Dopo una giornata storica per il tennis italiano forse è il caso di spendere due parole su Serena Williams. Esercizio facile, visto che tutto il mondo all’infuori dell’Italia non parla dell’impresa di Roberta Vinci ma della clamorosa sconfitta dell’americana, e ne ha ben donde. Al di fuori dei nostri confini la notizia è quella.
Appena finito il match ho sparato a caldo su Facebook un “Sono contentissimo per Robertina, ma non mi dispiace neanche un po’ per la Williams”. Godere della sua sconfitta no, per carità: ci teneva tanto, lo Slam lo meritava e avrà vissuto un dramma personale, tant’è che in conferenza stampa era praticamente in lacrime. E gioire dei drammi non è bello. Il punto, però, è lo spettacolo messo in campo tra la fine del secondo set e l’inizio del terzo.
Non ho mai provato troppa simpatia per i tennisti che eccedono nel “darsi la carica: i ripetuti Vamos/Come on dei Nadal/Murray di turno non mi hanno mai entusiasmato. Ma ho torto io. Il tennis è anche quello e cose del genere contribuiscono al pathos, quindi probabilmente sono io ad avere una visione troppo british della cosa. Non credo di sbagliare, però, nel caso del match di ieri, perché la Williams non si è limitata a darsi la carica. Per descrivere la cosa per bene devo riprendere il paragone usato sui social media, forse poco elegante ma vicino alla realtà: Serena sembrava una vaiassa al mercato del pesce di Pozzuoli mentre litiga per accaparrarsi l’ultimo capitone.
Per i non bilingue: a Napoli è classificata come “vaiassa” (maschile “trappàno”) la persona dal modo di fare particolarmente sguaiato. Ecco, la Williams a un certo punto, per ogni normalissimo quindici, esultava come una tarantolata per 20/30 secondi. Pareva quasi che volesse intimidire l’avversaria. Ovviamente non è così: sia lei che lo splendido pubblico di New York sono stati correttissimi rispettivamente nel riconoscere i meriti e nell’applaudire la nostra giocatrice. Perché la Williams non è antisportiva, solo che a volte ha delle cadute di stile clamorose.
Se un’altra tennista avesse messo in scena gli stessi spettacoli, avrebbe perso due o tre punti per strada. E qui potete anche lapidarmi a colpi di “Poverina, lottava per lo Slam”, non cedo di un millimetro: se mi piace l’atmosfera del match di wrestling guardo il wrestling, non il tennis.
La conferenza stampa ha rafforzato la mia sensazione di indifferenza totale per la favola finita male. Già dopo il match con Venus c’era stata un’esternazione molto antipatica, anche se detta ridendo. Se è vero che la domanda “Perché non sorridi?” non è da consegnare agli annali dell’arguzia giornalistica, non è certo meglio la risposta “Perché vorrei essere a letto e mi fate sempre le stesse domande”.
Esatto, stellì: sempre le stesse.
Ci sarà sempre un giornalista che ti chiederà “Che cosa provi?”, perché i lettori vogliono saperlo sempre e comunque, un po’ come quando chiedono a un allenatore “Come ha visto la sua squadra oggi?”. Ok, magari il match familiare era una noiosa formalità, ma ciò non giustifica la supponenza. Il giornalista è un professionista e ha dei doveri verso i suoi lettori altrimenti sarebbe stata divertente, in caso di Grande Slam, una domanda tipo “Non ti chiedo come ti senti perché non voglio farti sempre la stessa domanda. Come va col tuo gatto?”.
Nella conferenza di ieri, non a caso, la Williams ha esordito specificando che non avrebbe parlato delle sue sensazioni e quando qualcuno ha sollevato l’argomento “Come reagirai a questa sconfitta?” lei ha chiosato “Qualcuno ha domande diverse da questa?”. Tanto per rafforzare il bello stile (che non si è visto).
Una possibile linea di difesa sarebbe “La domanda è stupida: come vuoi che si sentisse dopo aver fallito lo Slam?”. Stavolta, però, l’obiezione è respinta. “Perché non ridi?” è una domanda stupida, “Come ti senti?” al massimo è banale. Se avesse vinto lo Slam non avrebbe forse risposto volentieri? E qualcuno avrebbe forse detto “Ma che domanda stupida: ovvio che è felicissima”? E allora, forse, il punto non è la brillantezza della domanda, quanto il non indispettire la star di turno. Ma a quel punto il giornalista che ci sta a fare?
Registrati la conferenza, stellì.
Chiama Marzullo, fatti una domanda, datti una risposta e vattene a letto.
Se potessero, tre quarti dei calciatori/atleti/pugili dopo una sconfitta manderebbero tutti a quel paese: rispondere a delle domande con i gioielli che ti fumano non è il massimo.
Ma è ben pagato, molto ben pagato. E senza i media a fare da cassa da risonanza (si pensi solo alle tv) il giramento di balle globale sarebbe minore ma anche i conti in banca. E allora forse tutta quella noia è tollerabile, perché nel mondo dello sport fa parte del gioco sempre e comunque. Non credo che Scolari, dopo Brasile-Germania 1-7, abbia provato piacere ad andare di fronte alle telecamere a dire “Mi assumo tutte le responsabilità”. Ecco, con tutta l’umana comprensione per il suo stato psicologico, se sei un professionista che guadagna milionate all’anno non puoi sceglierti le domande.
Il giornalista è come un coniuge: te lo devi tenere nella buona e nella cattiva sorte, altrimenti è troppo comodo. E visto che gli atleti parlano volentieri solo quando vincono, per fare bene il proprio mestiere non basta l’obbligo formale di presentarsi alle conferenze stampa. Bisognerebbe prendere l’atleta, anche privatamente, e dirgli “Le conferenze devi farle bene, a prescindere da cosa sia successo”. Persino un Mourinho, che in sala stampa è la quintessenza dell’arroganza, risponde e va anche oltre (intenzionalmente) mantenendo il silenzio solo sulle informazioni riservate.
Ma se si parla di tennis, purtroppo, aspettarsi qualcosa del genere è pura utopia: se si concede il diritto a un’atleta di boicottare per una decina d’anni un Premier Mandatory, cosa vuoi che sia prendere a pesci in faccia gente che è lì per lavorare e darti visibilità in mezzo mondo.
Perdona il disturbo, stellì.
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