Ci sono tante giocatrici e tanti giocatori che non sono sempre sotto le luci della ribalta. Che, nonostante risultati di tutto rispetto ed un tennis davvero apprezzabile, sono raramente al centro dell’attenzione mediatica, non hanno la fortuna di apparire, intervistati o fotografati, su ogni sito web dedicato al tennis, passano presto inosservati perfino dopo qualche risultato degno di nota e non vengono travolti da gruppi di bambini dotati di gigante palla da tennis per gli autografi. Varvara Lepchenko è una di loro. Non basta essere un’ottima interprete del tennis, essere stata una top20 WTA ed ora costantemente attorno alla 30esima-35esima posizione (decisamente migliorabile!), avere un gioco aggressivo ma intelligente, completo e pericoloso su ogni superficie, avere probabilmente uno dei migliori dritti lungolinea del circuito, se non il migliore in assoluto per naturalezza, potenza e precisione. Ciò che però basta per poter (anzi dover!) parlare di lei è la sua storia complicata, che si nasconde sotto la pelle coriacea dell’ex-uzbeka naturalizzata statunitense. Una lunga serie di vicissitudini che avrebbero portato all’arresa di molti e di molte, che avrebbero cancellato dal famoso cassetto il sogno di una carriera tennistica. Per Varvara, e per la sua famiglia, è andata diversamente ed il lieto fine che potrete leggere è la meritata conclusione della sua travagliata favola.
Varvara nasce a Tashkent, capitale dello stato dell’Uzbekistan, nel 1986 da una famiglia originaria dell’est Ucraina, allora parte dei territori dell’URSS. Il padre Petr è ingegnere ed allenatore di tennis ed è spostato con Larisa, madre non solo di Varvara ma anche di Jane, il cui destino è altrettanto legato alla passione per il tennis. La loro origine non propriamente uzbeka crea fin da subito problemi alla famiglia ed alla piccola Varvara: “Non ero una vera uzbeka. Non sono mai stata accettata come una di loro.”
Non è solo una differenza etnica, ma anche una differenza religiosa a creare fastidiosi problemi, in quanto la famiglia Lepchenko è cristiana ortodossa, in un paese a forte maggioranza musulmana. Perfino ad una piccola giocatrice alle prime armi nel tennis questa situazione si è dimostrata svantaggiosa: “Non venivo mai scelta per le competizioni a squadre e mai ricevevo dei soldi. È difficile pensare di diventare una tennista professionista così.” Infatti, la federazione uzbeka ha sempre sostenuto, fin da piccoli, campioni attuali come Denis Istomin ed Akgul Amanmuradova, ma mai si è occupata del sostenimento della Lepchenko.
La storia tennistica della Lepchenko comincia alla tenera età di 7 anni, seguita fin da subito dal padre allenatore che gestiva anche la sorella Jane. I soldi a disposizione sono pochi e, come detto, gli aiuti dalla federazione non arrivano. Il padre vede fin da subito grandi potenzialità nel gioco e nello stile della figlia e nonostante tutte le difficoltà non demorde. In pochi anni, dopo qualche esperienza da ball-kid nel torneo ATP di Tashkent dove ha l’onore di farsi fotografare con un giovane Marat Safin e di stringere la mano al campione delle edizioni 1997 e 1998 Tim Henman, è già tempo di pensare ai primi tornei ITF del circuito Junior. Ovviamente, per la giovane età e le possibilità economiche ridotte, i tornei vengono giocati in Uzbekistan e dintorni, ed in poche occasioni.
Finalmente, nel 2000, una grande occasione si presenta alle porte: l’Orange Bowl Junior Championships, negli Stati Uniti, con Lepchenko parte del contingente uzbeko. Ancora e clamorosamente, la federazione che più di una volta le ha messo i bastoni tra le ruote fa di tutto per rovinare i piani di una Varvara al tempo quattordicenne. Tale federazione vieta alla Lepchenko di giocare, la quale nel frattempo chiede una mano all’USTA (federazione statunitense) che acconsente, nonostante poi si trovi obbligata a rimborsare il biglietto aereo alla giovane promessa, successivamente a pressioni della federazione uzbeka. Il rapporto si rompe definitivamente con il rifiuto di Lepchenko ed allenatore di giocare per la Fed Cup in cambio di supporto economico. L’orgoglio fu, giustamente, più importante. “È stato scioccante per me, – dice Varvara – mi stavo allenando e stavo giocando dei tornei Junior negli States e loro volevano che tornassi indietro per giocare quei pochi tornei che organizzano, per poi fermarmi in attesa ce ne fossero altri.”
La vera svolta e l’inizio di una nuova vita all’inseguimento dei suoi sogni arrivano a sorpresa nel dicembre 2001. Il padre allenatore organizza nuovamente un viaggio negli Stati Uniti con l’obiettivo di far giocare Varvara e Jane nell’ITF Sunshine Cup di scena a Key Biscayne, evitando di comunicare alle figlie ulteriori dettagli di un piano che risulterà di lì a poco particolarmente efficace. Varvara passa i playoff della competizione sconfiggendo Assia Halo, prima di capitolare contro Zsuzsanna Babos e poi contro Maria-Jose Lopez-Herrera; gioca anche il doppio assieme ad Akgul Amanmuradova perdendo i quattro match giocati. Le sconfitte e la delusione di un torneo che ha dato poche soddisfazioni si tramutano però a breve in una gigantesca opportunità di vita.
A torneo concluso, il padre comunica alle due figlie che non sarebbero tornati a casa. “Non ci ha mai detto nulla di quello che stava pianificando, – dice la Lepchenko – perché io e mia sorella eravamo talmente giovani che, se avessimo saputo qualche dettaglio, avremmo potuto dire qualcosa di sbagliato che non ci avrebbe mai permesso di raggiungere gli Stati Uniti. Ad esempio non ci avrebbero consegnato il visto e cose così. È stato scioccante perché ero solo una bambina. Ho perso tutti i miei amici e non avevo nessuno con cui divertirmi. Ho dovuto vivere una vita da adulta da subito e mia mamma dovette restare in Uzbekistan.”
Purtroppo, nel piano dei genitori non c’era modo di includere anche la madre Larisa. Il visto poteva essere concesso ad un solo genitore e la scelta naturale del padre-allenatore fu ovvia. Ovvia perché tra le motivazioni che spinsero una famiglia felice ed una coppia di genitori a mettere in pratica una così difficile scelta c’era quella di supportare e nutrire le speranze di una brillante carriera tennistica per la figlia, oltre alle non meno importanti maggiori opportunità economiche e soprattutto le libertà che in Uzbekistan faticavano a vivere. “Non sapevo che avrei dovuto separarmi da mia madre per così tanto tempo. L’ho rivista dopo diversi anni. Non ho vissuto tanti anni importanti, dove la mamma è vicina a te per insegnarti tante cose. Ho dovuto arrangiarmi. Sono sicura che è stata addirittura più dura per lei, quando ci sentivamo al telefono piangeva tanto, era là da sola; almeno io, mia sorella e mio padre c’eravamo l’uno per l’altro.” Stabilitisi in Florida, a Miami, non è solo la mancanza della madre a causare grosse difficoltà. La richiesta di asilo politico e l’ottenimento dello status di rifugiati sono stati percorsi molto complicati. Inoltre, all’inizio, anche i soldi mancavano: il padre cercava di guadagnare facendo anche l’allenatore di tennis (così come facevano Varvara e Jane saltuariamente) ed è spesso stata la generosità delle persone che incontravano a permetter loro di sopravvivere. Nonostante il grande impegno profuso nel tennis, Varvara trovava il tempo anche per la scuola: periodicamente spediva verso casa compiti, saggi ed esami scolastici, con l’obiettivo di ottenere la maturità scolastica. Il tennis veniva giocato nei campi degli impianti comunali di Miami, vicini al luogo dove vivevano e, se già prenotati, si preoccupavano di raggiungere quelli più lontani, prima a piedi e poi attrezzati di roller skate o bicicletta.
Inoltre, numerose sono state le notti passate a dormire nel camper o in auto, viaggiando fra i tornei che non offrivano ospitalità e quindi non permettevano ai Lepchenko una sistemazione stabile. “Per fortuna un po’ di tornei fornivano ospitalità od alcune persone amiche di amici che pian piano conoscevamo ci ospitavano e permettevano di andare avanti.” Varvara poi aggiunge: “Guardando al passato, non ho mai pensato ‘sono un senzatetto’, stavo vivendo il mio sogno. Lo sapevo che non sarebbe stato facile […] e che ci sarebbero state difficoltà all’inizio, ma niente nella vita si ottiene facilmente, quindi ho semplicemente continuato a lottare. Mio padre è stato il più grande esempio per me, ovviamente. A volte ho pensato che avrei potuto andare al college o fare qualcosa di simile. Ma lui continuava a dirmi che avevo il potenziale, di dare tutto quello che avevo, che ero vicina al mio traguardo.” Perfino la lingua a volte era un problema: “A scuola abbiamo imparato l’inglese con accento britannico, non americano, quindi spesso era davvero difficile capire. ‘Che lingua stanno parlando?’ pensavo a volte.”
La seconda svolta decisiva nella vita di Varvara arriva nel 2004. Nel primo vero anno di tornei ITF importanti, la Lepchenko si trova a viaggiare in tantissimi stati e città degli Stati Uniti, in una stagione lunghissima e comunque ricca di successi, che la trascinano fino a ridosso delle prime 200 al mondo. Non va dimenticato quanto un traguardo simile sia già gigantesco, considerato non solo il passato dell’uzbeka, ma anche l’obbligatorietà di giocare solo tornei sul suolo degli USA: infatti, l’essere una rifugiata le ha precluso fino al 2007, quando poi otterrà la cittadinanza americana, la possibilità di viaggiare per il mondo come una qualsiasi delle sue coetanee. Arrivata al $25.000 di Allentown, i Lepchenko conoscono Shari Butz McKeever, colei che gestiva l’hospitality del torneo.
Venuta a conoscenza della storia della giovane Varvara, di come viaggiava e come viveva, la McKeever comincia a prendersi cura come nessuno aveva fatto prima della famiglia Lepchenko ed a far da “guida femminile” a Varvara (e quindi alla sorella Jane). “È incredibile come qualcuno si porti in casa una sconosciuta e la ospiti per praticamente due anni, – dice la Lepchenko della McKeever – cercando di aiutarla al massimo delle sue possibilità. Ha un gran cuore.”
La nuova tranquilla situazione fece sentire fin da subito Varvara a suo agio ed al sicuro e la mente sgombra da alcune preoccupazioni le diede la spinta giusta per migliorare definitivamente il suo tennis e la sua vita. L’edizione del torneo di Allentown del 2004 la vede raggiungere la finale, le due edizioni successive sono addirittura vinte. La Lepchenko ovviamente continua i suoi viaggi all’interno degli Stati Uniti per giocare i tornei, ma ora c’era la sicurezza di una casa-base.
“Fu un periodo molto difficile prima di conoscere Shari. Lei mi ha aiutato molto aprendoci le porte della sua casa. Allentown è un posto bellissimo e sono grata di essere stata aiutata”. Con l’aiuto della McKeever, la sua mamma americana come lei stessa la chiama, la Lepchenko ha ora anche accesso ai campi del Westend Racquet Club ogni volta che torna a casa, che le permettono di allenarsi tutti i giorni. Parole positive e confortanti arrivano anche dal direttore del club, Neil Curtis: “Sembra molto matura. Si è dovuta caricare il peso di tante cose e lo ha fatto davvero alla grande. Non l’ho mai vista arrabbiarsi. È molto determinata e molto umile.”
Si stabilì poi, nel 2006, in un appartamento della cittadina, sempre seguita dalla McKeever, vicino ai campi del Westend Racquet Club, e finalmente arrivò il tanto agognato ricongiungimento con la madre Larisa, quasi cinque anni dopo la sua partenza. Intervistata due settimane dopo il ricongiungimento, Varvara dichiarava: “Non posso crederci. Ho sempre parlato con lei al telefono, sentendo solo la sua voce. Pensavo non sarebbe mai successo.” Inoltre, di lì a poco, la lunghissima e tormentata trafila burocratica per la cittadinanza giunge ad un lieto fine e, dal 2007, i Lepchenko diventano cittadini americani, sebbene bisognerà aspettare fino al 2011 per poterla vedere rappresentare sportivamente gli USA. Una cittadinanza che non solo è un traguardo personale, una rivincita per tutto quello che ha dovuto patire, ma anche la chiave per poter ottenere tutti gli aiuti necessari dall’USTA e, quindi, anche le wild card in tornei importanti.
Dal 2007 al 2011, la tuttora giovane Lepchenko si assesta attorno alla 100esima posizione del ranking, sfondando anche in qualche occasione il glorioso limite, obiettivo di tutte le più giovani. Ma è proprio il 2011 a dare la scossa decisiva alla sua carriera, peraltro in corrispondenza con l’ottenimento della cittadinanza anche a livello sportivo. “Tutti i miei successi sono legati all’ottenimento della cittadinanza. Mentalmente è un grande sollievo. È come se ora fossi al 100% concentrata sul mio tennis, nient’altro si pone sulla mia strada.”
È proprio così: la famiglia è nuovamente riunita, è libera come non lo è mai stata e vive in una nazione che li rispetta e li sostiene. La federazione tennistica dà tutti gli aiuti necessari a costruire solide basi per una scintillante carriera e Varvara, finalmente, può realizzare il suo sogno tennistico, per il quale ben 10 anni, da quel lontano inconscio viaggio di sola andata, ha lottato con tutte le sue forze, con l’innegabile ed infinito sostegno della sua famiglia, in parte fisicamente separata, ma sempre compatta ed unita come è difficile immaginare. Ora la Lepchenko vive a New York, ma certo non dimentica Allentown come non dimentica l’Uzbekistan: “Ho dei grandi ricordi della mia giovinezza, soprattutto della mia infanzia. La vita era spensierata. Spesso passavamo tutta l’estate in montagna, tra avventure e nuotate in piccoli laghi. Quindi non era tutto negativo. È solo che c’era un futuro più brillante per me negli USA, e qui mi hanno accolto così bene, soprattutto dopo tutto quello che ho passato.” La gratitudine e la gioia di essere americana non sono certo nascoste: “Mi sono sentita americana dal momento che ho messo piede su questa terra. Le persone qui sono gentili, sorridono ed affrontano le cose in un bel modo. Negli Stati Uniti chiunque è stato un immigrato ad un certo punto e quindi ti accettano per quello che sei. Qui, mi sento proprio a casa.” Qualche anno prima, non aveva certo risparmiato una critica alla sua terra natia: “Le persone negli USA sono molto amichevoli, niente a che vedere con l’Uzbekistan.”
La successiva storia, quella che va dal 2011 ad oggi è quella che tutti conoscono della sua più che positiva carriera tennistica, che è ancora relativamente giovane, poiché Varvara compirà quest’anno 29 anni. Ancora le manca un trofeo in un torneo del circuito WTA, dove per ora ha raggiunto una sola finale, nella scorsa stagione a Seoul dove perse di un soffio da Karolina Pliskova, ma il suo palmares la vede vincente in ben 11 tornei ITF, anche di alta categoria, sebbene tutti vinti precedentemente al 2011, da quando poi si è dedicata quasi esclusivamente alla WTA.
Il suo best ranking vale la 19esima posizione, ottenuta nell’ottobre del 2012. Attualmente, la sua classifica è comunque ottima e la porrà, da lunedì, alla 30esima posizione. Questa posizione le permetterà, nel suo prossimo torneo, gli Australian Open, di essere anche testa di serie, sebbene sarà certo l’incrocio con una delle 8 migliori giocatrici al mondo al terzo turno. Ciò non la porrà certo sconfitta in partenza, non solo per come ha già dimostrato questa settimana a Brisbane di poter giocare alla pari con la Ivanovic, ma perché nella sua carriera è stata in grado di battere numerose forti giocatrici. Lo sanno bene la Radwanska, la Jankovic, la Schiavone o la Pennetta. “Non ne ha mai abbastanza, – dice DiLouie, coach dell’USTA – è una delle più grandi lavoratrici sul campo che io abbia mai visto. Gioca davvero con intelligenza e bisogna sempre batterla.”
A livello slam ancora manca un vero e proprio acuto, ma sono stati numerosi i discreti risultati ed i secondi e terzi turni raggiunti. Il miglior risultato, che forse rappresenta anche il miglior torneo della carriera, è quello al Roland Garros del 2012. Una lunga maratona contro la Pervak, vinta 6-4 al terzo, porta Varvara al secondo turno contro Jelena Jankovic, anch’essa superata al terzo set. Il terzo turno è contro Francesca Schiavone, finalista l’anno prima e vincitrice nel 2010, ed è un 8-6 al terzo set a sconfiggere l’azzurra e consacrare la Lepchenko al quarto turno, prima della sconfitta contro la Kvitova.
Ma dopotutto, questo breve resoconto sui suoi risultati vuole solo essere a margine, e poco importa se V, o big-V, come viene spesso chiamata dalle sue colleghe, non ha vinto un torneo WTA, non ha raggiunto un quarto di finale slam, deve lottare più di altre giocatrici meglio classificate per ottenere dei risultati. Varvara ha già vinto il torneo più importante della sua vita e potete chiamarlo come preferite: raggiungere il suo sogno tennistico, essere una donna libera e felice, essere amata dalla sua famiglia e da tante persone che l’hanno sempre aiutata fin da quando era una piccola tennista sognatrice che recuperava le palline sui campi di Tashkent.
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