di Lorenzo Andreoli
Non sempre si è costretti a raccontare una storia dall’inizio. Quella di Elena Dementieva, tennista russa dalla grazia smisurata, è più bello raccontarla dall’ultimo atto.
Doha, 29 ottobre 2010. Master di fine anno del circuito WTA. Appena concluso il suo incontro di round robin (sconfitta per 6-4 6-2 dalla nostra Francesca Schiavone), la bella Elena prende il microfono e nell’incredulità generale annuncia: “E’ stata una settimana speciale perché questo è il mio ultimo torneo”. Giusto due parole, per mettere un punto a 12 anni di carriera, 16 titoli in singolare, 6 in doppio, 2 finali slam (Roland Garros e US Open 2004), un best ranking che l’ha vista issarsi fino al gradino più basso del podio e 2 medaglie Olimpiche: argento a Sydney e oro a Pechino, il suo capolavoro.
Fredda, composta, spaventosamente educata. Elena saluta il circuito con gli stessi occhi e la stessa fragilità di sempre, quel maledetto boomerang che le ha permesso di aggiungere ai titoli di cui sopra anche l’etichetta più scomoda: “la giocatrice più forte a non aver vinto uno Slam”.
Fedor Dostoevskij, da sempre la passione più grande di Elena (da piccina era praticamente impossibile vederla girare in casa senza un libro in mano), era convinto che vivere oltre i quarant’anni fosse di cattivo gusto. Chissà che non lo fosse anche giocare a tennis oltre i trenta, perché al ritiro shock della russa dobbiamo pur dare una spiegazione.
In questa storia, proprio perché così diversa dalle altre, non si parla di bimbi prodigio e padri padroni. Tutt’altro. Elena Dementieva cresce nella Mosca dei primi anni ’80. Papà Viatcheslav e mamma Vera (insegnante di letteratura russa con il pallino per il tennis) le trasmettono i valori dello sport, ma ancor di più l’amore per la cultura e per il “bello”, a tutto tondo. La piccola Elena divora Tolsotj e Nabokov, si appassiona all’arte e ai film francesi, quelli di natura riflessiva.
Quanto al tennis, all’inizio, sembra esserci qualche problema. Le due più prestigiose accademie di Mosca, Dinamo e CSKA, la rifiutano. Mamma Vera non demorde e nel 1988 “sistema” Elena allo Spartak Tennis Club di Mosca, dove ad accoglierla c’è Rauza Islanova, madre dei futuri numeri uno al mondo Marat e Dinara. A sorprendere l’allenatrice, però, non sono i colpi, quanto la straordinaria disciplina della bambina. Insieme a lei si allena Anastasia Myskina. Segnate questo nome, tornerà.
La giovane Elena studia e si allena sodo, levandosi nel dicembre del 1998 la prima grande soddisfazione tennistica della sua carriera, la vittoria dell’Orange Bowl, ai danni di Nadia Petrova.
L’anno successivo onora quella Federazione che anni prima l’aveva rifiutata, scendendo in campo nella finale di Fed Cup contro gli Stati Uniti e portandosi a casa il punto della bandiera sconfiggendo Venus Williams con il punteggio di 6-4 6-2. Nel 2000 diviene la prima russa a raggiungere la semifinale agli US Open (dove si arrende alla padrona di casa Lindsay Davenport) e due settimane dopo vola a Sydney per difendere i colori di “Madre Russia”, tornando a casa con una medaglia d’argento. Il 2001 è l’anno dell’ingresso in top 20 e di una nuova finale di Fed Cup, questa persa per mano di Kim Clijsters e Justine Henin. Nel 2003 arriva il primo titola in carriera, sulla terra verde di Amelia Island, al termine di una lunga battaglia, ancora con la Davenport.
Il 2004 è l’anno del “terremoto russo”. Si’, perché sono addirittura tre le giocatrici russe ad aggiudicarsi altrettanti titoli dello Slam, in due occasioni in finalissime fratricide.
Il 5 giugno del 2004 Elena Dementieva scende in campo sul Philippe Chatrier alla caccia del suo primo Roland Garros. Ad attenderla c’è Anastasia Myskina (ricordate?), la prediletta dell’accademia della signora Islanova. Comunque vada, sarà storia. La Russia fino a quel momento non aveva mai vinto un Major. La Dementieva è la grande favorita. Piangono entrambe negli spogliatoi, davanti ad una attonita Navratilova. È la prima finale. Potrebbe essere l’ultima. La grande fortuna della Myskina è che una giocatrice qualunque dovrebbe fare i conti con paure ed insicurezze. Elena Dementieva ha a che fare con demoni. Nel riscaldamento non mette una battuta in campo. E’ paralizzata. Nel primo game i doppi falli saranno tre. In carriera centinaia, migliaia forse. Il punteggio finale è un impietoso 6-1 6-2 in favore di Anastasia Myskina, in nemmeno un’ora di gioco. Il dramma è consumato.
Passa quasi in sordina la finale di tre mesi dopo sul cemento americano. È Svetlana Kutsnetsova, la sua più giovane ed anarchica compagna, ad aggiudicarsi gli Open degli Stati Uniti (6-3 7-5).
L’anno seguente, però, la Dementieva trascina la sua Russia alla conquista di una memorabile Fed Cup, battendo in due partite meravigliose sia la Pierce che la Mauresmo (oltre alla vittoria nel doppio).
Dopo la finale di New York, Elena non ne disputerà più alcuna. “Solo” sei semifinali, fra cui quella del 2009 con Serena Williams (8-6 al terzo per l’americana) sul Centrale di Wimbledon, in oltre tre ore e mezza di estati tennistica allo stato puro (ma anche l’ennesimo match point sprecato, per non farsi mancare nulla).
A Pechino, nel 2008, corona il suo sogno olimpico. Questa volta non c’è spazio per gli psicodrammi. In Cina è una cavalcata in cui cadono nell’ordine Bondarenko, Arvidsson, Wozniacki, la più giovane delle Williams, Zvonareva e Dinara Safina.
Messa da parte la racchetta, Elena Dementieva ha iniziato una nuova fase della sua vita. Si è iscritta all’Università di pedagogia (dipartimento giornalismo) ed ha iniziato a collaborare come commentatrice per una televisione russa. Nel 2011 ha sposato il campione di hockey sul ghiaccio Maxim Afinogenov. Dal loro matrimonio è nata Veronika, che ora ha poco più di un anno.
Diversamente da molte sue colleghe, questo ritiro non è stato sinonimo di un periodo di pausa.
Elena ha smesso. Lo ha fatto senza rimpianti, con l’algore che l’ha sempre contraddistinta, lasciandoci ammirare come, anche solo per una volta, si possa restare nel cuore di tutti anche a prescindere da uno Slam in bacheca.
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