di Alessandro Mastroluca
“Un ordine sociale in cui ogni uomo e ogni donna possono raggiungere il massimo e di essere riconosciuti per quel che valgono indipendentemente dalla famiglia o dalla classe in cui sono nati”. È la definizione di sogno americano di James Truslow Adams, che ha introdotto questa espressione nel 1931. L’American Dream, ormai sbiadito nel tennis maschile, al femminile continua a esercitare il suo fascino. Non c’è sport più del tennis che ripaga di più le donne dei successi, che consente il pieno raggiungimento del potenziale individuale, fascino e cuore del sogno americano. Chiedere, per credere, a Coco Vandeweghe. L’estate di rinascita è iniziata a ‘s-Hertogenbosch con il secondo titolo WTA; il viaggio è decollato verso grandi destinazioni a Montreal, scandito dal 67 76 64 su Ana Ivanovic che la porterà quasi di sicuro per la prima volta in carriera in top-40 (con la classifica aggiornata a prima degli ottavi è numero 39, in caso di eliminazione la potrebbero superare solo Watson arrivando ai quarti e Shelby Rogers vincendo il torneo). Perso un primo set senza break 9-7 al tiebreak, Vandeweghe piazza il break del 3-1 nel secondo, si fa rimontare fino al 4-4 ed evita il break del 4-5 grazie all’hawk-eye che smentisce l’over-rule del giudice di sedia sul suo dritto valutato lungo. Coco manca tre set point in risposta sul 5-6 e altri due nel tiebreak prima di restituire il 9-7 alla sesta chance e allungare al terzo in cui riesce a risalire da 0-3 a 5-3 prima di conquistare un posto al terzo turno.
Una partita così, una vittoria così, proprio a Montreal è una di quelle che lasciano credere all’esistenza di un destino già scritto. A Montreal è iniziato il viaggio in Nordamerica della famiglia Vandeweghe, qui i bisavoli di Coco sono arrivati dal Belgio e hanno aperto una fabbrica di pellicce. Nonno Ernie, però, ha lasciato il Canada per inseguire l’American Dream a New York. È un fisico, un veterano di guerra, un giocatore di basket in forza ai Knicks dal 1949 al 1956. È una celebrità, e come nelle migliori tradizioni, sposa una modella, Colleen Kay Hutchins, Miss America 1952, la ragazza più alta ad aver vinto quel titolo fino ad allora (cosa di cui per decenni si è vergognata tanto che non ha raccontato ai figli della vittoria e ha tenuto il trofeo nascosto in soffitta).
È un po’ da nonna Colleen che Coco ha preso l’altezza che ha segnato gli inizi della sua carriera: a 15 anni è già alta 1.80 e si scontra con avversarie che si rifiutano di giocare con lei perché tira troppo forte, che l’accusano di imbrogliare. Con una famiglia come la sua, l’altezza e lo sport sono ontologicamente destinate a diventare i binari del suo sviluppo, della sua storia. Coco si porta il peso di un cognome pesante negli Usa. Lo zio è una leggenda, stella e poi manager dei Denver Nuggets, è l’inventore di quella che ancora oggi in suo onore si chiama Kiki move, un movimento con finta d’entrata, palleggio smarcante e tiro in sospensione saltando all’indietro. Sua madre, Tauna, ha partecipato a due olimpiadi: nella nazionale di nuoto a Montreal ’76 e in quella di pallavolo a Los Angeles ’84. Suo zio Bruk, fratello della madre, ha vinto il bronzo ai Goodwill Games del 1994 nel beach volley. “Mi è servito moltissimo, soprattutto a livello junior” ha raccontato. “Mi hanno spiegato già da piccola che cosa volesse dire essere una professionista, anche negli allenamenti. Non mi hanno mai detto che contava solo vincere, anzi, dalle sconfitte ho imparato molto di più. Però non mi facevano certo aspettare due giorni per correggere gli errori: persa la partita ero subito in campo di nuovo”.
Coco non è nemmeno l’unica della famiglia legata professionalmente al tennis. O meglio, è la prima se si considerano solo i legami di sangue. Però non ha praticamente rapporti con il padre biologico, ma è molto legata al secondo marito di sua madre, Michael O’Shea, il preparatore atletico che ha lavorato con John McEnroe, Martina Navratilova e Billie Jean King. Eccolo, il legame col tennis. “Mia madre si era innamorata di questo sport a fine carriera” ha detto. “A me piaceva molto il basket, adoravo lo spirito di squadra. Lei mi ha incitato a provare il tennis, però alla fine la scelta di continuare è stata mia e solo mia”.
La strada è segnata. Prende la prima racchetta tardi, a 11 anni, e dopo cinque ha già vinto gli Us Open senza perdere un set. Ora non può più scartare di lato. Arriva il sostegno di Lindsay Davenport, la nota Max Eisenbud, agente di Sharapova e Li Na, che le offre un contratto con l’IMG.
Dopo la convocazione, forse troppo precoce, per la finale di Fed Cup nel 2010 e la finale persa a Stanford da Serena Williams due anni fa, la strada di Coco è diventata più in salita. Ma non si è persa, anche con l’aiuto della madre che un tempo le faceva da sparring partner e ha continuato a seguirla restando al suo posto, sapendo, da atleta, cosa fare da mamma. Ha nutrito senza interferire il suo spirito competitivo, quel patrimonio genetico di sacrificio e voglia di vincere. E ora Miss American Dream può partire per un nuovo viaggio. Perché non sono già tutte descritte le grandi destinazioni.
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