di Luca Brancher
Questa è la storia di una perdente, di una giocatrice che mai avrebbe potuto vincere un torneo importante, e fino a qualche mese fa anche una semplice partita di una certa caratura, perché in lei, per la gloria personale, non c’era spazio. Questa è la storia di una ragazza nata a Brno in un freddo giorno di febbraio di 28 anni fa, Lucie Šafářová, tennista che ha superato un luogo comune, sul campo da gioco, per fare diventare storia l’esatto opposto: si può vincere, nello sport, anche se il tuo destino pare segnato. Lucie, la ragazza che, se contava, non poteva trionfare, si è regalata un sogno, di quelli che lo sport riesce a confezionare in maniera molto più convincente della vita, dove non è facile trovare un giudice imparziale, come il campo, per definire meritevoli e non. Lei il rettangolo di gioco lo ha sempre affrontato con coraggio, da quella prima volta nell’ottobre del 2001, a Plzen, quando esordì a soli quattordici anni incrociando la racchetta con quella più esperta di Libuse Prusova: il tie-break, del primo set, perso a 0, poteva essere visto come l’anticamera di un elemento fondamentale della futura carriera della giovane di Brno. Difficilmente ha sfigurato, con le grandissime, ma altrettanto improbabile era vederla vincere quando l’occasione contava e il confronto si restringeva su 1-2 punti fondamentali. Anzi, il più delle volte assistevamo a dei crolli emotivi, ben idealizzati da uno 0-7 in un tie-break.
Se la morale sportiva ti vuole vincitore, ti vuole hungry, più che foolish, citando la massima di Steve Jobs, a comandare il modo di rapportarsi allo sport di Lucie ve ne è un’altra, meno appagante, ma di certo più idealizzante, di essere una beautiful loser, comparabile a quelle persone che, pur di non rinnegare quello che sono, decidono di seguire la propria indole ed il proprio modo di essere a costo di correre il rischio di poter fallire. Fallire su tutti i fronti, ma non per questo poter essere considerati un fallimento, poiché non è possibile essere assimilati ad un tale concetto quando si dà tutto quello che si ha. Il destino spesso non ha assecondato il suo modo di essere, tanto che fino al 2011 più che come Lucie Šafářová era nota come Lucie Fidanzata di Berdych, e l’unico modo per scrollarsi di dosso quest’etichetta non è stato frutto di qualche risultato eclatante, bensì del fatto che il bel Tomas, al suo angolo, ha deciso dovesse sedersi un’avvenente modella loro connazionale. E se nelle ore in cui una solida storia d’amore di quasi un decennio va sgretolandosi, una collega, più giovane e più forte, come Petra Kvitova, mancina come lei, ma più completa di lei, tanto che al suo avvento era stata celebrata non solo, in maniera assolutamente sproporzionata, come la nuova Navratilova, ma anche come Šafářová 2.0, vince il primo major proprio a Wimbledon, la situazione non esercita un fascino invidiabile, ma lei ha guardato oltre ed ha continuato a fare quello che meglio sa fare: giocare a tennis. Giocò un grande set, in Canada, in quella maledetta estate del 2011, proprio contro Serena Williams, poi perse in tre parziali, come accaduto Parigi. A fine anno giungerà il primo successo di rilievo della sua carriera, a quasi 25 anni, una Fed Cup in cui recita un ruolo ancora una volta non esattamente idoneo a chi vuole competere in uno sport singolo: la Repubblica Ceca sbanca sì l’Olympic Stadium di Mosca, ma la Russia resta aggrappata fino in fondo, fino al doppio decisivo, al sogno dell’alloro, e lo fa vincendo i due singolari proprio contro la Šafářová , che chiude come campionessa il weekend, ma senza essersi aggiudicata alcun set, a differenza delle altre sue compagne, che almeno un punto se lo sono guadagnate. D’accordo la causa, il lavoro di squadra, il gruppo, la bandiera, ma sono situazioni che alla lunga potrebbero pesare.
Situazione piuttosto ironic, per citare Alanis Morissette, perdere tutto per poi ritrovarsi vincitrice, che delinea in maniera ancora più curiosa il suo profilo. Per quanto la maturazione, conseguente alla rottura con Berdych, abbia aiutato Šafářová ad essere meno dilapidatrice sul campo da gioco, permaneva quell’insostenibile leggerezza nell’affrontare i momenti che contavano: qualche bella vittoria giungeva, perché la Fed Cup 2012, differentemente da quella di dodici mesi prima, era opera principalmente sua, ma le primavere passavano ed oramai il giudizio su di lei era stato pronunciato, come se il non aver raggiunto determinate tappe ad età prestabilite non permetta di ravvedersi nei confronti di qualcuno. Se a 25 anni non sei stata capace di classificarti mai nella top-10, cosa vuoi fare ormai? Sbagliato, lei ha continuato, indomita a crederci, in singolo, in doppio, a squadre, trarre soddisfazioni da quello che sa fare meglio nella vita. E come se lo sa fare meglio: certamente illudersi è sbagliato e ricordare con insistenza che se il primo venerdì dell’Australian Open del 2014 quella palla contro Li Na non fosse uscita di pochi centimetri, come testimoniò Hawk Eye, la cinese non avrebbe vinto il suo secondo Slam rischia di associare il tuo profilo a quello di un avvinazzato al pub che prova a far credere agli altri presenti di essere stato assieme alla più bella della città. Col rischio minore che gli altri non ti credano, ma in maniera ancora maggiore che sia tu a non crederlo possibile e che ormai ti senta intrappolato in questa sorta di gabbia dorata di fantastiche possibilità e scarsissima resa. No, quell’Australian Open lo avrebbe potuto vincere la Cibulkova o forse la Bouchard, ma non Lucie, mai, perché lei non può vincere. Ma la cinese ha poi concesso in media 3 giochi a set da quella partita con lei, come fai a dire che… No Lucie non può vincere uno Slam, neanche giocarci una finale, te lo immagini?
In barba a tutto questo, lei ha continuato a giocare, le stagioni si sono succedute, i titoli di squadra aumentavano “Vabbè, la Kvitova due punti te li porta sempre, la Repubblica Ceca vince per quello.” E lei è migliorata, anche tecnicamente: il rovescio è sempre più solido e non traballante, la battuta, con la quale non ha mai sfruttato appieno il vantaggio di essere mancina, tanto quanto altre, ad esempio la stessa Petra, risulta più incisiva, il dritto meno “ballerino” nei momenti che contano ed in grado di cambiare con sempre più sicurezza gli scambi da diagonale in lungolinea e viceversa. Si concretizza così una semifinale a Wimbledon, ben giocata e persa, ma perché l’avversaria si è dimostrata più forte: su questo slancio si celebra anche il titolo nel torneo più importante della carriera, a Doha, lo scorso febbraio. E poi questo Roland Garros. Il Roland Garros in cui Šafářová non ha saputo più nascondersi dietro la figura della beautiful loser, dimostrando che per passare allo stato di winner il confine è molto più labile di quanto non si creda.
Certo, inutile fingere: quel vantaggio di 2-0 nel terzo parziale, quelle sei risposte sbagliate in fila da Serena Williams, hanno pure lasciato intendere qualcosa di differente, che il finale potesse mutare da quanto era scritto. E se non è accaduto, potrà dispiacere, ma non deludere: perché continuando per la sua strada Lucie ha giocato un match pazzesco contro quella che a pieno titolo può essere definita la più giocatrice più dominante della storia di questo sport. Non si è impaurita, non ha subito la tensione, ha recuperato un incontro oramai perso esprimendo un livello che forse nemmeno lei sapeva di aver conseguito. A riprova che giudizi trancianti non sono propri dello sport, non sono propri della vita, perché tutto va vissuto, e poi forse vanno emesse le sentenze, se proprio necessarie. Gioca Lucie, gioca, che oramai sei una bellissima perdente vincente: e chiunque si interroghi su quale sia lo stato di salute del tennis femminile se una “comprimaria” come la ceca raggiunge questi risultati, do una secca risposta: ottimo, perché piaccia o meno, il suo tennis è ormai di altissima fattura.
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