Quirino Cipolla è il padre e l’allenatore di Flavio Cipolla, azzurro anche di Coppa Davis che nella sua ormai lunga carriera si è tolto non poche soddisfazioni. Ha raggiunto la posizione 70 del ranking, vinto cinque Challenger e battuto giocatori di altissimo rango, tra cui Roddick, Ljubicic, Wawrinka e Nishikori. Assieme al padre ha costruito il suo tennis, adattandolo perfettamente al suo fisico minuto. Quirino è il protagonista di questa intervista, in cui racconta la sua passione per l’arte, l’amore per il tennis che dura da 50 anni e il rapporto con Flavio tutt’altro che semplice nonostante il forte legame. Quirino, oltre ad essere padre e coach di Flavio, è anche un grande artista: il 10 dicembre ha inaugurato una mostra a Roma dal titolo “Ibridatae”.
Artista e coach. Come è nata e come si è sviluppata questa doppia passione?
In maniera parallela e fisiologica. Io vengo dal mondo dello sport, giocavo prima di Flavio anche se ero più scarso e mi dilettavo a praticare anche il calcio a cinque in Serie A. Ho avuto un’infanzia e un’adolescenza sportiva, però nel frattempo portavo avanti anche altre passioni di stampo prevalentemente artistico. L’università me la sono pagata con le sculture, ho sempre disegnato da piccolo. Direi che le due passioni si sono ibridate naturalmente, credo che si riflettessero per la creatività, un amore per quelli che erano i gesti che credo siano stati trasmessi anche a Flavio. In uno sport come il tennis se si vede giocare qualcuno si riesce ad estrapolare l’identificazione della persona stessa, perché ciò che si vede nello sport si riflette nella vita quotidiana. Credo di non essere l’unico a pensarla così.
In cosa si somigliano arte e tennis?
Il tennis è uno sport di destrezza e come tutti gli sport di destrezza può essere influenzato dalle sensibilità. Io ricordo che quando giocavo riuscivo a fare le cose più difficili, che prevedevano una sensibilità elevata. Lì probabilmente mi aiutava la sensibilità artistica. Fondamentalmente le incidenze di una visione artistica, come il tennis, riguardano due branche ben definite: la prima è la parte strategica; la costruzione del punto che può essere gestito con una creatività particolare e la seconda è il gesto tecnico. Ai miei tempi quando si utilizzava uno strumento più difficile come la racchetta di legno, si poteva distinguere un giocatore sensibile da uno meno, oggi è tutto più ingannevole con i nuovi strumenti, chiunque può tirare forte. Nella storia del tennis c’è stato qualche giocatore, come McEnroe, che risentiva di flussi artistici-creativi e il suo livello di gioco ne beneficiava in maniera evidente. Lui è uno che suona, ha una galleria d’arte, ha una sensibilità verso l’arte evidente e il suo modo di giocare era una testimonianza chiara, un gioco assolutamente atipico ma di una sensibilità clamorosa. Era uno di quei giocatori che guardavo con maggior interesse. Adesso è un periodo in cui mi interessa maggiormente l’arte, il tennis dopo 50 anni mi lascia un po’ più freddo anche se le passioni che ci sono dietro un match sono rimaste vive e probabilmente non moriranno mai.
Com’è riuscito ad avvicinare Flavio al mondo del tennis?
In maniera quasi naturale. Era un periodo in cui avevo dei circoli, delle scuole tennis. Flavio l’ho avuto quand’ero giovane, è venuto ad allenarsi qualche volta, era piccolissimo, under 12. Lui ha sempre respirato lo sport, come il fratello. Io credo che un genitore debba provvedere a dare qualche strumento sia culturale che didattico in generale, quindi gli ho insegnato gli elementi del tennis e del calcetto e tutto ciò che mi passava per la testa o che sapessi fare. Senza spingere o mettere pressione. Flavio ha iniziato a fare i tornei più tardi rispetto ai suoi coetanei, giocava in maniera atipica, molto incentrata sull’aspetto ludico. Mi ricordo che nel primo periodo non gli facevo mai prendere la palla a rimbalzo cosicché si potesse divertire a giocare al volo. Credo di avergli trasmesso un’educazione sportiva sana e questo l’ha aiutato nel mondo del professionismo.
È riuscito a trasmettergli una passione simile anche per l’arte?
Non credo. Flavio è venuto alla mia mostra accompagnato da qualche amico e dalla squadra dell’Aniene. Mi ha fatto piacere parlare con un giovane come Matteo Berrettini che ieri mentre ci stavamo allenando mi ha detto: “La mostra l’ho guardata con molto interesse”. In un paese come l’Italia credo si dovrebbero sensibilizzare un po’ i giovani dato che abbiamo un patrimonio immenso. Credo che si otterrebbe anche qualche risultato. In Australia in un museo contemporaneo vedevo tanti ragazzini che entravano e che si incuriosivano. Se oggi si va in museo in Italia sfido chiunque a trovare un under 18. Matteo mi ha fatto capire che c’è potenziale da parte dei più giovani.
Com’è il rapporto tra un padre/coach e un figlio/giocatore?
Drammatico (ride). È una roba brutta, detto in romano. Siamo stati abbastanza fortunati, abbiamo avuto alti e bassi. Il problema è uno: i genitori sono un po’ come il pesce, dopo un po’ puzzano. C’è bisogno da parte dei ragazzi di tagliare i cordoni ombelicali. Per costruire un giocatore bisogna conoscere perfettamente la persona, bisogna avere la dedizione che un genitore ha ma che non può avere un professionista. Però ci sono una quantità di criticità, anche se si ha un buon rapporto. Il fatto di avere una sovrapposizione di figure, papà e coach, non è una cosa positiva. Ci sono due facce della medaglia: una positiva perché si può fare molto e si può creare un legame diverso, un’altra negativa perché ci sono una quantità di problematiche che sarebbe meglio non gestisse un genitore. Non è semplice, confesso che per me è stato pesantissimo. Sono rari i genitori-coach e ho un ricordo bruttissimo di alcuni che hanno traumatizzato a vita i figli, soprattutto nel femminile dove riescono a imporre il ruolo di padri-padroni. Allontanandoci dallo sport, quale ragazzo o ragazza in crescita vorrebbe avere il padre tra i piedi? Il ruolo dei genitori dovrebbe essere il più possibile defilato, io ho sempre lasciato Flavio libero da tutte le decisioni, senza pressioni, forse è questo che ci ha consentito di fare un percorso.
Parliamo degli aspetti positivi…
Un ruolo di questo genere consente di continuare a vivere di passioni perché quello che si prova assistendo a un match di un figlio che hai preparato è una cosa molto particolare, i match che ho visto di Flavio sono come se li avessi giocati tutti, sapevo cos’avrebbe fatto in certe situazioni, prima di colpire, sentivo le sue emozioni, sentivo anche delle fitte allucinanti. Ricordo che Barazzutti nella prima qualificazione del Roland Garros, quando Flavio vinse 7-5 al terzo mi disse: “Ma che hai fatto? T’hanno menato?” Ero devastato fisicamente. Se hai fatto quel tipo di sport e hai la conoscenza esatta di quello che prova un giocatore, delle situazioni che anche tu hai vissuto, è come riviverla un’altra volta. Solo che se giochi sei attore e fai delle cose che ti portano a stressarti di meno, se non giochi ma vedi giocare sei attivo ma parzialmente e non gestisci tu la situazione, quindi soffri e basta. In tutta la sua carriera le partite che ha vinto Flavio raramente le ha vinte facilmente, mi ha portato via dieci anni di vita pieni, ma almeno li ho vissuti con passione, questo glielo devo riconoscere.
Abbiamo sentito recentemente Flavio che ci ha raccontato che vorrebbe riavvicinarsi ai primi 200 per poter tornare a giocare i tornei del Grande Slam. Un augurio da padre…
Glielo auguro perché tecnicamente negli ultimi due anni l’ho visto giocare meglio di quando era 70 però c’erano altre cose che probabilmente non riuscivano a dargli continuità nei match per poterle esprimere. Mi rendo conto che ha 32 anni e ha avuto una carriera molto intensa, io lo dico sempre anche a lui: “hai scalato le montagne”. Nonostante sia il padre e abbia sempre avuto massima fiducia e penso sia un giocatore elastico quindi se sale il livello sale anche lui, francamente con alcuni giocatori non avrei mai pensato potesse vincere e l’ha fatto esprimendo una qualità di gioco elevatissima. La scommessa è questa: se lui riuscirà a trovare la voglia per provare a rientrare allora può farcela. Sono curioso anch’io di vedere se avrà voglia e capacità per farlo. Glielo auguro con tutto il cuore da padre e da uomo di sport, se così posso definirmi, perché ha battuto talmente tanti giocatori di livello che secondo me può ancora sorprendere. Bisogna semplicemente capire la sua condizione interiore e poi si vedrà.
La mostra “Ibridatae” di Quirino Cipolla a “Porta Mazzini” ha riscosso un ottimo successo e, qui di seguito, potete vedere alcune immagini del vernissage nella nostra PhotoGallery
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