A differenza di quanto successo in occasione della prima puntata (Argentina), questa volta l’importanza che la nazione in oggetto ha avuto nella storia del nostro sport ci ha consigliato di affrontare l’argomento suddividendolo in due parti. L’appuntamento con la seconda parte è per giovedì prossimo.
Adesso è il luogo della memoria e vive solo nei filmati d’epoca e nei ricordi di chi c’è stato. Adesso che il cuore pulsa altrove, nella cattedrale abbandonata e profanata, sorta in quella striscia di terreno nei pressi della ferrovia che il finanziere Baillieu acquistò nel 1922 alla modica cifra di 175 sterline, non sono più i cardinali a dire messa e i sacerdoti dell’AAMI Classic sono in realtà Dei pagani a cui la storia e la leggenda versano un obolo per combattere l’oblio.
Il nostro viaggio “down under” inizia da qui, da quel Kooyong trasudante atmosfera coloniale in cui le palline rimbalzano ovattate sull’erba, quasi a voler rispettare il significato stesso del nome che gli aborigeni avevano dato all’acquitrino sul quale sorse: terra del silenzio.
Il 489 di Glenferrie Road è stato per un ventennio l’ombelico dell’altro mondo. Dal dopoguerra ai primordi dell’Era Open, l’Australia ha dominato il tennis maschile; sia quello ufficiale dei (finti) amatori che quello “clandestino” dei (veri) professionisti. Dei 100 major in singolare disputati dal 1946 al 1970, ben oltre la metà (59) sono finiti nelle mani dei canguri, percentuale confermata dal doppio (129 su 200).
Quella fu l’età dell’oro, capace di trascinare nella sua scia, fatte le debite proporzioni, anche il settore femminile. Tuttora, è australiana la detentrice del record di slam vinti in singolare (Margaret Smith Court), la cui parziale eredità venne presa per qualche tempo dall’indimenticabile Evonne Goolagong.
Poi, piuttosto all’improvviso e in larga parte inatteso, arrivò il tempo della cattività, in cui l’Australia tutta (nazione e giocatori) divenne prigioniera di se stessa, esiliata all’interno dei suoi stessi confini dal corposo rifiuto altrui di partecipare ai suoi tornei, soprattutto allo slam di Melbourne. Il Medioevo durò all’incirca un decennio, al termine del quale niente è stato più come prima; soprattutto la superficie. Adeguandosi con prontezza ed efficacia ai nuovi dettami internazionali, l’Australia si è rifatta il look senza rimpianti sostituendo l’erba con il duro, innalzando nuovi templi nelle sue roccaforti (oltre a Melbourne, anche Sydney, Brisbane, Adelaide e Perth) e alzando l’asticella dell’efficienza – e della popolarità – di anno in anno.
Paradossalmente, all’innalzarsi della qualità degli appuntamenti, si è registrato un regresso sul piano degli interpreti. Come vedremo in seguito, l’Australia ha sì continuato negli anni a sfornare talenti ma non più come mezzo secolo fa e comunque non del tutto proporzionati agli investimenti fatti in termini di strutture.
IL PASSATO – Trattandosi di una delle quattro nazioni che ospitano tornei dello slam ed essendo geograficamente collocata più o meno lontano dagli altri continenti, la storia e la valutazione del tennis australiano non possono prescindere da questi fattori. Dal 1905 al secondo Dopoguerra – e anche fino ai Cinquanta inoltrati – raggiungere l’Australia era piuttosto complicato nonché costoso. Di conseguenza, non deve sorprendere che, nelle prime 38 edizioni degli Australian Open, solo una finale del singolare maschile (quella del 1912, che se la contesero i britannici James Parke e Alfred Beamish) non vide in campo un giocatore dell’Oceania mentre nel torneo femminile (che vide l’alba però solo nel 1922) la stessa situazione si verificò in due occasioni: l’ultimo atto del 1935 fu targato Gran Bretagna (Dorothy Round contro Nancy Lyle) mentre nel 1950 furono le statunitensi Louise Brough e Doris Hart a contendersi il titolo, che per la cronaca andò alla prima.
Il quasi monopolio casalingo registrato nel suddetto periodo non deve però falsare la prospettiva e il giudizio. Alcuni grandi campioni e campionesse locali lo furono a prescindere, così come non mancò chi riuscì a primeggiare pur venendo da lontano. Tra questi ultimi, inutile sottolineare come Don Budge non sarebbe mai stato il primo conquistatore del Grand Slam se non avesse affrontato la lunga trasferta dagli Stati Uniti al Memorial Drive di Adelaide, che proprio in quel 1938 – a 17 anni dall’inaugurazione – venne dotato del secondo centrale.
Per quanto riguarda invece gli atleti di casa, il primo nome non può essere che quello di Norman Brookes (foto a sinistra), a cui dal 1934 è stato intitolato il trofeo riservato al vincitore del singolare maschile degli Australian Open. Primo non britannico nonché primo mancino ad aggiudicarsi il torneo di Wimbledon (1907), Brookes si ripeté nel 1914 e nel mezzo (1911) era stato eroe locale quando il major di casa si chiamava ancora Australasian Championships e si disputava al Warehouseman’s Cricket Ground, nel quartiere di St Kilda.
Tuttavia, il primo vero immortale tra gli australiani fu Jack Crawford. In fondo, è a lui che si deve la coniazione del termine (di deriva bridgistica) Grand Slam, anche se poi il suo nome non compare tra chi ha bevuto gloria dal sacro calice. Quando, a pagina 10 del Reading Eagle di martedì 18 luglio 1933, il columnist di Filadelfia Alan Gould scrisse che, detenendo i “singles titles of Australian, French and British” adesso aveva la chance per il Grand Slam del tennis, si riferiva proprio a John Herbert Crawford da Urangeline, un villaggio del Nuovo Galles del Sud.
Poi accadde che Jack si fermò a un solo set dalla leggenda, crollando nella finale di Forest Hills contro Fred Perry; avanti 2-1 – ma svuotato di ogni energia dall’afa di New York che l’asma di cui soffriva rese intollerabile – rimediò appena un gioco negli ultimi due parziali e in fondo è ingiusto che Crawford sia ricordato per una sconfitta quando invece per oltre 70 anni è stato il detentore del primato di finali slam consecutive (7, nel biennio 1933/34), poi superato da Federer (10, da Wimbledon 2005 agli US Open 2007).
Nel secondo Dopoguerra, come già anticipato, i canguri diventarono i padroni delle ferriere e il principale artefice del dominio australiano fu senza dubbio Harry Hopman (foto a destra). Già ottimo doppista, Hopman riuscì a creare praticamente dal nulla la scuola che in breve tempo sfornò decine di grandi campioni. Ossessivo e ossessionato, sergente nei metodi ma anche in grado di trasformarsi in un padre premuroso per i suoi allievi, il capitano più vincente nella storia della Davis iniziò da Ken McGregor e Frank Sedgman. Nel 1951 i due fecero coppia fissa e iniziarono la miglior performance di doppio maschile di ogni tempo; dopo aver conquistato il Grand Slam – caso unico nella storia del gioco – l’anno seguente vinsero di nuovo Australian Open, Roland Garros e Wimbledon e mancarono di un soffio il clamoroso bis, battuti nella finale di Forest Hills da Vic Seixas e Mervyn Rose dopo 37 vittorie consecutive nei major.
Dopo la sconfitta, Hopman non parlò con Sedgman per due mesi e di lì a poco Frank accettò di fare ciò che già aveva in mente da tempo: passare al professionismo. A farlo desistere, un anno prima, era stato proprio Hopman che, con una raccolta fondi attraverso la rubrica che teneva sul Melbourne Herald, era riuscito a raccogliere una somma tale da consentire alla futura sposa di Sedgman di acquistare una stazione di servizio.
A mano a mano che i fuoriclasse australiani si fecero tentare dalle sirene dei “Pro”, altri ne arrivarono dalle retrovie, uguali se non migliori. Così, a metà degli Anni ’50, fu il momento degli Apprendisti Stregoni: Lew Hoad e Ken Rosewall. Appena ventunenni per quasi tutto il 1956 (sono entrambi nati a Novembre del 1934, a distanza di tre settimane uno dall’altro), i “Gemelli” si trovarono faccia a faccia nella finale degli US Championships; Hoad aveva già messo in bacheca i trofei dei tre major precedenti e a Wimbledon si era imposto proprio a Ken in finale ma quest’ultimo voleva ben figurare ad ogni costo perché un’eventuale vittoria gli avrebbe spalancato i cancelli del professionismo. Più tardi Lew confessò di aver giocato quella finale di Forest Hills senza particolari pressioni in quanto ignaro di essere a un passo dalla leggenda ma resta il fatto che lo scorpione Rosewall lo punse a ripetizione e controllò il forte vento di quella giornata newyorchese assai meglio dell’amico/rivale, battendolo infine in quattro partite.
Passati pure i “Gemelli” a miglior vita (tennistica), il serbatoio inesauribile di Hopman propose di lì a breve prima Roy Emerson e poi Rod Laver. Il primo non si meritò l’ingresso nella classifica dei migliori 21 giocatori di ogni tempo, stilata da Jack Kramer, probabilmente perché conquistò tutti e 12 i suoi slam prima dell’Era Open e quindi senza la debita concorrenza; tuttavia, “Emmo” è tuttora l’unico tennista nella storia ad aver vinto almeno due volte ciascun major e questo vorrà pur dire qualcosa.
L’altro è Rod Laver, il termine di paragone quando ci si addentra nella spinosa questione del GOAT. Potrebbe essere lui il migliore di sempre? Forse, perché è stato l’unico a cavalcare l’onda in entrambe le ere e ad aver messo a segno un Grand Slam per ciascuna: da amatore tra gli amatori nel 1962; da professionista – quando le barriere erano già state abbattute – nel 1969. Nel complesso, “Rocket” fece suoi 20 titoli slam (9 tra i “Pro”, nel lustro ‘63-’68) e verrebbe da affermare che sì, è lui il migliore di sempre. Ma sappiamo che non può essere così, soprattutto perché la continua evoluzione a cui è sottoposto il tennis impedisce di trovare parametri fissi e completamente attendibili per stabilire tali gerarchie trasversali.
Tornando a noi, da metà degli Anni ’70 la vena aurifera della nazione che aveva vinto 15 Davis Cup in 18 edizioni (dal 1950 al 1967) iniziò ad esaurirsi. L’ultima appendice gloriosa prima del ricambio generazionale si richiamò ai gesti non più del tutto bianchi di John Newcombe e Tony Roche, eroi (insieme all’ultimo Laver) delle insalatiere vinte nel 1973 – strapazzando a domicilio gli Stati Uniti al Public Auditorium di Cleveland – e nel 1977, battendo l’Italia sull’erba del White City Stadium di Sydney.
Non sono mancati, da allora, altri australiani ai vertici ma è un fatto che negli ultimi 40 anni solo tre di loro hanno vinto tornei dello slam (5 in tutto): Pat Cash, Patrick Rafter e Lleyton Hewitt (foto a sinistra, credits Ray Giubilo). I primi due, nonostante la graduale trasformazione delle superfici di gioco nel circuito, continuarono ad ispirarsi alla tipica filosofia locale basata sulla particolare propensione offensiva dei suoi adepti. Entrambi limitati in carriera da acciacchi vari, si esaltarono in imprese per certi versi memorabili. Cash trionfò a Wimbledon nel 1987, disilludendo per l’ultima volta Ivan Lendl dal poter finalmente accarezzare l’ananas sul coperchio del trofeo londinese. Rafter invece nel Tempio fu per due volte dalla parte sbagliata del destino, sconfitto in finale nell’anno di Ivanisevic “unto del Signore” e in quello dell’ultimo di sette Sampras vittoriosi a Londra. Patrick si dimostrò invece imbattibile sul cemento di Flushing Meadows nel biennio 1997/98, quando colse due titoli consecutivi. Diventato il 17esimo n°1 del ranking ATP il 26 luglio 1999, vi restò per una sola settimana fregiandosi del non invidiabile primato di unico leader ATP a non aver giocato alcun incontro da numero uno.
Infine, Lleyton. Il 5 gennaio 1998, Hewitt era n°550 del mondo quando entrò in tabellone nel torneo della sua città natale (Adelaide) grazie a una wild-card; sette giorni dopo il futuro “Rusty” aveva il trofeo tra le mani e, con i suoi diciassette anni ancora non compiuti, solo Krickstein e Chang erano stati più precoci di lui nella storia del gioco. Con tale premessa, quasi inevitabile che il ragazzo si facesse strada e, nel 2001, dopo aver fatto suo l’ultimo US Open all’ombra delle Twin Towers, dominò la Masters Cup a Shanghai e divenne il più giovane n°1 ATP, primato tuttora imbattuto. Un altro slam (Wimbledon 2002) e il bis al Masters contribuirono a lasciarlo sulla poltrona riservata al re quasi ininterrottamente per un anno e mezzo, ovvero fino al 15 giugno 2003.
Per trovare altri numeri uno occorre indirizzarsi verso il doppio, disciplina a cui l’Australia ha regalato autentici specialisti. Tra questi, i “Woodies” sono senza dubbio i più celebri. Campioni olimpici ad Atlanta 1996, Todd Woodbridge e Mark Woodforde hanno vinto 11 slam insieme (tra cui 5 Wimbledon consecutivi dal 1993 al 1997) e completato il “Woodies Slam” nel 2000, quando finalmente sono riusciti ad imporsi sulla terra di Parigi. Lasciata la coppia, Woodbridge ha continuato a mietere trofei dello slam (16) anche con lo svedese Bjorkman mentre Woodforde (12) aveva iniziato la sua striscia di major in coppia nientemeno che con John McEnroe. Insieme a Leander Paes, i Woodies sono gli unici nell’Era Open ad aver vinto almeno una volta doppio e misto nei quattro slam. Con loro, altri due australiani sono stati al vertice del ranking di doppio: Paul McNamee e John Fitzgerald.
Intestataria del bellissimo trofeo riservato ogni anno alla vincitrice del singolare degli Australian Open, Daphne Akhurst fu la prima grande campionessa australiana. Insegnante di musica e tennista autodidatta, Daphne vinse cinque Australian Championships (dal 1925 al 1930) prima di ritirarsi, nonostante la disperazione dei suoi fans; disperazione che purtroppo raggiunse il suo apice il 9 gennaio 1933, quando la Akhurst lasciò il marito e il figlio di sei mesi a causa delle complicazioni dovute alla gravidanza ectopica.
Per trovare però la prima rappresentante di spessore internazionale, l’Australia dovette attendere fino ai primi anni ’60, quando apparve sulla scena Margaret Smith Court. Depositaria di un tennis potente e aggressivo, la nativa di Albury vinse il primo dei suoi 24 slam in singolare (record) non ancora diciottenne (1960) e chiuse la carriera nel 1977 lasciando ai posteri una serie di primati imbattuti e forse imbattibili. Unica nel tennis ad aver collezionato tre Grand Slam (nel 1963 e 1965 in doppio misto; nel 1970 in singolare), Margaret Court ha vinto più major di qualunque altro (62) e, se è vero che una parte delle sue glorie le ha costruite in casa in un’epoca in cui le avversarie più accreditate non sempre giocavano lo slam australiano, è altrettanto vero che perse due intere stagioni (dal 1966 al 1968) quando era nel pieno del fulgore per dedicarsi al matrimonio e alla famiglia e, successivamente, le ripetute maternità la costrinsero a saltare diversi tornei. Al netto delle sue pubbliche prese di posizione contro l’omosessualità – che potrebbero indurre i responsabili di Tennis Australia a revocarle l’intestazione del terzo campo in ordine di importanza di Melbourne Park – e rimanendo in ambito agonistico, è lecito ritenere Margaret Smith Court una delle dieci giocatrici più forti e complete di ogni tempo.
L’eredità di Margaret venne presa, ironia della sorte, dalla rappresentante di una minoranza: Evonne Goolagong (foto a destra). Discendente da una famiglia Wiradjuri, terza di otto figli, Evonne passava ore a colpire palle contro la parete di un serbatoio d’acqua e ogni sera, prima di addormentarsi, sognava di poter emulare un giorno la protagonista di una storia che aveva letto su una rivista, ovvero giocare nel Centre Court di Wimbledon, un luogo che lei pensava esistesse solo nella fantasia. I Goolagong erano gli unici aborigeni a Barellan e fu Bill Kurtzman a scoprire Evonne e convincere i genitori a frequentare la scuola tennis. Nel 1971 “Sunshine super girl”, non ancora ventenne, vinse gli Internazionali di Francia da debuttante (impresa mai riuscita a nessun’altra tennista) e qualche settimana dopo coronò il sogno di giocare sul centrale di Wimbledon elevandolo all’ennesima potenza e alzando il Venus Rosewater Dish. Con quel sorriso contagioso e il gioco leggiadro ed elegante, Evonne rivinse Wimbledon nel 1980 quando faceva già Cawley di cognome ed era mamma di Kelly Inala. Nel frattempo, dal 19 aprile al 10 maggio del 1976, era stata anche numero 1 del mondo ma per festeggiare dovette attendere nientemeno che 31 anni in quanto solo nel 2007 la WTA, in seguito a un accurato ricalcolo delle classifiche, si accorse che in quel lasso di tempo la Goolagong aveva sorpassato Chris Evert di 0,8 punti.
Tralasciando Sam Stosur, che tratteremo giovedì prossimo nella sezione dedicata al presente, il tennis femminile australiano non ha avuto degne eredi di Court e Goolagong e per trovare l’altra unica numero 1 WTA bisogna scorrere a ritroso la classifica di doppio fino al 21 agosto 2000, quando troviamo Rennae Stubbs, attuale coach di Karolina Pliskova (insieme a Conchita Martinez).
Prima di chiudere questa prima parte, riservata al passato tennistico dell’Australia, occupiamoci di un paio di talenti mancati che avevano ottenuto significativi risultati a livello giovanile. Nel 1980, Debbie Freeman, figlia di un postino di Liverpool, si aggiudicò a sorpresa il titolo juniores a Wimbledon battendo, nel suo cammino, le tre connazionali che facevano parte del Team Australia (Anne Minter, Liz Sayers e Susan Leo). Per 31 anni, Debbie è rimasta l’unica del suo paese ad aver vinto il trofeo in questione (fu emulata da Ashleigh Barty nel 2011) ma il suo passaggio nel tennis dei grandi è stato impalpabile: appena quindici incontri disputati nell’arco di tre anni e tre sole vittorie.
Ancora più illusorio fu l’exploit di Mark Kratzmann. Nel 1984, il nativo di Murgon nel Queensland, sfiorò ciò che Edberg aveva colto appena la stagione precedente: il Grand Slam Juniores. Solo Kent Carlsson, il diavolo, riuscì a fermarlo nella finale del Roland Garros in una stagione in cui Kratzmann vinse gli altri tre major; nel circuito maggiore, però, Mark non andò oltre un best-ranking di n°50, colto il 26 marzo 1990 dopo aver ottenuto i suoi due migliori risultati: semifinale a Filadelfia e quarto turno a Miami. Decisamente troppo poco.
Giovedì prossimo saremo ancora in Australia e parleremo di presente, futuro e della storia dei tornei.
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