“Jelena Dokic ha battuto la favorita del torneo di Wimbledon, Martina Hingis, 6-2, 6-0. Lo riscrivo, quel 6-2, 6-0, così mi convinco anch’io, prima di cercare qualche spiegazione”. Così un incredulo Gianni Clerici riporta la notizia più clamorosa di quel 22 giugno 1999, quando l’intero All England Lawn Tennis and Croquet Club rimase attonito davanti all’impresa di una biondissima ragazzina arrivata dall’Australia col vento dell’Est.
16 anni, 2 mesi, 15 giorni: risplendeva la giovinezza negli occhioni azzurri di Jelena Dokic il giorno in cui piegò al primo turno la numero 1 del mondo, l’enfant terrible del tennis per eccellenza, la svizzera Martina Hingis. Proveniva dalle qualificazioni e prima di infrangersi ai quarti di finale contro Alexandra Stevenson, anche lei illustre qualificata, era riuscita a togliersi lo sfizio di battere anche la francese Mary Pierce, testa di serie numero 9.
Jelena Dokic nasce jugoslava il 12 aprile 1983. Scappa dal suo paese in guerra nel 1994 e sbarca con la famiglia nell’Australia Felix che in quegli anni offre rifugio a tanti futuri tennisti. Ha un padre-padrone, Jelena, come tanti se ne sono visti alle spalle di piccole e fragili bambine armate di racchetta: è lui che la spinge a 7 anni sul court, crescendola nella slava dottrina di Monica Seles. Le bastano 8 anni per diventare professionista, laurearsi campionessa juniores allo US Open 1998, e concludere la stagione alla testa della classifica under 18, senza farsi mancare una convocazione in Fed Cup a difendere i colori della sua nuova patria, l’australiana più giovane di sempre ad avere tale onore.
Ma cos’ha di tanto speciale Jelena Dokic?
Scrive sempre Clerici: “Bionda, con un faccino sorridente oscurato da fugaci, crudelissimi rictus. Tennis clamoroso, diritto che ricorda quello penetrante di Chris Evert, con maggiore potenza, se possibile. Rovescio bimane capace di angolazioni strettissime, cross che cadono nel rettangolo di servizio. Un’ottima battuta quasi piatta, angolata sempre all’esterno, come vuole la legge dei prati. Diritto al volo solo apparentemente arrischiato, perchè non ne sbaglia mezzo. Voleè di tocco un pò scolastica, ma infallibile”. E un padre che riversava su di lei tutte le sue frustrazioni, cercando di ricavare dal talento della piccina il maggior profitto possibile.
E di talento, Jelena, ne ha da vendere. Dopo il botto contro la Hingis corre a perdifiato sui prati di Wimbledon: l’anno seguente è capace di migliorarsi e piomba in semifinale senza aver smarrito nemmeno un set, lasciando alle sue avversarie poche manciate di games, ma a un passo dalla finale soccombe sotto le sassate di Miss Lindsay Davenport. In quel magico inizio di millennio Sydney ospita i Giochi della XXVII Olimpiade: trascinata dal suo pubblico Jelena raggiunge le semifinali ma deve cedere il bronzo olimpico al suo idolo Monica Seles.
Il 2001 è un anno cruciale per la carriera di Jelena: si presenta agli Internazionali di Roma come testa di serie numero 14, disputa l’intero torneo in un incredibile stato di grazia, regalando solo un set nel match di secondo turno contro Patty Schnyder. Il 20 maggio il pubblico romano la incorona regina, sfilando la vittoria dalle mani di una confusa Amelie Mauresmo. Si mette in luce anche nelle tre finali perse a Bahia, Zurigo e Linz; raggiunge le semifinali ad Amburgo, ‘s-Hertogenbosch e Sopot.
I successi di Tokyo e Mosca concludono una stagione segnata però dalle follie del padre di Jelena. Già squalificato dalla Wta, Damir Dokic entra in contrasto anche con la federazione australiana e in particolare con sua maestà l’Australian Open, colpevole a suo dire di aver incrociato volontariamente la figlia in un primo turno proibitivo contro la Davenport. Di qui la decisione irrevocabile di rinnegare il paese che li aveva accolti e di ritornare a Belgrado. Apparentemente il cambiamento non sembra turbare l’irrefrenabile ascesa di una campionessa predestinata: i titoli ottenuti a Sarasota e Birmingham, sommati agli ottimi risultati a Parigi, Strasburgo, San Diego e al quarto di finale al Roland Garros, ben presto portano la Dokic sempre più in alto, fino a raggiungere la quarta piazza del ranking, nell’agosto del 2002.
Ironicamente, proprio il suo best ranking coincide con l’inizio del declino. La tristezza spesso celata dietro ai grandi occhi azzurri, i rancori, gli anni di maltrattamenti subiti da parte di papà Damir affiorano d’un colpo, sfociando in un’acuta depressione. Ha solo vent’anni e non riesce più a mantenere i ritmi di una top player, disputa una sola finale a Zurigo, persa con la Henin, ma delude soprattutto negli Slam, dove non va mai oltre il terzo turno. In un paio d’anni Jelena riesce a sbriciolare tutto ciò che aveva sognato da bambina, sprofondando a velocità costante verso il baratro, finendo il 2004 in 125esima posizione. Nel 2005 trova la forza di fuggire dal padre e ritorna cittadina australiana, ma il cambio di passaporto non basta a scacciare i fantasmi dalla sua mente: tocca l’abisso a dicembre 2006, numero 621 del mondo.
Del 2007 tennistico di Jelena Dokic non v’è traccia negli annali Wta.
Ma mentre tutto tace Jelena cova segretamente il sogno del riscatto: ricomincia dai campi in cui aveva sacrificato la sua giovinezza, dai tornei Itf; i successi a Firenze, Caserta e Darmstadt la aiutano a risalire rapidamente la classifica, issandosi in un anno, il 2008, fino al numero 178 del ranking.
Arriva l’inizio del 2009 e con esso, l’Australian Open. Proprio il torneo che suo padre aveva additato di tradimento, le offre la più grande chance di rivalsa: una Wild Card le spalanca le porte del main draw di Melbourne. La cavalcata di questa valchiria ritrovata infiamma il pubblico australiano che ha riadottato prontamente la sua pecorella smarrita. Jelena ricambia l’affetto, mietendo vittime illustri quali Chakvetadze e Wozniacki, arrivando fino ai quarti di finale, lì arrendendosi all’imponente Dinara Safina, sorellina di Marat Safin.
Colleziona altri tornei Itf, ad Atene e Poitiers e, per la prima volta dal 2003, rientra nella top 100, addirittura numero 57 del ranking. Il 2010 le porta altri tre successi ITF, ma non riesce a confermare i punti accumulati l’anno precedente e scivola nuovamente fuori dalle migliori 100.
Qualche spiraglio di luce si intravede l’anno seguente a Parigi dove, emergendo dalle qualificazioni, raggiunge i quarti di finale ma si arrende davanti alla belga Kim Clijsters. Finalmente, il 6 marzo 2011, quasi nove anni dopo l’ultimo successo nel circuito maggiore, Jelena solleva al cielo il suo ultimo trofeo, vinto sul cemento di Kuala Lampur, battendo in finale Lucie Safarova. Potevano essere due i successi in quella miracolosa annata, ma sull’erba olandese di ‘s-Hertogenbosch la felicità le viene negata in finale dalla nostra Roberta Vinci. Chiude quello che doveva essere l’anno della resurrezione in 66esima posizione.
Gioca la sua ultima partita proprio a Charleston, nel 2012, a pochi giorni dal suo ventinovesimo compleanno, costretta al ritiro per un infortunio al polso destro.
Sarà l’atto finale di una carriera mai ufficialmente terminata, costellata dagli strascichi di numerosi infortuni, intervallata da una sana collaborazione come coach di Tennis Australia, che le affida nel 2014 il talento della prodigiosa Daria Gavrilova, anch’essa biondissima russa dal passaporto australiano.
Come Jennifer Capriati e Mjrjana Lucic, Jelena Dokic è stata la precoce protagonista in un periodo in cui un esercito di ragazzine terribili partiva alla conquista della fama mondiale, debuttando sui campi ad un’età in cui si è troppo giovani per sentirsi donne, troppo grandi per chiamarsi bambine. Alcune si sono smarrite, altre hanno trovato nella ribellione la loro via d’uscita. Dietro queste fragili bamboline, quasi sempre, troneggiavano genitori ambiziosi, iracondi, opprimenti ai limiti della legalità. Possa Jelena ritrovare oggi ciò che ha cercato per tutta la vita nel tennis. Auguri di buon compleanno.
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