(Steve Johnson Sr. e Steve Johnson a Wimbledon nel 2016)
di Salvatore Greco
Quasi in punta di piedi, come se non volesse disturbare nessuno, Steve Johnson in poche settimane ha vinto il suo primo titolo ATP, conquistato la top-30 e il suo migliore risultato Slam in carriera onorando il quarto turno sui nobili campi di Wimbledon contro uno che sull’erba londinese qualche soddisfazione in vita sua se l’è presa, un signore svizzero che risponde al nome di Roger Federer.
Steve Johnson è nato nel 1989, ha 26 anni ed è sul circuito “solo” da cinque, è il classico tennista americano costruito sull’asse servizio-dritto con un servizio sì molto buono, ma non abbastanza da farlo avvicinare a Isner e un dritto sì buono ma non appariscente come quello che ha reso famoso Jack Sock. In un’epoca tennistica come quella attuale in cui si rimprovera – compreso il sottoscritto – la generazione “di mezzo” incapace di opporsi allo strapotere dei Fab Four o quantomeno di porre loro un argine, l’ascesa di Stevie da Orange, California, al valallah dei primi 25 tennisti del globo è un punto a favore di chi predica la calma e guarda con scetticismo gli exploit a volte fin troppo fulminei dei giovanissimi del circuito.
Abbiamo avuto modo di parlarne con un grande sostenitore di quest’idea e dello statunitense, probabilmente il suo più grande sostenitore visto che è di suo padre che parliamo, Steve Johnson senior.
“A 26 anni Stevie ha iniziato appena la sua quinta stagione nel circuito. Credo sarà al top entro altre tre. Un atleta di sesso maschile di solito raggiunge il suo massimo attorno ai 28 anni quindi penso che sia sulla strada giusta per raggiungere grandi risultati nei prossimi anni. Fisicamente e mentalmente è cosciente di quello che gli serve, e ora con il titolo vinto a Nottingham, avrà di certo il giusto spirito per scalare il ranking. Stevie è sempre stato un grande lottatore e penso che continuerà a esserlo a lungo. Ha rappresentato gli Stati Uniti in Coppa Davis e parteciperà ai Giochi Olimpici di Rio. Ed erano tra i suoi sogni di bambino questi. Ne ha ancora molti da raggiungere e sono eccitato all’idea di quali risultati potrà ancora raggiungere”.
Steve Johnon sr ha le idee molto chiare e la lucidità di un uomo che di tennis vissuto ne ha molto nelle braccia e nella testa dal momento che di insegnare dritti e rovesci ai ragazzini ha fatto il suo mestiere. Forse questa peculiarità gli ha permesso e gli permette tuttora di guardare con distacco e prudenza la crescita di un ragazzo che non solo è suo figlio ma del cui talento ha avuto le classiche tracce sin da bambino.
“Stevie ha iniziato a colpire palle e palloni da spiaggia in cortile già quando aveva due anni. Gli piaceva semplicemente colpire ogni palla che fosse da baseball, da golf, persino i dischetti da hockey. Voleva semplicemente stare in giardino a colpire e correre qua e là. Gli piaceva venire con me ai tornei, confrontarsi con i miei allievi e mi chiedeva sempre quando avrebbe potuto partecipare anche lui. Provando qualche scambio con sua madre Michelle, ci dimostrò di essere in grado di giocare un intero set senza l’aiuto di nessuno. Ha giocato il suo primo torneo USTA a cinque anni, vinto la sua prima partita a 6 e il suo primo torneo under-10 a 7. Poco tempo dopo quella vittoria l’ho iscritto a un torneo under-12 e ha vinto pure quello. Iniziai allora a capire che giocava nettamente meglio di molti suoi coetanei e che amava la competizione. Ho chiesto aiuto ai miei altri amici maestri di tennis per allenare Stevie e aiutarlo a migliorare il suo gioco. Non gli importava chi e cosa avesse di fronte, affrontava sempre la sfida. Amava la cosa e lo voleva sempre di più”.
Forse il mondo che ci ha regalato Agassi con il suo Open è oltremodo dominato da quella visione dei rapporti padre-figlio e della ricerca esasperata del campione dai gesti talentuosi di un bambino, di sicuro rispetto a quella panoramica Steve Johnson padre regala una boccata d’aria non da poco e un esempio di saggezza e pazienza che nell’esasperato dibattito su padri padroni e talenti da lanciare il prima possibile andrebbe quasi studiato e citato nei circoli e nelle scuole tennis di mezzo mondo:
“Sono stato in grado di allenare io stesso Stevie finché non è andato al College. Ha giocato per la Southern California University sotto la guida dell’head coach Peter Smith. In quegli anni la squadra vinse quattro volte il titolo e Stevie conquistò l’individuale nelle due ultime stagioni. A 18 anni Stevie semplicemente non era ancora pronto per il circuito. Non molti lo sono anche se ci sono le dovute eccezioni. Il tempo passato alla USC lo ha aiutato a crescere come persona e come tennista. Il circuito è così duro che io credo si debba essere pronti in un modo più complesso che non il semplice saper colpire bene una pallina. Si deve essere mentalmente ed emotivamente forti con un carattere duro per sopravvivere alle buone settimane come a quelle cattive e poter cancellare tutto e andare verso il torneo successivo. Molti buoni giocatori arrivano sul circuito e solo pochi riescono a restarci. Non è la vita piena di comodità che la gente vede in tv”.
Il College come via, come alcova, come rito di iniziazione. In questo le idee di papà Johnson sono totalmente in linea con quelle della USTA che con il nuovo responsabile giovani Martin Blackman non predica altro che la calma nel voler inseguire le gioie del circuito, finora con scarso successo visto che tutti o quasi i golden boys di questa generazione a stelle e strisce scalpitano sin dalla fine dell’esperienza juniores per battere direttamente i campi del professionismo. Quali che siano le loro scelte, tuttavia, Steve Johnson senior è ottimista sullo stato di salute del tennis americano, sulle grandi possibilità offerte ai giovani e sulle loro prospettive:
“Nel nostro caso specifico vivendo nella California del sud per noi è l’ideale per via del clima perfetto e perché è pieno di ragazzi con cui allenarsi. Non abbiamo mai avuto problemi nel trovare dei campi adatti dove svolgere gli allenamenti. Più in generale credo che il tennis americano sia in ascesa. Ai media piace lagnarsi perché al momento non c’è nessun Americano in top-10 o nessuno capace di competere per la vittoria di uno Slam. Quello che vedo io è che ad oggi gli Stati Uniti hanno quattro giocatori in top-30 e un gruppo di giovani che si stanno facendo strada nelle classifiche. Sento che il tennis americano crescerà vistosamente nei prossimi anni”.
“Non ho il diritto di dire a nessuno come comportarsi rispetto all’approccio da avere verso il circuito. Posso solo dare la mia opinione su cosa era giusto per Stevie. Sono, per ovvie ragioni, un grande sostenitore del tennis universitario, ma ogni giocatore è un caso a sé. Quando mi capita di confrontarmi in giro per il Paese mi rendo conto del fatto che la gente vorrebbe una ricetta preconfezionata su come fare ma è semplicemente inverosimile. Ogni tennista è un individuo e deve capire cosa è meglio per lui”.
“Da padre di un giocatore arrivato in top-30 guardando indietro a quello che ha fatto Stevie non cambierei nulla. Ha frequentato regolarmente la scuola e praticato vari sport fino ai suoi 14 anni. A quel punto ha volute fortemente frequentare il College e giocare per un ateneo che avesse delle chance di vincere un titolo NCAA. La USC è stata una grande opportunità e poi era così vicina a casa che la nostra famiglia è stata in qualche modo in grado di esserne parte, una cosa molto importante per noi. Peter Smith, gli altri coach, i maestri e lo staff di supporto alla USC sono stati utilissimi nel renderlo forte e in grado di muoversi nel mondo del tennis professionistico. In conclusione quello che mi sento di consigliare è molto semplice: divertitevi!”.
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