di Paolo Angella
Il movimento tennistico nazionale è in continua crescita. Nascono nuove scuole tennis ogni mese con proposte e programmi sempre innovativi. Cerchiamo di capire assieme al tecnico nazionale e coach professinista Dario Bellino e al maestro nazionale Enrico Sellan quale sia il percorso migliore per un bambino o un ragazzo che abbia voglia di avvicinarsi a questo sport.
Enrico Sellan è stato un discreto giocatore di tennis, arrivato fino al numero 810 delle classifiche ATP, poi ha fatto anche da sparring partner di Monica Seles, è diventato maestro nazionale di tennis nel 1994 e adesso ricopre il ruolo di direttore tecnico del circolo romano R70, lavorando soprattutto con i ragazzi.
Dario Bellino, tecnico nazionale della FIT, lavora al Tennis Club River Side di Torino, ma di fatto è un coach professionista, ha iniziato giovanissimo a lavorare con professionisti, ha seguito Giulia Gatto Monticone per un decennio frequentando il circuito internazionale.
Più stanziale Enrico, più itinerante Dario, entrambi amano il proprio lavoro, entrambi hanno l’obiettivo di fare crescere il tennis nazionale e di aiutare i nostri ragazzi a emergere nel tennis che conta, i metodi per certi aspetti sono simili, per altri differenti, ma li accumuna la grande meticolosità e determinazione che mettono per raggiungere i lori obiettivi.
Proviamo ad affrontare assieme a loro una serie di argomenti riguardanti tutte le fase delle preparazione dei ragazzi che giocano a tennis, dall’inizio fino al professionismo, dalla fase in cui lavorano con il maestro di circolo, come Sellan, a quella in cui serve l’operato di un coach professionista come Bellino.
Secondo voi, come viene insegnato il tennis ai ragazzi in Italia? Abbiamo bravi maestri e scuole di tennis in grado di preparare realmente al professionismo?
Sellan: negli ultimi anni è cambiato il metodo di insegnamento nelle scuole tennis. La nuova generazione di maestri di tennis, di cui mi onoro di far parte, è un gruppo che ha studiato, che si è aggiornata nel tempo, ha saputo riprodurre gli aspetti più validi che si trovano nelle scuole tennis di altre nazioni. La qualità del nostro lavoro è sicuramente aumentata negli ultimi anni. Ci sono tante scuole tennis in Italia veramente valide, non solo quelle rinomate con maestri noti e importanti. La qualità media è alta, ci sono anche piccole scuole, di piccoli circoli che sanno lavorare molto bene. Ovviamente stiamo parlando della prima fase di avvicinamento al tennis, peraltro molto importante, poi per l’agonismo è chiaro che servono strutture un po’ più specializzate, uno staff preparato a lavorare con almeno semiprofessionisti e in questo caso sono meno le scuole pronte a questo tipo di attività, però quelle che abbiamo sono estremamente valide anche per gli agonisti.
Bellino: io non credo che si possa giudicare come si insegna in Italia, perché abbiamo tante realtà, ognuna delle quali è differente dalle altre. I risultati però dicono che non siamo in grado di portare al professionismo di altissimo livello molti allievi, e per altissimo livello intendo top 50. Io ho solo esperienza nel campo femminile, e le giocatrici emerse (escludendo Vinci e Knapp) sono esplose formandosi fuori dai nostri confini, non credo che sia un caso. Questo però non vuol dire che non abbiamo una buona scuola in Italia. I nostri giocatori, a livello giovanile, sono sempre degli ottimi “prodotti” che successivamente però non riescono a emergere e a compiere il successivo salto di qualità. Questo spesso succede, secondo me, perché non abbiamo figure di supporto ai tecnici che aiutino a gestire le dinamiche extra campo, molto complesse che non competono ai tecnici stessi e che, quando intervengono, spesso fanno più danni che profitti. Secondo me mancano le competenze e manca una specializzazione nel settore.
Paragonandole con le scuole tennis di altre nazioni quali sono le differenze sostanziali?
Sellan: io ho lavorato negli Stati Uniti e ho viaggiato molto in Europa, conoscendo altri maestri e allenatori, è sempre stato molto stimolante e istruttivo confrontarsi con gli altri colleghi di tutto il mondo. E’ una sorta di continuo corso di aggiornamento. Di fatto credo che il modo di lavorare ormai si sia abbastanza uniformato in tutto il mondo. Il vantaggio di alcune strutture negli Stati Uniti e anche ad esempio in Spagna è che hanno tantissimi campi tennis su diverse superfici, in questo modo è chiaro che si agevola il lavoro sia dei maestri che degli allievi. Ora però, negli ultimi anni, sto viaggiando molto poco perché lavoro in modo stanziale alla mia scuola tennis e quindi, purtroppo, non sono a conoscenza di eventuali nuovi modi di lavorare da parte dei colleghi europei o americani, in generale è sempre opportuno per tutti noi avere un confronto con loro per scambiarsi frequentemente consigli e opinioni.
Bellino: conosco la realtà francese, ma ha un potere economico e politico diverso dalla nostra FIT, le Sat sono quasi gratuite per tutti i bambini, che mediamente sono molto più educati e predisposti allo sport rispetto ai “cugini” italiani. La scuola supporta l’educazione fisica, hanno il “mercoledì dello sport”, hanno un concetto di multidisciplinarità che qua in Italia non abbiamo. E poi sono molto più fiscali sulla figura dell’insegnante, non esiste la confusione di qualifiche che c’è da noi. Dal punto di vista tecnico la scuola tennis italiana vive un po’ della sindrome italica del “tutti sanno fare tutto”, manca la specializzazione perché, se in teoria vi è una gerarchia che parte dall’istruttore di primo grado e arriva al tecnico nazionale in base a competenze e ad esperienza, in campo, sia per problemi organizzativi (ergo economici) che per un senso di “onnipotenza professionale”, tutti cercano di costruire baby giocatori per poi portali avanti nella loro realtà pensando di poter fare bene durante tutta la formazione dell’allievo. Un altro aspetto che cambierei in Italia è la “sindrome del maestruccio della SAT”, non si sa per quale motivo il ruolo maestro dalla scuola di avviamento è visto come meno prestigioso del maestro dell’agonistica. In realtà secondo me questo è il ruolo più importante in assoluto, perché mette le basi al ragazzino per poter in futuro giocare un tennis corretto, gli insegna ad affrontare al meglio questo sport. Questo è un grande problema, perché spesso i maestri più bravi seguono giocatori già formati e che non necessitano di un supporto tecnico come i “colleghi” più piccoli. In generale credo che per un maestro sia difficile togliersi l’abito del giocatore e invece ragionare come professionista dell’insegnamento.
L’organizzazione attuale dei tornei ti piace o pensi che sarebbe opportuno cambiare qualcosa?
Sellan: tempo fa ho letto una interessante intervista che avete fatto con Silvano Papi, in cui proponeva di fare tornei concentrandoli solo nel week end, mi sembra davvero un’idea illuminata e utile per la crescita del movimento. Durante la settimana i ragazzi hanno spesso la scuola fino a metà pomeriggio, poi devono fare i compiti, poi magari hanno altre attività, un conto è fissare un allenamento, che può sempre essere organizzato, un conto invece è andare a fare un torneo, magari lontano da casa, con tempi di gioco incerti, che di fatto ti portano via tutta la giornata. Poi, anche dal punto di vista dei genitori e dei maestri è un problema quando i ragazzi devono giocare durante la settimana. I genitori spesso devono prendere ferie o permessi dal lavoro, che prima o poi finiscono, i maestri se seguono l’allievo al torneo, devono lasciare la propria attività al circolo, e magari annullare altre lezioni. Insomma sarebbe davvero molto più semplice se si riuscisse a organizzare tutto solo nei week end. Del resto negli Stati Uniti funziona in questo modo da tempo e i tornei, come faceva notare lo stesso Silvano Papi, diventano un’occasione per attivare tutta una serie di attività collaterali, per far conoscere il mondo del tennis alle famiglie. Certo per fare questo servono strutture grandi con molti campi a disposizione, una organizzazione molto accurata e precisa, magari le partite dovrebbero essere più brevi, ma credo che si possa fare. Del resto, lo fanno la maggior parte degli sport, con allenamenti durante la settimana e partite e tornei al sabato e alla domenica, non vedo perché non potremmo farlo anche noi.
Bellino: condivido anche io in pieno il concetto espresso da Silvano Papi, ritengo i tornei di tennis riservati ai ragazzi, nella forma attuale, siano un po’ anacronistici. Le abitudini sociali sono cambiate, viviamo in un mondo più “veloce”, ritmi frenetici, le famiglie non hanno più’ troppo tempo da investire viste le molteplici attività. Un piccolo passo si è già fatto, in alcuni casi, con i tabelloni a selezione; un ulteriore passo in avanti potrebbe essere fatto nei modo suggerito da Papi. Secondo me sarebbe anche interessante fare una competizione a squadre che duri tutto l’anno, un po’ proprio come succede nel calcio. Si coinvolgerebbero tutti i tennisti in erba, anche quelli meno agonisti. Se andiamo a vedere i cognomi dei bambini più bravi nei tornei, sono spesso figli di maestri o semplicemente figli di genitori ex agonisti o attuali agonisti, che passano molto tempo al club. Questi ragazzi hanno già delle motivazioni indotte che gli altri bambini potrebbe ricevere da una continua e sana competizione nell’intero anno. Non ha senso una competizione che dura due mesi. A chi sostiene che, giustamente, il tennis sia uno sport individuale, io rispondo che comunque le partite in campo sono sempre uno contro uno o al massimo due contro due e quindi lo spirito del match individuale sarebbe invariato.
A quale età consiglieresti di iniziare a giocare a tennis? Esiste un limite oltre al quale non è più possibile iniziare sperando di diventare un professionista o comunque un bravo tennista oppure si può sempre cominciare a qualsiasi età?
Sellan: ovviamente bisogna valutare caso per caso e, soprattutto da bambini, a volte anche pochi mesi di differenza, cambiano la corporatura e quindi la struttura fisica. Normalmente noi consigliamo di iniziare a giocare a tennis a cinque anni. In media credo che l’età ideale per iniziare sia tra i quattro e i sei anni. In questo modo c’è il giusto tempo per non bruciare le tappe e per crescere con i tempi corretti. Iniziando oltre i sette anni, poi bisogna correre e fare tutto più in fretta e qualche volte il bambino ne risente.
Bellino: io sono per la multidisciplinarità. Personalmente inizierei presto (a 4-5 anni) con la motricità, solamente perché i bambini odierni pagano un deficit educativo a livello motorio per l’impossibilità dei “giochi da giardino”, ormai scomparsi nelle nostre città. Poi fino agli 8-9 anni farei fare uno sport individuale, uno di squadra, e una tra le arti marziali che più attira il ragazzino. Capisco benissimo però che il tempo sia poco e l’idea di difficile attuazione. Fra l’altro è noto che in Italia chi fa sport viene penalizzato dalla scuola. Dopo i 10 anni però è inutile pensare a mescolare vari sport, ormai la specializzazione precoce è aumentata a dismisura, chi vuole diventare un tennista, deve giocare a tennis e farlo anche correttamente e con la giusta mentalità già a quell’età.
A scuola non si pratica quasi mai il tennis a favore di altri sport. È un vincolo che si può superare?
Sellan: sono assolutamente convinto che debba essere stimolata una collaborazione con gli insegnanti di educazione fisica per cercare di portare il tennis nelle scuole, che, in effetti, è praticamente del tutto assente. La scuola è un bacino immenso di potenziali futuri giocatori di tennis, è davvero un peccato non provare nemmeno a entrare nelle ore di educazione fisica. Non è facile, perché a scuola c’è la tradizione di fare sport di squadra come basket o pallavolo soprattutto, ma credo che si dovrebbe lavorare per portare un po’ di tennis anche all’interno delle mura scolastiche.
Bellino: credo sia più che altro una questione politica, in quanto le attrezzature moderne ci permettono di creare dei mini campi in qualsiasi palestra. Scuole dell’infanzia e scuole primarie per conto mio sono da prendere come target. Voglio raccontare un esempio di ciò che ho vissuto personalmente. Io vivo in un paese del canavese (nord del Piemonte), che ha un buona tradizione nel baseball. Il mio professore di educazione fisica amava questo sport e faceva parte della società sportiva. Indovinate un po’ che sport ci faceva fare nelle ore di educazione fisica a scuola? La colpa è anche della nostra categoria, perché spesso preferiamo fare due ore di lezione privata al professionista di turno, piuttosto che andare nelle scuole investendo il nostro tempo a parlare con i ragazzi. E quando lo facciamo presentiamo progetti che non “attirano” i dirigenti scolastici. Mediamente “vendiamo” male il nostro prodotto o non siamo in grado “venderlo” affatto. Ecco che ritorno a dire che anche in questo caso ci vorrebbe una figura di appoggio, che non abbiamo.
Ci sono due diverse teorie riguardo l’approccio psicologico dei maestri verso i ragazzi. Chi preferisce alzare il livello delle aspettative e invece chi preferisce restare sempre più cauto per evitare delusioni. Tu come ti collochi tra queste due filosofie?
Sellan: il maestro di tennis deve essere assolutamente anche un bravo psicologo. Deve rapportarsi con i ragazzi e anche con le famiglie, per capire la mentalità dell’allievo. Bisogna valutare caso per caso, prima di decidere se sia meglio aumentare l’asticella degli obiettivi a rischio di delusioni oppure se sia meglio restare “bassi” con gli obiettivi. In media, io preferisco restare cauto soprattutto con i ragazzi più giovani, perché in genere tutti partono con ambizioni molto alte, pensano che sia facile arrivare ad essere professionisti, a guadagnare un sacco di soldi e poi alle prime difficoltà tendono a mollare. In realtà magari, con la grande costanza negli allenamenti, con una buona preparazione molti di loro potrebbero comunque diventare bravi professionisti anche se non top players. A me provoca molto fastidio sentirmi dire “piuttosto che diventare solo 2.3, 2.4, preferisco smettere”, il tennis deve essere un divertimento, una passione, poi è chiaro che solo i più bravi entreranno nell’elite del professionismo.
Bellino: credo che il maestro in questo caso debba essere il “filtro” tra ragazzo e famiglia. È insito nella sensibilità dell’insegnante mediare tra la pressioni familiari e gli effettivi desideri del ragazzo, capire se deve essere stimolato “alzando l’asticella”, o costruire un percorso step by step al fine di gratificarlo in continuazione. Tutti con i coach di esperienza approcciano sempre in modo diverso ogni allievo che hanno davanti. La vera difficoltà è nel capire davvero chi si ha davanti.
Esiste un fil rouge che lega in qualche modo il maestro di base e il coach, oppure i due ruoli in qualche modo si devono lasciare separati e distinti?
Sellan: sono due ruoli che si completano a vicenda, qualsiasi tennista professionista ha bisogno di entrambi. Senza un bravo maestro che lo ha preparato a dovere, nessuno sarebbe potuto diventare un professionista. Il maestro lascia segni indelebili nella crescita del ragazzo, lo plasma come tennista e poi lo affida alla mani del coach, che è colui che ha il compito di aiutarlo nella carriera professionistica. Il coach è ancor più psicologo del maestro, devi spesso fargli da amico, da genitore, da fratello, ma è anche il suo manager, si deve occupare dei viaggi, dei mille problemi organizzativi che sempre capitano, deve studiare la migliore programmazione, deve fare i calcoli per salire in classifica, ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza un bravo maestro che gli abbia insegnato a giocare e vincere a tennis. Capita che il maestro diventi lui stesso il coach, in tanti casi è la soluzione migliore.
Bellino: si parla dello stesso sport, ci sono sempre una pallina e una racchetta; ma son due mestieri diversi, entrambi necessitano di esperienza e competenza, che si acquisiscono negli anni. Proprio per questo per farlo bene bisogna scegliere quale dei due fare. Ci improvvisiamo tutti maestri del minitennis, perfezionamento, specializzazione e poi, passando al coaching, spesso si fanno dei disastri. Questo perché il maestro di tennis è un essere umano e cade negli errori degli esseri umani soprattutto quando la componente emotiva prende il sopravvento. Ed è proprio per questo che ci devono essere delle regole e devono essere rispettate, perché se ognuno di noi facesse davvero al meglio il proprio mestiere ne gioverebbe tutto il movimento. In questi anni di esperienza nel circuito maschile ma soprattutto femminile, mi sono reso conto che c’è una falla nel “Sistema Tennis” che da agonistico diventa Pro. Per questi motivi, io e un amico nonché professionista nel settore tennis, Paolo Moro, abbiamo messo le basi per un progetto che si possa differenziare la figura del maestro Sat, agonistica e quella del progetto riservato ai “Top player”, dove si creano ruoli e professionalità ben precise, dentro ma soprattutto fuori dal campo. È un progetto articolato e complesso, spero che ci potranno essere altre occasioni per parlarne.
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