propria racchetta dopo un doppio fallo, mentre alla sua visiera era toccata la sorte di un disco scagliato da Jürgen Schult. Dopo l’ennesimo doppio fallo l’americana ha tirato una prima che avrebbe fatto sembrare la Errani Isner, ma questa si è fermata a rete. Un secondo più tardi avrebbe fatto ace di seconda con la palla più forte scagliata in tutto il match. Da lì in avanti solo vincenti fino al 5-5, salvo poi arrendersi nuovamente ed andarsene fumante di rabbia.
Due settimane più tardi avrebbe servito 81 ace in 7 match per vincere il primo titolo in carriera a s’Hertogenbosch, l’unico fino ad oggi, eppure quella settimana qualcosa le successe e da allora è come se fosse maturata e totalmente cambiata: più tranquilla, più ordinata, senza eccessi di gioia o frustrazione, senza paura di mostrarsi anche nelle sue debolezze ogni tanto, sia in campo che nelle sale stampa. Agli Australian Open quest’anno aveva catturato il suo primo terzo turno slam in carriera giocando un match ai limiti della perfezione contro la beniamina di casa Sam Stosur e poi si era confessata in sala stampa, dicendo come la ragazza viziata che aveva fatto finale a Stanford non fosse che una facciata di difesa, mentre ora si sentiva matura e sicura di sé, non solo come giocatrice, ma anche come persona. Avrebbe poi perso a sorpresa nel match successivo con Madison Brengle e a sorpresa nei mesi successivi i risultati hanno scarseggiato, tanto che all’arrivo in terra d’Olanda per difendere il titolo, la Vandeweghe poteva contare solo 3 vittorie da quel terzo turno australiano. Ciononostante non ha perso il sorriso, ha mostrato calma e, seppur non giocando al meglio, è tornata a vincere match e, pur non difendendo il trofeo, ha acquisito fiducia e si è portata a questo Wimbledon conscia di non aver nulla da dimostrare. Lei che a lungo è stata catalogata come “solo servizio”, ad oggi mostra un dritto lineare e potente, mentre il rovescio è meno naturale, eppure altrettanto letale ed oggi ha cancellato i fantasmi di un’intera carriera, battendo un’avversaria con cui era favorita, un’avversaria già battuta e sulla propria superficie preferita, nonché la peggiore dell’altra, un’avversaria che si frapponeva tra sé e il primo ottavo di finale.
Non vincerà questo torneo e con ogni probabilità non ne vincerà mai uno di torneo dello slam la tennista a stelle e strisce, ma questo non vuol dire che la sua storia non sia affascinante, perché rimane la storia della crescita di una donna, sbocciata da un’aiuola già piena di rose pregiate, lei che forse è più una stella alpina, forse meno bella nel senso più comune, ma non per questo meno preziosa.
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