Nella prima parte del nostro viaggio all’interno dell’Australia del tennis, ci siamo dedicati al passato. Oggi parliamo di presente, futuro e tornei.
IL PRESENTE – In un articolo a firma Darren Walton, uscito sul quotidiano di Melbourne “The Age” l’1 gennaio 2010, Craig Tiley – boss di Tennis Australia – rimarcava come in quel momento “ben 4 dei 25 tennisti juniores presenti nel ranking ATP sono australiani, più di qualunque altro paese. Finalmente abbiamo un gruppo che fa ben sperare per il futuro.” Nello stesso pezzo, il direttore degli Australian Open salutava con fiducia l’ingaggio dello spagnolo Felix Mantilla, in quanto “non basta aver incrementato il numero dei campi in terra, occorre anche avere qualcuno che sappia insegnare a giocare sul rosso.”
Dieci anni fa, dunque, l’Australia stava cercando di emergere dal torpore in cui era caduta dopo l’exploit di Lleyton Hewitt; sempre in quella data, infatti, oltre all’ex-numero 1 (scivolato al 28° posto del ranking) c’era un solo altro connazionale tra i primi 100: il trentenne Peter Luczak, 77esimo. Inevitabile, quindi, che i recenti successi colti a livello giovanile e il programma approntato dalla Federazione fossero stati accolti con entusiasmo; 150 milioni di dollari nei quattro anni successivi avrebbero dovuto imprimere la svolta e far tornare l’Australia in vetta all’albero del tennis mondiale.
Ma, lo sappiamo, per il balzo nel tennis che conta spesso non basta essere canguri. Di quella generazione, un decennio dopo non è rimasto praticamente niente. Bernard Tomic, Jason Kubler e Luke Saville – rispettivamente 17, 16 e 15 anni – hanno confermato solo in minima parte le aspettative anche se, va riconosciuto, nel frattempo l’onda lunga ha prodotto effetti positivi. Dei tre suddetti, l’unico ad aver avuto una carriera dignitosa è stato Tomic. Costantemente in lotta con un carattere quantomeno bizzarro e protagonista talvolta di comportamenti censurabili, Bernard (n°73) è l’ultimo dei sei Top-100 australiani attualmente in classifica ma è stato anche tra i primi 20 e ha giocato 6 finali nel circuito, vincendone 4. Degli altri due, le tracce si sono smarrite subito: sia Kubler che Saville (campione juniores a Wimbledon 2011 e Melbourne 2012) hanno giocato uno scampolo di incontri nel Tour principale e devono accontentarsi di qualche soddisfazione a livello Challenger.
Sembrava destinato ad un futuro radioso anche Omar Jasika, vincitore del titolo juniores agli US Open 2014, ma il mancino con radici bosniache è stato trovato positivo alla cocaina nel dicembre 2017 e di conseguenza squalificato per due anni. Quasi analoga la situazione di un altro campione slam juniores (Australian Open 2016), ovvero Oliver Anderson, costretto a uno stop di 19 mesi dopo l’ammissione di aver perso apposta un set in un incontro del Challenger di Traralgon 2016 per agevolare uno scommettitore.
Tra i campioni slam juniores, abbiamo tenuto in coda Nick Kyrgios e Alexei Popyrin per ovvie ragioni. Il primo è certamente il talento più cristallino uscito dalla cantera australiana negli ultimi tempi. Non staremo qui a ricordare pregi e difetti del 23enne di Canberra, attuale n°34 ATP, con un best-ranking di n°13; volenti o nolenti, Kyrgios è spettacolo puro anche se il suo approccio al tennis è quasi del tutto al di fuori dei canoni convenzionali. Come dimostrano i suoi head-to-head con i tre intoccabili (2-0 con Djokovic, 3-3 con Nadal, 1-3 con Federer), quando non cade vittima di se stesso, Nick è una mina vagante assai ardua da disinnescare. Tuttavia, la continuità di rendimento non è il suo forte e pure il fisico (forse anche a causa di lacune nella gestione dello stesso) passa spesso a chiedere il conto. Quanto a Popyrin (mentre scriviamo si è appena qualificato per il main-draw del 1000 di Monte Carlo, risultato già conseguito in stagione anche a New York, Acapulco e Indian Wells), il classe 1999 di Sydney con genitori russi ha già fatto diverse esperienze a livello di coach (Mouratoglu e Piatti, tra gli altri) e il successo al Roland Garros di due stagioni fa lo cataloga come tennista in grado di esprimersi al meglio anche sulla superficie tradizionalmente più ostica agli australiani.
Esaurito il filone relativo ai “ragazzini-prodigio” più o meno rivelatisi tali, scorrendo l’attuale classifica ATP troviamo al primo posto tra gli australiani Alex de Minaur, altro classe 1999 estremamente precoce, nato a Sydney ma residente ad Alicante e con una bacheca già più che interessante (due finali a Sydney, di cui quella vinta qualche mese fa, e una a Washington l’anno scorso, oltre a quella persa con Tsitsipas al NextGen di Milano). Costretto da una stazza fisica non trascendentale (180 cm per meno di 70 kg) a lavorare su aspetti tecnici che non poggino troppo sulla potenza, Alex ha sviluppato un gioco fatti di anticipi e ricerca della rete, pur mantenendo grande equilibrio nei fondamentali da fondo campo.
Dietro a de Minaur e Kyrgios, gli altri quattro attuali top-100 australiani sono John Millman (39), Matthew Ebden (53), Jordan Thompson (67) e il già citato Tomic. Pur trattandosi nel complesso di ottimi giocatori, hanno raccolto titoli solo nel circuito minore (27 Challenger in tutto) con qualche isolato exploit, come la vittoria di Millman su Federer agli US Open 2018, torneo nel quale ha raggiunto i quarti di finale. Infine, e non solo perché è uno dei due soli tennisti in attività tra quelli affrontati da Federer a non aver perso con lo svizzero, due parole su Thanasi Kokkinakis. Costretto ad una attività a singhiozzo a causa dei frequenti guai fisici, “4K” non è mai esploso del tutto nonostante abbia ottenuto un best-ranking di n°69 prima di compiere vent’anni. Attualmente è n°186 ma giusto in questi giorni è stato suo malgrado al centro di un caso, in quanto gli organizzatori del Masters 1000 di Monte Carlo gli avevano concesso una wild-card poi sprecata in quanto il giocatore, che già aveva dato forfait al Challenger di Barletta, non è potuto scendere in campo. I due tornei minori conquistati l’anno scorso (Aptos e Las Vegas) e la giovane età depongono ancora a suo favore, nonostante fin qui la sua carriera sia stata un piccolo calvario.
Se il versante maschile del tennis australiano ha dato già da qualche stagione confortanti segnali di ripresa, quello femminile sembra adesso in procinto di adeguarsi alla tendenza. Dai tempi di Court e Goolagong, infatti, solo Alicia Molik e Jelena Dokic sono state top-10 ma, se consideriamo che la prima ha avuto come miglior risultato in singolare in uno slam un quarto di finale a Melbourne (2005) mentre la seconda in realtà è di estrazione tennistica serba e ha rappresentato l’Australia solo nella seconda metà della sua carriera, è facile intuire come si tratti di casi isolati che non fanno tendenza.
Adesso, con l’insediamento di Ashleigh Barty nella top-10 (dopo il titolo conseguito a Miami) e la squadra di Fed Cup appena tornata in finale dopo 26 anni, l’orizzonte appare più roseo. Il filo che lega tra loro passato e presente non può essere che Samantha Stosur. Professionista dal 1999, la trentacinquenne di Brisbane è l’unica del suo paese ad aver giocato (e vinto) finali slam dagli Australian Open del 1980, quando Wendy Turnbull venne sconfitta da Hana Mandlikova. La fragile Sam invece, esplosa come doppista (specialità nella quale è stata per 61 settimane al vertice del ranking WTA), ha cercato e trovato gloria lontana da casa: nel 2010 al Roland Garros, sconfitta dalla nostra Schiavone, e l’anno successivo del tutto inaspettatamente, battendo nientemeno che Serena Williams e alzando il trofeo degli US Open. Dicevamo fragile perché, a dispetto di una struttura fisica di tutto rilievo, la Stosur ha più volte palesato in carriera debolezze emotive che ne hanno compromesso diversi incontri. Tuttavia, grazie al suo dritto al fulmicotone e al miglior servizio kick del circuito, Sam ha saputo vincere le sue stesse paure e ritagliarsi uno spicchio consistente di gloria che, tradotto in cifre, vuol dire, oltre agli US Open di cui sopra, tre major in doppio (US Open 2005 e Roland Garros 2006 con Lisa Raymond e i recenti Ausopen con la cinese Shuai Zhang) e altrettanti nel misto (AusOpen 2005 con Draper, Wimbledon 2008 e 2014 rispettivamente con Bob Bryan e Nenad Zimonjic).
Nell’attuale classifica WTA, sono 4 le tenniste australiane tra le prime 100 del mondo; tra Barty (9) e Stosur (77) ci sono Ajla Tomljanovic (39) e Daria Gavrilova (58). Accomunate dall’età – sono separate da dieci mesi – e dalla nascita in paesi lontani, hanno avuto in realtà carriere piuttosto diverse. Ajla, croata di Zagabria ma cresciuta sportivamente negli Stati Uniti, ha deciso di prendere la cittadinanza australiana a metà 2014 ed è stata per un certo periodo la fidanzata di Nick Kyrgios. Dopo aver superato due periodi di inattività causati da mononucleosi e problemi alla spalla, la Tomljanovic aveva chiuso il 2016 oltre la 900esima posizione mondiale ma già nel 2017 era a ridosso delle prime 100. Con le finali perse a Rabat e Seoul, l’anno scorso ha scalato altre settanta posizioni e in questa prima parte di stagione ha reagito al meglio alla amara eliminazione a Melbourne per mano della Konta centrando la finale di Hua Hin, persa non senza polemiche con la Yastremska.
Più lineare invece la carriera di Daria Gavrilova, moscovita saldamente tra le prime 50 da cinque stagioni, circa da quando è stata naturalizzata australiana. Anche se, nonostante i buoni propositi, questo 2019 è iniziato nel peggiore dei modi (2-8 il bilancio con ben sei eliminazioni al primo turno nei sette tornei giocati), la Gavrilova ha mostrato in passato di poter competere ai più alti livelli, come testimoniano le 11 vittorie ottenute contro Top-10.
Abbiamo volutamente lasciato per ultima Ashleigh Barty in quanto con lei – e con le connazionali Priscilla Hon, Kimberly Birrell e Astra Sharma – il presente si proietta nel futuro. Ventitreenne da un giorno (è nata il 24 aprile), Ashleigh ha bruciato le tappe sia da juniores (aggiudicandosi il singolare a Wimbledon 2011 quando aveva poco più di 15 anni) che in seguito, anche se i suoi primi risultati importanti sono arrivati in doppio. Dopo aver archiviato il Grand Slam delle finali (perse) in coppia con la connazionale Casey Dellacqua (Australian Open, Wimbledon e US Open nel 2013, French Open nel 2017), nel 2018 ha potuto finalmente alzare il trofeo degli US Open insieme a Coco Vandeweghe al termine di una finale thrilling con Babos/Mladenovic, terminata 3-6/7-6/7-6 con tre match-points salvati. Nel frattempo, per oltre un anno, la Barty aveva anche abbandonato il tennis per dedicarsi al cricket; stanca di essere per troppo tempo lontana dalla famiglia e desiderosa di misurarsi in uno sport di squadra, tra settembre 2014 e febbraio 2016 ha giocato con ottimi risultati sia nei Queensland Fire che nei Brisbane Heat. Vincitrice dell’ultimo torneo del 2018 (il WTA Elite Trophy), Ashleigh ha proseguito la striscia positiva nell’anno nuovo (finale a Sydney, quarti a Melbourne) poi sublimata con il trionfo nel Premier Mandatory di Miami e l’approdo alla Top-10, per concludersi temporaneamente alla Pat Rafter Arena di Brisbane dove ha trascinato la sua nazionale alla finale di Fed Cup. Battendo le bielorusse Azarenka e Sabalenka sia in singolare che in doppio (con Sam Stosur), Ashleigh è divenuta la prima tennista nella storia della competizione – da quando c’è l’attuale formula – a vincere sei incontri consecutivi tra quarti e semifinali del World Group.
Prima di passare al futuro, due parole anche su Astra Sharma, recente finalista a Bogotà (sconfitta dalla Anisimova) e finalista anche nel doppio misto agli ultimi Australian Open, in coppia con il connazionale John-Patrick Smith. Nata a Singapore da padre indiano e madre cinese ma trasferitasi con la famiglia a Perth in giovane età, la longilinea Sharma ha 23 anni e gioca un tennis brillante e offensivo.
IL FUTURO – Attualmente, la presenza australiana nelle classifiche mondiali juniores è piuttosto scarsa sia in termini di quantità che di qualità. In campo maschile ci sono solo due giocatori tra i primi 25: Rinky Hijikata (17) e Dane Sweeny (24). Entrambi nati nel 2001, quindi non giovanissimi, non hanno finora fatto registrare risultati di rilievo. Peggiore, in questo senso, la situazione femminile: nessuna Top-50 juniores e due sole presenze tra le prime 100. Ecco allora che, con tali premesse, l’Australia deve sperare che l’esempio della Barty possa estendersi alle ventenni Birrell e Hon e, soprattutto, alla diciottenne Destanee Aiava. L’attuale n°200 del mondo ha enormi potenzialità ma sembra non essere ancora in grado di reggere il peso delle aspettative che gravano su di lei. In questo primo scorcio di stagione, Destanee ha vinto il 25.000$ di Canberra e si è qualificata per il main-draw sia a Brisbane (dove poi ha anche battuto la Mladenovic) che a Charleston.
I TORNEI – Oltre agli Australian Open, nel calendario dei due circuiti maggiori l’Australia è presente con altri cinque tornei, tre WTA e due ATP. In realtà, sia a Brisbane che a Sydney si giocano due combined, anche se il peso specifico degli appuntamenti non è il medesimo. Infatti, mentre in campo maschile si tratta di ATP 250, i tornei femminili sono dei Premier. È solo WTA invece l’Hobart International, che si gioca ininterrottamente dal 1994.
Ad Hobart, in passato, si giocava anche un torneo maschile nato nel 1916 e disputato con discontinuità fino al 1978. Altri appuntamenti del passato non esistono più; tra questi, il più importante è certamente il Sydney Indoor. Inaugurato nel 1973 all’Hordern Pavilion con il successo di Laver in finale su Newcombe (6-4 al quinto), lì rimase fino al 1982 quando John McEnroe alzò il terzo dei suoi quattro trofei consecutivi. L’anno successivo la manifestazione si spostò all’Entertainment Centre, il luogo in cui i Dire Straits avrebbero replicato per 21 sere consecutive il concerto finale del loro tour nel 1986. Lo stesso anno Becker vinse il torneo a spese di Ivan Lendl, il giocatore che vanta il maggior numero di finali (5, di cui 3 vinte). Nel 1994, lo stesso Becker perse con Krajicek la finale della 22esima e ultima edizione del torneo.
Per restare in tema di tornei scomparsi, quello più suggestivo è il Queensland Championships che, dopo aver cambiato diverse sedi dal 1888 al 1919, si insediò stabilmente sui campi del mitico Milton Courts di Brisbane. Qui, nel 1969, si disputarono i primi Australian Open (1969) e sempre qui l’Australia giocò tre finali di Davis, perdendo quella del 1958 contro gli Stati Uniti per rifarsi sia nel 1962 (5-0 al Messico) che nel 1967 (4-1 alla Spagna). Altro luogo della memoria è il Memorial Drive di Adelaide, sede dei South Australian Open dall’anno della sua inaugurazione, ovvero il 1922. Lì, nel 1938, Donald Budge sconfisse John Bromwich nella finale degli Australian Championships e pose la prima pietra del primo Grand Slam della storia.
Sul versante femminile, di rilievo per il suo albo d’oro l’appuntamento che si giocò a Gold Coast dal 1997 al 2008 (con due stagioni di interruzione, 2004-2005) con la denominazione di Australian Hard Court Championships. Tra campionesse e finaliste, sono ben 8 le vincitrici slam presenti: Mary Pierce, Conchita Martinez, Venus Williams, Justine Henin, Martina Hingis, Flavia Pennetta, Li Na e Victoria Azarenka.
Per alcuni tornei che non esistono più, uno – molto particolare – che vedrà la sua genesi dal 3 al 12 gennaio 2020 in tre città australiane: l’ATP Cup. Sarà, in buona sostanza, la risposta dell’ATP alla nuova Coppa Davis e vedrà in lizza a Sydney, Brisbane e Perth ben 24 squadre rappresentanti di altrettante nazioni. Naturalmente, la competizione cancellerà di fatto i tornei di Sydney e Brisbane (che verranno parzialmente sostituiti da un nuovo 250 ad Adelaide) oltre alla gloriosa Hopman Cup, costretta a chiudere i battenti dopo 31 edizioni.
Veniamo ora, per finire, alla presenza australiana nei due più importanti circuiti minori. Ci sono stati ben quattro Challenger nello scorso mese di gennaio: Playford, Canberra, Burnie e Launceston. Anche se il calendario è ancora da ufficializzare, a questi si aggiungeranno verosimilmente Traralgon e di nuovo Canberra a fine ottobre. In campo femminile invece, tra gennaio e marzo si sono disputati 8 tornei: due W60 (Burnie e Launceston), quattro W25 (Playford, Mildura e due a Canberra) e due W15 (Port Pirie e Perth).
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