di Claudio Maglieri
C’era una volta l’Happy Slam: estate, sole, pubblico variegato e colorato, belle ragazze e bei ragazzi sugli spalti (rigorosamente abbronzati), giocatori freschi e rilassati (accoppiata vincente che spesso genera un gran bel tennis). Un momento, l’Australian Open è ancora tutto questo e non è un caso che diversi atleti, addetti ai lavori ed appassionati lo considerino ancora oggi il Major migliore: eppure, almeno per chi vi scrive, è mancato qualcosa nelle ultime edizioni e visto l’andazzo attuale (e di questo periodo storico in generale) quel “qualcosa” mancherà ancora a lungo.
Dov’è finito l’effetto sorpresa che spesso ha caratterizzato il torneo? Chi ha portato via da Melbourne il bello dell’imprevedibilità? Era troppo bello alzarsi la mattina, controllare i risultati della notte e strabuzzare gli occhi davanti a un punteggio assolutamente inatteso: è successo lo scorso anno con Seppi-Federer, ma è stato l’unico raggio di luce degli ultimi anni. E non provate a tirare fuori Fernando Verdasco che batte Rafael Nadal al primo turno, perché il Rafa attuale è talmente emaciato e malconcio che non va nemmeno considerato un lontano parente di quel Nadal.
Dicevamo, l’effetto sorpresa. L’Australian Open, a livello Atp, è sempre stato il torneo delle rivelazioni, il torneo dove l’underdog andava a prendersi la luce dei riflettori, il torneo dove il giocatore quotato veniva sculacciato nei primi turni: a gennaio non tutti i big erano già in condizione (altri tempi) per cui capitavano spesso i ribaltoni. Senza andare troppo indietro (perché di Petr Korda che batte Marcelo Rios nella finale del 1998 se ne è parlato troppo, soprattutto per motivi “medici”), partiamo da Arnaud Clement in finale nel 2001, ultima edizione in cui le teste di serie erano 16 e non 32: oggi, se non ti chiami Djokovic, Federer o Murray è quasi impossibile una roba del genere.
Nelle ultime cinque edizioni, infatti, di sorprese ce ne sono state ben poche: i quattro semifinalisti del 2011 erano appunto Novak Djokovic, Andy Murray, Roger Federer e David Ferrer (il quale prese il posto di Nadal), stessa musica nel 2013 mentre nel 2012 Rafa tornò a ricomporre quello che veniva definito “gruppo dei fab four”. Ci ha salvati Stanislas Wawrinka nel 2014, il suo trionfo e le sue vittorie contro Djokovic e Nadal ci hanno ricordato quanto il tennis possa essere meraviglioso.
Sembra passato un secolo dal 2002, quando le principali teste di serie caddero subito come i birilli di un bowling: Andre Agassi (3) diede forfait prima di iniziare, a tabellone già compilato, Lleyton Hewitt (1) si presentò in campo malato e perse al primo turno contro Alberto Martin, stesso destino per Guga Kuerten (2) mentre Evgeny Kafelnikov (4) e Sebastien Grosjean (5) aspettarono giusto un paio di giorni e poi scesero dal carrozzone al secondo round. Nessuna intenzione di spendere troppe righe sulla vittoria finale di Thomas Johansson: quella non fu una sorpresa, bensì un suicidio sportivo di Marat Safin (combinato ad una serie di fattori a dir poco irripetibili).
Nessuno vuole una riedizione del 2002 ogni anno (oddio, in effetti sarebbe meraviglioso), ma così non ci siamo. A quanti di voi piace andare il cinema per vedere Pieraccioni oppure le pellicole di Parenti o dei Vanzina? Non al sottoscritto, perché un film dove il finale e gli ingredienti sono sempre gli stessi (pur cambiando la trama) genera la stessa emozione di seguire una ruspa che effettua lavori in strada (poi un giorno capiremo tutti cosa trovino di così interessante certi anziani). Ad ogni modo, gli Australian Open si sono uniformati al regime attuale: quest’anno vincerà uno tra Djokovic, Federer e Murray, i vari Kei Nishikori, Tomas Berdych, Gael Monfils, Milos Raonic e David Ferrer hanno le stesse speranze che ha l’autore di questo pezzo di rimorchiare Diletta Leotta (non la conoscete? Male male!). Tradotto: sempre gli stessi nomi, sempre le stesse facce.
2003: Rainer Schuettler, testa di serie numero 31, raggiunse la finale complice un Andy Roddick cotto in semi, dopo la favolosa battaglia nei quarti con Younes El Aynaoui. Soprattutto, Wayne Ferreira (fuori dal seeding) arrivò fino in semifinale. 2004: tutti ricordano la grande cavalcata di Safin (reduce da un lungo infortunio al polso) e la sua sconfitta contro Federer in finale, anche se è sempre bello rimembrare i quarti di Hicham Arazi (quanto ci vorrebbe uno come lui nel tennis attuale). 2006, 2007, 2008: le favole di Marcos Baghdatis, Fernando Gonzalez e Jo-Wilfried Tsonga, ai quali mancò tuttavia la ciliegina sulla torta (ma quante emozioni, quante vittorie epiche). 2009, il Verdasco furioso e la guerra con Nadal in semifinale.
Al giorno d’oggi, per concludere, è raro che un giocatore non incluso nelle teste di serie piazzi il colpaccio nei primi turni: a Melbourne capitava non di rado, mentre oggi la situazione è diversa. Preparazione sempre più dettagliata, programmazione curata nei minimi particolari, allenamenti specifici per farsi trovare pronti in ogni occasione: i big del circuito sono sempre più forti, probabilmente l’unico modo per ricreare l’incertezza sarebbe quello di tornare alle 16 teste di serie. Impossibile: per cui, in sintesi, che peccato.
PS – Noterete che in questo breve resoconto manca il 2005. Perché quell’edizione dell’Open d’Australia non merita di essere collocata in un semplice bigino riassuntivo, quello fu lo Slam più bello e avvincente degli ultimi quindici anni. Quante partite stupende, a cominciare dalla semifinale Federer-Safin: in quelle due settimane il mondo Atp raggiunse la perfezione. Nostalgia canaglia.
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