di Piero Emmolo
Di solito l’ordine cronologico degli eventi esige di raccontare fatti o vicende di vita vissuta partendo rigorosamente dal principio. Dall’incipit di tutto. Altre volte no. Non puoi farlo quando vieni alla ribalta del grande pubblico solo a ventiquattro anni, durante le due settimane più cool della stagione tennistica. Quelle più attese e più famose, che sanciscono il tripudio semantico più eloquente di cosa il termine ” british ” significhi. Non solo in un Devoto-Oli qualunque ingiallito dal tempo, ma anche e soprattutto in un contesto di giuoco in cui il dipanarsi di nessun contegno è lasciato al caso. Anzi. Segue canovacci maniacalmente rigidi e tassativamente inderogabili, in ossequio ad una tradizione tanto longeva e prestigiosa, da assumere quasi connotati di sacralità.Quei quindici giorni dei quali chiunque ami il tennis non vorrebbe perdersi nemmeno un teatrale ” cambio della guardia ” dei raccattapalle. Persino a Roehampton, sede delle qualificazioni del prestigioso torneo londinese. Siamo a Wimbledon.
Accade che un’arzilla intramontabile, con un palmarès non suscettibile di commensurabili aggettivi che ne apprezzino la grandezza, decida di tornare a calcare i campi di gioco nella disciplina del singolare. Proprio a Church Road. Esattamente dieci anni dopo l’ultima volta che, eccettuati cerimoniali o convenevoli di sorta, vi mise piede come giocatrice. Era una finale. E l’avversaria era una spagnola. Versatile ed eclettica. Che alla fine prevarrà. L’iberica faceva di nome Martinez. La sconfitta, ceca di nascita ma americana d’adozione, Navratilova, già allora con quarantasette primavere sul groppone. Era il giugno 2004. Anno denso di pomeriggi torridi, precursori della canicola estiva siciliana; bagnati da fiumi di Estathè alla pesca; ma anche cadenzati dalla rabbia, non ancora sopita, per il biscotto in salsa scandinava che Svezia e Danimarca pallonare avevano magistralmente cotto a puntino, irretendo, in una stucchevole pantomima in quattro atti, un Fantantonio Cassano già festante in zona Renato Cesarini. Gli organizzatori dell’AELTC avevano gli ultimi tre, ambitissimi, inviti da dover dispensare. E uno andò proprio alla oramai quarantasettenne highlander, nativa di Praga. La classica comparsata esibizionistica sul green carpet londinese, ebbero a pensare in molti. Una degna passerella prima di un irrevocabile non-ritorno. Dall’urna si pescò il bussolotto di una colombiana. Dal nome, bisticcio di sillabe armoniose, quasi onomatopeico. Non l’avevo mai sentita prima. E con parziali attenuanti, aggiungerei.
Allora, lo smartphone era un salto nel futuro; internet una roba di tanti. Ma non di tutti. Io, teenager di mezza età e poco più, andavo avanti di pagina 290 e ss. di Televideo Mediaset. O 260 di Televideo Rai (ma qui dovevi accontentarti solo dei risultati degli italiani). Superfluo aggiungere che le batterie del telecomando erano spesso a dura prova. Mica c’era quella freccetta ricurva del ” refresh ” a velocizzare il tutto. L’estratta di nome faceva Catalina Castano ed era veleggiante poco sotto la centesima piazza WTA. Il match è a senso unico. Un solo gioco da una parte. Dodici dall’altra. Quarantasette minuti. Tanti quanti gli anni della plurititolata avversaria. La notizia rimbalza veloce. Persino testate non specializzate riprendono la notizia, suggestionate dall’aurea di Martina e da un punteggio che non ammette ( o ammette, dipende dai punti di vista) spiegazioni. Da questo giorno Castano sarà tale per pochi. Per i più sarà ” quella che ha perso con Martina “. Un’avveniristica Larcher de Brito, per voler lasciare inalterato il proscenio di gioco. Solo posizionata dietro quella gloriosa linea di confine al di là della quale hanno ballato tanti carnefici di illustri Gentlemen o Ladies. Perché in tanti, in questo disgraziato mondo dello sport, dimenticano i fatti velocemente. Tanti. Ma non tutti. Tra i protagonisti di queste brevi righe non tutti avranno la memoria corta. Perché Catalina ha ottenuto anche importanti scalpi, tra i quali quelle delle tascabili, ma temibilissime, Schnyder e Suarez. La si criticò di aver perso il match ancor prima ancora di averlo iniziato. Abbattuta dalle pressioni psicologiche che misero a nudo inequivocabilmente l’incapacità e la mancanza di physique du rôle nell’affrontare un’avversaria così leggendaria. Non fu la prima, e non sarà nemmeno l’ultima tennista, ad essere stata catapultata in un contesto agonistico nel quale non si è in grado caratterialmente di misurarsi. Ma Catalina fu un caso un po’ diverso. Venne come travolta da un impeto emotivo. Venne come collocata, immeritatamente postuma, in una sorta damnatio memoriae da parte degli appassionati. A guisa di severo ed eccessivo giudizio di immeritevolezza.
Troppi 23 anni di differenza, (quasi il doppio), si pensò, per non competere almeno alla pari. Vi sono parziali analogie, ma anche debitissime proporzioni, con l’ingiusto destino della bielorussa Natasha Zvereva. Che finì per essere ricordata da tanti, più per la finale lampo persa a Parigi contro Graf che per la sua straordinaria carriera vincente nel doppio. E pazienza se l’inarrivabile braccio destro dello Scriba apostrofa la disciplina come tralasciabile e di poca importanza. Opinabili licenze poetiche che, la mia umilissima penna, ritiene di concedere senza crucifige alcuno. Ma, brevi digressioni a parte, spulciando in quell’affollato dimenticatoio tennistico che ognuno di noi alimenta, talvolta anche inconsapevolmente, si nota come spesso singoli eventi, di poche ore o minuti, possano mettere in ombra anche vicende parimenti degne di lode (o infamia, a seconda dei casi) nell’esistenza di uno sportivo. Per un motivo o per un altro. Così come è passato nell’oblio, sempre per “dilettarci” nell’arduo parallelismo di cui sopra, l’importanza che ebbe nello sviluppo della sciovinisticamente politicizzata cultura sportiva soviet, la stessa Zvereva, primissima atleta in assoluto del blocco U.R.S.S. a reclamare uno spiraglio di liberalizzazione privatistica per i montepremi degli sportivi. Ancora oggetto, questi ultimi, dell’utopica condivisione capillare dei beni tipica del regime comunista.
Nella vita di molti atleti, dunque, c’è spesso quel “main event”, capovolgente circostanza talvolta di prestigio e fama (si legga “Martin Verkerk e il suo sfavillante lampo di paradiso a Bois de Boulogne”). Altre volte di fortuna, fortuna e ancora fortuna. Tanta fortuna (si legga “quel mattacchione”, come il sommo Franco Bragagna si dilettò nell’appellarlo, di Steven Bradbury, nello short track di Sydney 2002). Altre volte ancora di dramma e tristezza. Con qualche sfumatura di angoscia. El Pais, noto quotidiano spagnolo, nel marzo 2014 anticipa tutte le altre maggiori testate sportive di caratura internazionale e tuona la classica breve didascalia di poche righe, nelle quali sgomento e tristezza annichiliscono, privandoli di importanza, palmarès, titoli e qualunque altro dato della carriera sportiva. Catalina ha un tumore al seno. É devastata mentalmente. Non sa come reagire. Cosa fare. Cosa sperare. Con chi confidarsi. Anzi, in verità, pensa anche di non parlarne con nessuno, sottovalutando ingenuamente che quel male cosí truce, oltre ad una imponente dimensione anatomo-patologica, ne ha anche una psico-emozionale devastante.
Così invisibile e subdolo, riesce comunque ad abbattere una donna di 34 anni, temprata caratterialmente da fatica e sudore. Viaggi estenuanti e peripezie nel circuito minore. Conditi, ad inizio carriera, da una progettualità economica ed esistenziale degna dello sventurato Chris Gardner nella sua “Pursuit of Happiness”, impersonata magistralmente da Will Smith nell’omonima pellicola. Decide di confidarsi coi più intimi, salvo emanare poi un comunicato stampa, col quale informa “todos los colombianos” della notizia e dell’imminente inizio del trattamento chemioterapico. Arrivano messaggi e parole di conforto da ogni dove. Anche da Fabiola Zuluaga, che nel paese americano è un’istituzione sportiva prima ancora che la tennista più vincente di sempre. I mesi passano. I dubbi restano. Così come la fervida fede in Dio durante la degenza. Poi la svolta. La guarigione. Le lacrime. La calvizia. E quel desiderio di mostrarsi così com’è, senza parrucca, spontanea e diretta.
Frattanto, dall’altra parte del mondo c’è un altro colombiano di nome Santiago. Per gli amici ” Santi “. Il succitato che non dimentica e non vuole far dimenticare. Anzi, ringrazia proprio colei che, prima dell’avvento del tumore, lo aveva invitato a desistere dalle paventate intenzioni di ritiro dopo due operazioni ravvicinate di appendicite e peritonite. Con voce ossimorica, tipica di chi è triste nel ricordo ma gaudente nell’istante, si felicita con la connazionale in un video postato sui social. La colombiana è guarita. E pazienza se non è stata per nulla emula di quell’altro Becker finito negli Annales di tennis per luce riflessa nella pelata del suo Illustre dirimpettaio. Vittoriosa dello Slam, quello sì, più importante della sua vita. Sventurata catalizzatrice, suo malgrado, nei negativi ricordifici dei più. Ti salutiamo e ti auguriamo il meglio proprio con questo accomiatante e affettuoso calembour, Catalina.