di Piero Emmolo
Cosa si può provare ad essere il primo italiano ad aver vinto un titolo a Wimbledon? Si ragioni contestualizzando insieme la sacralità di Church Road, un centrale gremito di gente a far da cornice e la voglia incontenibile di sfatare quella cabala dell’unico, più importante, Major ancora mancante in bacheca. Servirebbero grandi parole d’encomio per descrivere la grandezza delle due italiane, premio più alla continuità che al singolo risultato in sè. Quando vincere trofei importanti diviene usuale, in troppi tendono a perdere la dimensione delle difficoltà di stare sempre a certi livelli, cercando di sminuire un trionfo che ha comunque del grandioso. E poco conta il presunto scarso tasso tecnico delle avversarie. Se v’è una crisi di livello nel doppio femminile, v’è per tutte le coppie. E poche tra quelle in attività si sono solo avvicinate ai risultati delle azzurre. Segno che Errani/Vinci siano troppo più forti o abbiano quella sintonia tecnica e tattica, fondamentale nel gioco di doppio, che le spinge quasi sempre molto avanti nei main draw? Propendo decisamente per la seconda ipotesi. In quante, tra le donne, praticano la “I formation”, o posizione all’australiana, con risultati apprezzabili? In quante riescono a completarsi così bene, nel gioco da fondo e nelle proiezioni a rete? É giusto dare grande cassa di risonanza mediatica al successo inglese. La straordinarietà di un career grand slam, connotato da un’aurea di sempiterno classicismo per averlo completato a Wimbledon, non può diventare svilita normalità. Come se si fosse completato il tour nel circuito dopolavoristico di provincia. Tre slam stagionali. Due vittorie e una finale. E tanto altro. Da un’amicizia più salda che mai ad una voglia di alzare l’asticella qualitativa del proprio tennis. Non ponendosi mai psicologicamente logoranti obiettivi di classifica (vedi Vinci), e rispondendo sul campo alle illazioni di un pubblico troppo spesso un pò ingrato, a volte esigente, altre volte ancora critico e rasentante la stupidità (vedi Errani) . Ormai le due azzurre hanno un certo feeling con le premiazioni, vuoi per l’abitudine a certi palcoscenici di livello, vuoi per l’età ormai non più da teenager. Ma i piú attenti avranno notato la naturalezza con cui hanno accolto dalle mani del Duca di Kent, Edward, l’ambito trofeo. Erano pur sempre dinanzi al presidente dell’All England Tennis and Croquet Club e, soprattutto, ad un membro della famiglia reale. Non hanno tradito nessuna evidente emozione, mostrando un body language da vere numeri uno. Dieci anche per il self control. La superiorità tattica e tecnica contro Babos e Mladenovic è stata disarmante. A tratti imbarazzante. Le azzurre davano l’impressione di aver sempre un’arma in più, uno schema in più, una variante in più. Erano più forti e hanno vinto con merito. E con il titolo ai Championships torneranno a essere prime nel ranking mondiale di specialità. Mi piacerebbe spendere qualche parola in più per la Vinci. Non me ne voglia la Errani, alla quale vanno attribuiti meriti in misura paritaria . Per Sarita nutro grande simpatia e ammirazione per le sue doti tennistiche di self-made player. I doppi si vincono, come qualsiasi altro sport di squadra, insieme. Ma come nel contesto di un collettivo sportivo c’è sempre un solista, un elemento qualitativamente superiore, ritengo che nella coppia Errani-Vinci, questo pluris di estro e fantasia sia apportato dalla tarantina.
La pugliese è ” più doppista” come caratteristiche di gioco e possiede un repertorio qualitativamente più vintage, e dunque più consono alle credenziali tennistiche di base necessarie per competere nella disciplina. Non che l’emiliana sia dietro anni luce, si badi. Ma affermare che la Vinci sia qualche punto avanti nel servizio e nella volèe, colpi che nel doppio contano un pò, non mi pare eresia tennistica. Questo trionfo può aiutare molto la pugliese. Perchè se la Errani quest’anno ha potuto attingere fiducia dal ”serbatoio” del singolare, lo stesso non può propriamente dirsi per Roberta, abile confidente nonostante le sconfitte e coach improvvisata in quel di Parigi GdF. Ci sono colpi che nel tennis hanno copertine con regolare e giustificatissima frequenza. Dal rovescio di Djoko al diritto di Rafa o alla volèe di Roger. Mi duole rimarcare come un’eccellenza di questo sport abbia, a memoria d’uomo, avuto poca considerazione, se non dai competenti addetti ai lavori, tra il popolo tennisofilo: il back di Roberta, arma con cui ha spesso approcciato a rete nelle due settimane londinesi. Quale termometro più attendibile, per tastare la vox populi tennistica, se non i blog online? Ed è proprio lì che si nota una certa omogeneizzazione nelle tematiche oggetto di discussione. Non vorrei sembrare lezioso. Sono solo un grande fan di una campionessa che, nell’era del robotico power tennis, viene troppo poco osannata per le qualità del suo gioco variegato e del suo bagaglio tecnico. Se considerato come colpo di gioco metodicamente utilizzato per sciorinare gli schemi in campo, e non come semplice strumento di difesa nei recuperi, il rovescio in back è un colpo indubbiamente in via d’estinzione. Al secolo, solo la Flipkens e la Schiavone, (e, con meno schematicità , la Stosur), tra le prime 100 WTA, sono giocatrici nella cui faretra possono vantare il back come canonica “arma in più”. Fare paragoni col passato è sempre un pò anacronistico e talvolta anche fuori luogo. Tuttavia, è un colpo che connaturatamente ha qualcosa di classico e il richiamo al tennis che fu quasi viene istintivo. La teutonica Graf, dagli arti titanici, aveva in questo colpo una solidità pazzesca: tanto nella profondità, anche in difesa da fondocampo, quanto come colpo d’approccio a rete. Ma, nonostante qualche hall of famers da Rhode Island mi lancerà, mio malgrado, anatemi tennistici, mi sento di dire con risolutezza che il back di Roberta stilisticamente è anche migliore. E nemmeno di poco. Più armonico nel movimento. Timing d’impatto pazzesco. Straordinaria capacità di corretto posizionamento dei piedi. All’occorrenza, abile colpo dissimulante palle corte che nemmeno il fumettistico Mandrake di Lee Falk oserebbe inseguire. La pionieristica manualistica angloamericana del tennis, utilizza, con delle varianti, l’acronimo HSP (Highest shot’s point) per indicare l’apice d’altezza della racchetta in sede d’esecuzione del colpo.
E preme sottolineare come Roberta, tra le donne e sul lato sinistro, e Gulbis, tra gli uomini e sul lato destro, siano davanti in questa speciale classifica. La straordinarietà di questo rovescio sta anche nel cambio occorso in piena carriera. In questo, con umile beneficio d’inventario, riterrei Francesco Palpacelli, ex fidanzato e coach nonchè buon seconda categoria, geniale pigmalione del colpo che ha decretato un’inversione di tendenza strepitosa nella vita tennistica della pugliese. Che non si sottovalutino gli indiscutibili ed eccezionali meriti di Cinà, (che, tra l’altro, era nell’entourage accademico della tarantina anche nel periodo di Palpacelli) ma i flebili frames che possiedo dell’esecuzione dei dropshots del palermitano, sono un “inquietante” dejà vu tennistico che mi sovviene ogni volta io veda giocare Robertina sul lato sinistro. L’attuale coach è persona cordiale e molto preparata, che ebbi modo di conoscere per la prima volta in occasione di una gara da under, esattamente dieci anni fa. Da anni ormai Roberta si allena in Sicilia, presso il Country time club, sede dell’ex torneo WTA, e il CT Palermo, sede dell’ex torneo ATP. Proprio il sodalizio di Viale del Fante, tramite il proprio profilo facebook, s’è complimentato per l’impresa, fregiandosi d’aver contribuito, pur in minima parte, a portare un’italiana sul tetto di Wimbledon. Della Sicilia, oltre al clima pressochè mite quasi tutto l’anno, la pugliese apprezza il calore emotivo caratteristico della gente meridionale, che la fa sentire più vicina alla sua natía Taranto. Il proseguo del connubio con Cinà ha ulteriormente caldeggiato la convinzione di insistere con il “turbotaglio”, pur non disdegnando qualche sortita in top spin, col quale talvolta ha deliziato le platee con preziosismi tennistici da spellarsi le mani. Degno di menzione, tra i tanti, quello di Bruxelles, in corsa, contro l’americana Jamie Hampton, rimasta a metà tra l’incredulità e l’ibernazione nella gelida capitale belga. Quante volte, in allenamento, capita di tentare di emulare un colpo d’un campione: da un goffo between the legs; ad un, più raro in verità, impacciato tuffo modello boeing 747, Monfils style. Ebbene, riprodurre con risultati apprezabili il back di Robi non è esattamente un semplice esercizio di diletto. D’altro canto, le stesse colleghe del circus apprezzano e temono questo back. Con il diritto, inoltre, la pugliese ha fatto registrare progressi eccellenti nelle ultime stagioni, aggiungendo quella velocità di palla in più che a questi livelli fa e ha fatto la differenza per arrivare fino in fondo nei tornei. Il diritto, così come il servizio, sono colpi che garantiscono l’effettiva efficienza del back di Roberta che, fisiologicamente, ha natura pianificatoria e non conclusiva nell’evolversi di uno scambio. Un’altra peculiarità indefettibile che valorizza l’efficacia del back della Chichi è lo straordinario tocco di palla a rete, col quale finalizza e ricama volèe sopraffine, ma soprattutto raccoglie i frutti dell’effetto tergicristallo dell’avversaria. Sarebbe tuttavia fuorviante sottacere i limiti che un utilizzo smodato del colpo in back potrebbe avere ed ha spesso avuto per Robi. Con le giocatrici più potenti, infatti, riesce a fatica a prendere l’inerzia dello scambio e a impostare il gioco in attacco, perdendo progressivamente metri di profondità e incisività nei colpi da fondocampo, autentici ” kit da scasso” delle trame di gioco tessute dalle avversarie. In ogni caso, ciò non deve sminuire la grandezza di una giocatrice che, per sua stessa ammissione, ha raggiunto traguardi ben oltre le aspettative. Una tennista, a mio modo di vedere, poco esaltata e apprezzata, specie a livello mediatico. Una giocatrice che, con grande impegno e spirito d’abnegazione, ci ha regalato tante gioie nei tornei e in Fed Cup, dove anche semi-infortunata ha stoicamente contribuito alla causa azzurra in quel di Monte Urpinu. L’auspicio è che ci regali altre soddisfazioni in futuro, con la classe innata che la contraddistingue. Con quello splendido rapporto con l’amica di mille battaglie. E, nonostante le 32 primavere alle porte, non smetterá di farlo. In singolare e in doppio.