di Sergio Pastena
Uno solo dei Fab Four promosso. Questo è il verdetto di Cincinnati, dove Roger Federer è tornato ad aggiudicarsi un titolo che mancava da sette mesi, cioè dagli Australian Open. Gli altri tre sono caduti nei quarti di finale, vittime di atleti in ripresa e con una certa freschezza atletica. Per loro tuttavia non è il caso di parlare di bocciatura, considerando che fare bene in due Masters 1000 così ravvicinati è davvero difficile: sono rimandati a settembre, alla fine degli Us Open, quando si potranno tirare le somme riguardo la stagione sul cemento americano.
Anche per lo svizzero parrebbe generosa una promozione a pieni voti e non per colpa sua: gioco e condizione fisica sono in crescendo, sono scomparsi i “black out” della Rogers Cup, per strada ha lasciato un solo set, in finale, ed ha difeso la principale cambiale che gli era rimasta da qui alla fine dell’anno. Tuttavia, come dicono a volte i professori a scuola, la lezione era facile e un 8 sarebbe esagerato: meglio un 7 pieno, anche perché l’impegno c’è stato tutto. Lezione facile perché? Basta leggere i nomi dei suoi avversari: Istomin, Kohlschreiber, Davydenko, Baghdatis, Fish. Atleti rispettabilissimi, ma per un Masters 1000 è un tabellone benedetto. A ciò aggiungiamo il fatto che Federer è rimasto in campo 18 minuti nei primi due turni (ritiri di Istomin e Kohlschreiber), e capiamo come Roger abbia giocato solo dai quarti in poi, peraltro evitando un pericoloso scontro con Nadal in semifinale (anche se magari non sarebbe stato un male per lui). Fortuna, certo, ma non solo: Fed-Ex sembra aver tratto rinnovata convinzione dal torneo di Toronto, in particolare dalla vittoria contro Berdych: aver sconfitto uno degli atleti con cui aveva perso dopo averli battuti per anni, infatti, gli ha fatto bene, se è vero che Federer ha eliminato senza problemi prima Davydenko (in ripresa, ma agli Us Open non dovrebbe essere ancora al meglio) e poi un Baghdatis “on fire” che aveva appena fatto fuori tale Nadal.
Ecco, cambiamo discorso e andiamo a parlare degli altri top players e dei potenziali outsider in vista di Flushing Meadows. Nadal sembra stanco e rispetto alla scorsa settimana è calato ancora: perdere un set da Benneteau e dovergli annullare un match point non è da lui. Contro Baghdatis ci ha messo il carattere, ma quello da solo non basta sempre. Murray non ha smarrito gioco e voglia di lottare (anche se con Gulbis se l’è vista brutta) ma ha incontrato un Fish in stato di grazia (ne parleremo poi) e stavolta si è dovuto accontentare dei quarti. Djokovic è sempre lui, costante e incompiuto: elimina Troicki, supera Nalbandian risolvendo una situazione delicata nel secondo set e poi sbatte contro Roddick. Un film già visto: il serbo ci ha perso cinque volte su sette. A proposito di big e Us Open, in settimana è arrivata la conferma dell’assenza di Del Potro, vincitore l’anno scorso.
Gli altri? Beh, diciamo che ci sono tre tennisti che i big non vorrebbero incrociare al terzo turno a New York. Il primo è Mardy Fish: che fosse in ripresa si era capito, ma che arrivasse in finale pochi se l’aspettavano. L’americano ha mostrato non solo di essere in fiducia, ma anche di avere una condizione fisica straripante (complice una dieta drastica). E’ la terza finale che perde in un Masters 1000, ma ha poco da rimproverarsi: ha portato Federer al terzo dopo un torneo da incorniciare. Il secondo è Gulbis: prima ha eliminato un buon Melzer, poi ha buttato via il match contro Murray, esprimendo però a tratti un livello di gioco che non dovrebbe lasciare tranquillo nessuno. Infine Nalbandian, che negli Stati Uniti sarà testa di serie e, pur avendo rallentato, con un po’ di freddezza in più poteva spaventare Djokovic. Dovrebbe essere invece tra le prime 16 teste di serie Baghdatis, che conferma il suo grande stato di forma: prima fa fuori Cilic, Bellucci e Berdych e poi elimina Nadal, fermandosi solo contro Federer.
Parentesi a parte per Roddick: semifinali e rientro nella Top Ten, una settimana molto positiva. A-Rod, però, poteva fare di più (anche se è stanco e si vede), perché contro Fish si è suicidato. Non parliamo del servizio perso sul 6-4 5-3, ma di come ha gestito il tie-break e la prima parte del terzo set, buttandosi sempre a rete sui punti importanti. Andy l’anno scorso aveva stupito a Wimbledon sciorinando discrete volée, ma si trattava di variazioni occasionali, con l’avversario che spesso era sorpreso e non riusciva a imbastire un passante decente. Contro Fish, invece, Roddick a rete ci è andato di continuo, e i frutti si sono visti: approcci in back orribili, troppo alti e poco profondi, sui quali più che un tennista pareva un condannato alla fucilazione che si butta contro i proiettili in un impeto di masochismo. Le poche volte che ha attaccato bene, poi, è emersa la differenza tra lui e un volleatore: in un paio di casi Fish gli ha mandato indietro (dai teloni) “pappette” inconsistenti che avevano l’unico pregio di atterrare basse vicino alla rete, roba che un Llodra avrebbe chiuso con due stop volley (per lui) elementari. Roddick, però, non ha tocco e la palla gli è rimasta attaccata alla racchetta in maniera tragicomica. Per inciso, erano punti decisivi.
E ora parliamo del torneo di questa settimana, il Pilot Pen di New Haven, ultimo evento Atp prima dello slam americano. Non ci saranno i big, la prima testa di serie sarà Baghdatis. Ci saranno Seppi e Starace (per loro Nieminen e Gabashvili al primo turno) dopo due settimane nelle quali l’unico italiano presente nei tornei ATP era stato Fognini. A proposito di Fabio, non è confortante il fatto che nelle qualificazioni sia andato a perdere contro il sudafricano Anderson. Per inciso, non parliamo di Kevin Anderson (lì ci poteva anche stare), ma di Andrew Anderson, 27enne che da sempre gioca i Futures e in carriera vanta una sola partita a livello Atp. Una debacle.
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