Non è che nella vita ci si può sempre mantenere lucidi, anche perché in tal caso non si potrebbe parlare effettivamente di vita. Però mi domando cosa mi abbia spinto, verso le due di questa notte – e dopo circa quattro ore di sonno – folgorato da un livescore che faceva registrare l’ennesimo successo in grande stile della stellina amburghese, ad appropinquarmi al computer.
“Solo per vedere gli ultimi punti” dell’incontro Witthoeft-McHale. Non avrei fatto in tempo, ma la promessa di sostare nei pressi dall’apparecchio elettronico per un breve lasso temporale viene immediatamente disattesa, quando un amico mi ricorda che anche Rybarikova e Peng stanno vorticosamente avvicinandosi alla conclusione del proprio match: erano quindi maturi i tempi per l’incontro tra Océance Dodin e Karolina Pliskova. Ora, non sono il tipo capace di regalare gioie con le cronache degli incontri, il mio grigio animo da incasellatore di excel tenderebbe a raccontare in maniera schematica ogni situazione di punteggio, dando poca fluidità al racconto, per cui eviterei, ma quello che mi ha colpito, dell’incontro della notte, desidero comunque raccontarvelo, nonostante il sonno mi voglia insistentemente rapire. Ma io resisterò, per voi e per la Dodin, più per la Dodin che per voi ad essere onesti.
Immaginate di avere 18 anni, qualche mese e di giocare davanti ad un pubblico che nella vostra vita non avete mai fronteggiato, mai. E siete dall’altra parte del mondo. Di fronte avete una giocatrice in discretissima forma, dai colpi potenti e dalla crescita alquanto innegabile. E’ ceca e gioca bene, pare ridondante ripeterlo, non si può essere ceca e giocare male, però vale la pena sottolinearlo. Avete disputato un gran bel match, ad un certo punto, nel primo set, dopo essere andati sotto, avete trovato l’abbrivio giusto per trovarvi 4-3 e 0-30 sul servizio avversario. Spiragli di luce, barlumi di grandezza. Brusco risveglio. 5-7. Nel secondo set è una costante rincorsa: 0-2, 2-2, 2-4, 4-4. State servendo per mettere la testa finalmente avanti, quando tutto comincia a girare in maniera storta: vi ritrovate 0-40, ed accade qualcosa che avrebbe potuto distruggere la vostra autostima, oltre che farvi vergognare, se avete 18 anni, qualche mese e non avete mai giocato davanti ad un pubblico così numeroso.
Nel tentativo di esasperare il taglio in battuta, con la palla che cade regolarmente nel rettangolo di gioco, la racchetta vi sfugge verso la rete, tra lo stupore generale, mentre rimanete inermi davanti ad un tale triste spettacolo. L’avversaria sigla il punto che le permette di staccarsi nuovamente, e rientrando verso la panchina vi rivolgete verso il vostro angolo mostrando il pollice alto, come a dire “Sono stata proprio brava.” Lì verrebbe naturale mollare, lasciare strada alla propria avversaria, che era favorita e avete comunque impegnato, ed è forse qui che si crea lo iato tra una giocatrice normale e la Dodin, perché nei tre giochi successivi, in barba all’inerzia e allo status quo, è riuscita a trovare la forza per riappianare la situazione set. Con un bel c’mon finale, come dopo il break decisivo alla Riske, un marchio di fabbrica, perché quello che può essere visto come uno svantaggio, ovvero la totale incapacità di mantenere una traccia costante all’interno di una partita, può clamorosamente divenire un pregio, quando l’interruttore pare fisso sull’off ed improvvisamente si accende.
Non è di sola potenza che si parla, quando si narra di lei, anche se verrebbe naturale scriverne. Nel primo set, il break che l’ha riportata sul 3-3, è stato costruito con una serie di colpi profondi ed una palla corta di rovescio in controtempo – certo, a due mani, ma ora troppo non vogliamo chiedere. A rete palesa insicurezza, tende a scappare indietro dopo ogni colpo, il servizio, per quanto celi difficoltà all’aperto per il già citato lancio, ha saputo reggere l’ansia da grande palcoscenico. Il rovescio è il colpo con cui gioca in sicurezza, sprigionando maggiore potenza, mentre il dritto è una sorta di terno al lotto: possono uscire capolavori, come palle fuori di metri, complice una dinamica non perfetta. Raramente, però, ho visto una giocatrice disinnescare con tanta sicumera il servizio della Pliskova destra, in maniera particolare quando aveva il tempo, da sinistra, di spostarsi sul rovescio per lasciare andare il lungolinea. Raramente ho visto negli occhi della ceca tanta rassegnazione, unita al fatto che il servizio non era in nessun modo in giornata negativa, anzi, testimone ne è il fatto che ad inizio secondo set, nel tentativo di un allungo, ha fatto registrare un perfect game, non il primo in carriera.
Ribadisco, al termine di un incontro perso, perché poi alla fine Océane ha perduto, sarebbe facile recriminare per quel gioco lasciato per strada con troppi errori, oppure per quel colpo semplice sbagliato: è il modo di fare delle tenniste costruite come lei. Il break subito al primo gioco del terzo set, con ben tre palle game avute a disposizione farebbe rammaricare, così come il nastro favorevole alla ceca – il primo dell’incontro, a voler essere completamente onesti – nel secondo punto del settimo gioco, quando la francese per l’ennesima volta dell’incontro aveva impattato, sul 3-3, ma non sarebbe ragionevole. Restano gli scampoli di fine incontro a testimoniare chi delle due abbia fatto la partita: dopo aver perso 11 punti di fila, che la costringevano a fronteggiare ben tre palle match, la francese ritornava ad essere dominante sfornando aces e piazzando un passante in corsa per il 4-5; l’idea di un nuovo riaggancio si palesava nella testa degli astanti, e forse anche in quella di una ceca sempre più titubante, ormai convinta di averla scampata. Però, al primo punto del game successivo, la risposta di dritto della Dodin finiva fuori di almeno cinque metri, ad essere buoni. Ed allora spazio ai titoli di coda.
E non alle recriminazioni. Non a 18 anni, qualche mese, quando hai giocato per la prima volta in uno stadio di un certo tipo e hai messo in seria difficoltà una giocatrice del calibro di Karolina Pliskova. Anche se, ci racconta l’amico Giulio Gasparin che è a Melbourne per Ubitennis, Océane non l’ha presa bene: venti minuti dopo il match era ancora in lacrime nei corridoi, sull’orlo di una crisi di panico.Basterebbe un pelo di lucidità in più, in certe occasioni, che certamente arriverà, con l’esperienza; ma, d’altronde, non si può mica essere sempre lucidi nella vita, no? Altrimenti che vita sarebbe…
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