Dopo le Cichis sono arrivati i Fichis (copyright Daniele Azzolini). Bolelli e Fognini hanno scritto un pezzo di storia del tennis azzurro, vinto il primo Slam in doppio maschile dell’era Open, e conquistato il best ranking. Un posto al Masters non è già matematico, ma quasi, perché il regolamento prevede la qualificazione di un massimo di due coppie che abbiano vinto un major purché comprese tra le prime 20 del mondo a fine stagione. L’anno scorso l’ultima coppia s’è qualificata con 3080 punti, Fabio e Simone sono già a 2045. Tuttavia mi resta una domanda: Seppi, che ha battuto Federer ed è arrivato contro Kyrgios a un punto dai quarti di finale, scambierebbe il suo torneo con quello di Bolelli o Fognini?
Fab Four? Anche no L’Australian Open, al di là delle domande sul tennis italiano, ha dato una certezza: parlare di Fab Four è ormai fuorviante. La quarta sconfitta su quattro finali all’Australian Open certifica il distacco di Murray, il gap mentale prima ancora che tecnico che nemmeno i due Slam vinti ha aiutato a ridurre o a colmare. Djokovic l’ha vinto di testa, il suo ottavo Slam in carriera. Murray l’ha persa di testa, incapace di reggere al vantaggio in apertura di terzo set, incapace di controbilanciare il cambio di strategia del Djoker. I primi due set si sono giocati su pochi punti e tanti scambi lunghi, 64 oltre i 9 colpi: Murray ne vince 36. è una partita di controsensi, di contraddizioni, il più elastico dei due soffre sulla distanza. E accorcia, allora, prende campo, toglie tempo e certezze. Solo 14 scambi negli ultimi due set andranno oltre i nove colpi, appena 4 in un ultimo set che diventa un’esibizione e poco altro. E Murray, uno dei giocatori più capaci di comprendere le sottigliezze del gioco ma non sempre in grado di trarre vantaggio dalla complessità, perde perché non reagisce al cambiamento. È il trionfo della flessibilità sulla rigidità.
Corto è bello Quando l’immagine negativa della rigidità esce dai confini del campo e diventa filosofia organizzativa, quando si diffonde un idea di progresso che è rifiuto ostentato della tradizione, piegamento ai gusti supposti di un pubblico obnubilato e ritenuto incapace di attenzione prolungata, il rischio di deragliare si fa concreto. E il concetto di progresso, di evoluzione, che hanno in mente il presidente dell’ATP e dell’ITF sembra piegarsi fin troppo a certe derive che si sono viste nelle esibizioni tanto ricche quanto kitsch in India o nel Word Team Tennis in America. L’idea che negli Slam si possa iniziare a giocare due set su tre anche al maschile o, come ha spiegato Francesco Ricci Bitti, “di accorciare i set a quattro giochi e di eliminare la seconda di servizio” rendono l’immagine dello spirito del nostro tempo sbandato. E insieme portano l’epifania di quel che potrebbe essere, di un futuro che arriva e che chissà se ha fiato. Di uno sport per brevità chiamato (ancora) tennis. O forse no.
Sulle spalle dei giganti Futuro e moderno. Il valore della tradizione. L’importanza dei maestri, dei modelli, dei limiti al cambiamento. Il progresso come apprendimento. Salire sulle spalle dei giganti non solo per abbatterli, ma anche per farsi accompagnare lungo la strada. Concetti che a volte il tennis ha perso e perde di vista. Concetti che a volte i giocatori hanno perso e perdono di vista. Ma due vecchi compagni di viaggio saranno sempre due marinai, anche se scelgono imbarchi diversi. E i grandi campioni tornano a illuminare la via. I super-coach hanno segnato un cambio di passo, un passaggio di tempo. Se n’è accorto perfino il più ribelle dei giovani, che ha scherzato col fuoco e con le donne, con l’alcool e i motori, uno che i pugni presi (non solo metaforici) non li ha ancora resi, furioso e veloce soprattutto quando perde (finire una partita in 29′ è impresa difficilmente imitabile). Bernard Tomic ha scelto Tony Roche come nuovo coach. Nel 2013 papà Ivica aveva detto no. Ora i tempi sono diversi. Roche lo aiuterà part-time, e in più ci saranno i consigli di Hewitt, un altro che ha superato certi angoli del passato, quella famosa sessione di allenamento offerta a Tomic e rifiutata per volontà di papà. Spigolosità già diventate curve nella memoria di un campione che lascerà il tennis al prossimo Australian Open. Senza praticamente punti da difendere fino a Wimbledon, la top-20 è tutt’altro che irrealizzabile.
Under-20 young guns È stata comunque una settimana per giovani rivelazioni. Oltre a Kyle Edmund, che ha vinto a Hong Kong ed è entrato in top-150 di cui ha scritto Fabio Valente, anche Jared Donaldson ha conquistato il suo primo titolo Challenger in carriera. Una vittoria che proietta Donaldson avanti di 72 posizioni in classifica, per la prima volta in top-200. Il sesto teenager a vincere un torneo da luglio ha bissato anche in doppio con Stefan Kozlov. Torneo di doppio però rovinato da Wayne Odesnik e Michael Shabaz, battuti da Dimitas Kutrovsky e Dennis Novikov. Odesnik e Shabaz hanno dato l’impressione di aver perso apposta nel super-tiebreak, ma il livello di impegno è stato quantomeno sospetto da parte di tutti. A fine partita, infatti, l’arbitro non ha voluto stringere la mano a nessuno dei quattro. Un gesto che vale più di molti commenti.
Chiudiamo però con una nota positiva. Grega Zemlja, precipitato al numero 873 del mondo, è tornato a giocare per la prima volta dalle qualificazioni di Wimbledon 2014. Ha perso nelle quali a Zagabria da Aljaz Bedene. Ma esserci è già un successo.
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