di Piero Emmolo
“If Karolina Pliskova gets quicker, she will be a top notch player for sure! Fun to watch, aces, winners, great timing: young gun!“. Il tweet del giorno. Che balza da bacheca a bacheca. Da forum a forum. Con grande velocità di propagazione. Il classico lampo di lungimirante saggezza valutativa di un Della Vida o Bollettieri “qualsiasi”, si potrebbe pensare. Ma ad arrogarsi questo ruolo di talent-scout cibernautico è stato nientemeno che Andy Murray che, nella suo recente ed impetuoso profluvio di attività di social-sharing, è rimasto impressionato davanti alla TV dalla esplosività e dal tennis fuori dai canoni di una stangona ceca di centimetri 186. Dai gesti fluidi e lineari. Apparentemente parchi di fatica. E un body language da veterana: tanto nell’emotività caratteriale, diremmo ” british “, per stare in ambito semantico albionico, quanto in quell’andatura dinoccolata, quasi anserina, cadenzata da quelle lunghe leve inferiori come fossero due asticelle di un direttore d’orchestra. Gli occhi di un ghiaccio husky e la pelle candida e biancastra, quasi “sporcata” nella sua purezza epidermica da due vistosi tattoo.
La protagonista della nostra breve riflessione ha un tennis che và al di là degli standardizzati parametri tecnici moderni. Dei fatidici e stakanovistici “corri e tira”. Quasi unica, diremmo, in uno sport che sempre più velocemente si arena verso una “pericolosa” deriva di omogeneizzazione qualitativa di tecnica ed estro. Eppure Madre Natura, forse titubante nell’attribuire tutto quel talento nel braccio di una sola bambina, la mise alla luce gemella. Mamma Martina e papà Radek le chiamarono Krystina e Karolina. E mai avrebbero potuto avere così tanta lungimiranza da pensare che quella stessa iniziale del nome avrebbe mandato in avaria le capacità mnemoniche degli appassionati. Già titubanti, questi ultimi, nel veder destreggiarsi sui rettangoli di gioco due gemelle monozigote. E stessa sorte sarebbe toccata agli scoreboard delle televisioni e dei siti internet, costretti ad aggiungere un’altra lettera del nome appresso alla prima per contenere le frequenti piazzate dei suscettibili scommettitori. Già. Perchè le due biondone di Louny erano incredibilmente somiglianti. Quasi a voler circuire i disorientati aficionados, che, spesso invano, cercavano stoicamente di individuare appigli somaticamente distinguenti, si sono tatuate entrambe un tatuaggio. Che di sinistro ha non solo le sembianze, ma anche l’arto sul quale è stato impresso. Ma Krystina, mancina, sull’avambraccio; Karolina, destrorsa, all’altezza del tricipite (oltre che sulla gamba).
E, digressione personale, fu proprio nel momento in cui imparai a distinguerle e riconoscerle che le loro carriere intrapresero viatici diversi. Non prima, tuttavia, di aver suggellato il record del primo titolo di doppio vinto da due sorelle gemelle nella storia della WTA, in quel di Linz. Il primo di tre complessivi riposti in bacheca. Proprio da quel trionfo, Karolina è stato un crescendo rossiniano di fiducia e progressi. Ha conosciuto step progressivi di miglioramenti tecnici e di classifica. Non bruciando mai quelle fisiologiche tappe di maturazione antropo-agonistica, il cui avvento repentino e quasi alluvionale, tanti e tante teenagers ha falcidiato nella storia remota e recente del tennis. Dal 2009 al 2015 ha guadagnato la media di 38,8 posizioni all’anno, molto equamente distribuite all’interno di ogni singola stagione. Mentre sotto traccia la pertica ceca maturava e forgiava il proprio database tennistico, chioccia Kvitova trionfava a Wimbledon e il team di Fed Cup faceva incetta di trofei, ponendo al riparo da eccessive pressioni tante giovani in ascesa (dalla Allertova alla Smitkova, solo per citarne alcune). Quasi fungendo da distrattore mediatico. Saziando di successi, nel frattempo, un movimento tennistico tra i pochi a potersi fregiare di una vera e propria “Scuola”, mai comunque rigidamente e precisamente delineata nell’establishment e negli individui. Una vera egida agonistica protettiva, la cui mancanza, in tutt’altri contesti e scenari nazionali, ha spesso mandato in corto circuito le fragili ed inesperte trame di gioco di tante giovani appena appena in rampa di lancio verso il tennis che conta. Karolina ha evidentemente superato questa delicata fase di crescita, iniziando addirittura a dar prova di poter sfatare e superare quei luoghi comuni che un appassionato suole affibbiare ad una giocatrice dai suoi connotati fisici. Gli addetti ai lavori si sono infatti sorpresi (ma fino ad un certo punto) delle qualità indefesse di una giocatrice che, solo nel mese di febbraio, tra Fed Cup e tornei WTA, ha percorso e trascorso migliaia di chilometri e decine e decine di ore di voli aerei, pur arrivando sempre in fondo nei tornei. Il tutto, senza avere sovente speso quel lasso di tempo di ambientamento somatico-ambientale in un nuovo circolo, in un nuovo fuso-orario, in superfici differenti ( con tutto ció che questi cambiamenti repentini comportano in termini di jet lag e stress psicofisico).
Una chiave di lettura, nemmeno troppo azzardata ed intuitiva in verità, di questa longevità di risultati ed energie, si può individuare in quella che è la freccia più affilata nella faretra della ceca. Il servizio; arma con la quale riesce spesso ad ottenere punti facili, senza fatica, lesinando così energie preziose per una maggiore lucidità nei games di risposta. Karolina ha dimostrato di essere sempre vogliosa e grintosa nel raggiungimento di quell’obiettivo, mai esplicitamente ostentato, ma ormai ad un tiro di schioppo, chiamato top ten. Ha peregrinato, come tante altre, nell’Ade del circuito ITF, portando a casa dieci titoli. Salendo in classifica ed uscendo con merito da quelle sabbie mobili tanto recentemente vituperate da Marc Giner e Pauline Parmentier per le proibitive condizioni di gioco . Per meritarsi, quasi a guisa di meritato premio, gli agi e le facilities impiantistiche che solo Paradisi sportivi come gli Slam, Indian Wells e qualche altro premier, sanno offrire ai giocatori e alle giocatrici. E arrivare ai piani alti di questo sport, è ben noto, significa anche altro. Si diventa più appetibili in termini di seguito giornalistico; gli sponsor non disdegnano ad investire nella maggiore visibilità, in termini di merchandising, che un vettore così globetrotter può comportare per un marchio; ma si tenta anche di far emergere quella curiosità, quell’aneddoto, quella sfumatura, che solo pochi mesi prima sarebbe stata di totale disinteresse per uno spettatore di un “WTA Uncovered” qualsiasi, per usare un noto benchmark attinente.
Nel corso del Seul Open, infatti, una giornalista non ha esitato a chiedere cosa simboleggiasse per Karolina quel vistoso tatuaggio sulla coscia, ipotizzando simpaticamente, tra le linee, dubbi circa chissà quale criptica simbologia. In realtà sono solo delle effigi grafiche di origine neozelandese, che non hanno alcun significato particolare. Le sono semplicemente piaciute e se l’è fatte marchiare. Ho spesso ritenuto intrigante curiosare, alimentando la mia attrazione per la cultura e gli ambienti mitteleuropei, (facilitato dai potenti mezzi che lo sviluppo tecnologico oggigiorno ci mette a disposizione), tra le città o i paesini, spesso sconosciuti ai più, in cui i grandi campioni della racchetta sono cresciuti. Muovendo il cursore di google Street view sulla sua città natale, noto sia un paesino di ventimila abitanti nel nordovest della Repubblica Ceca. Immerso tra guglie gotiche e lande erbose. Campanili svettanti e abbaini spioventi. Col vessillo, raffigurante simbologie gialle su sfondo blu, della città che sventola dal palazzo comunale. Piccole e tralasciabilissime deformazioni personali. Un pò simili a quelle che mi hanno spinto, molti anni fa, a ” passeggiare ” per una Dunblane o un’Arma di Taggia qualsiasi. A più riprese, la ceca ha dichiarato di non porsi limiti di sorta e di lavorare sodo per raggiungere obiettivi più ambiziosi possibili. Sotto la buona Luna (vecchio nome della sua natale Louny, prima delle ormai secolari invasioni germaniche) di un movimento che non smette di stupire. Nei numeri e nei risultati. E che non dissuada in negativo la prestazione opaca di Miami contro Andrea Petkovic (primo quarto di finale in un Mandatory in carriera) : chi va piano va sano e va lontano. E, in fondo, a Karolina non è mai piaciuto bruciare le tappe.