Riconosciuta ufficialmente come città già nel 1742, poggiata sui colli Union Hill, Church Hill, Council Hill, Shockoe Hill, Gambles Hill, Navy Hill e Oregon Hill, sede del Campidoglio più antico di tutti gli Stati Uniti, luogo in cui il mercante John Allan trasmise il suo cognome ad un orfano che si chiamava Edgar Poe, luogo natale dell’attore Warren Beatty. Richmond, Virginia ha avuto sempre il suo posto di rilievo durante la storia americana. Già capitale degli Stati Confederati d’America durante la sanguinosa Guerra di secessione, con il passare degli anni, grazie soprattutto alla produzione di tabacco, la città aveva continuato a fiorire.
Giunti agli anni ’40 del XX secolo, in pochi cittadini avrebbero affermato che si viveva male a Richmond. Il tabacco ed una forte spinta industriale, avvenuta già ad inizio ‘900, avevano portato ricchezza e benessere alla città. Si viveva bene a Richmond. Almeno se il colore della tua pelle era quello giusto.
Pur essendo ormai abbondantemente alle spalle gli anni dello schiavismo, la numerosa comunità nera della città (per la maggior parte discendente diretta di schiavi liberati che lavoravano nelle piantagioni) si ritrovava di fronte a situazioni quasi paradossali. Se nel 1903 Maggie L. Walker era diventata la prima donna e la prima persona di colore in assoluto a divenire presidente di una banca, più di quarant’anni dopo era ancora normale trovare cartelli con su scritto “For colored only” e posti dell’autobus suddivisi in base al colore della pelle.
Un ragazzino nato e cresciuto a Richmond, che aveva sperimentato la discriminazione sulla sua pelle, orfano di madre a soli sette anni, troppo esile per giocare football, aveva trovato nella racchetta da tennis un’amica in grado di cambiargli la vita. Quel ragazzino si chiamava Arthur Ashe. Oltre ad aver vinto tornei e coppe e ad aver mostrato il suo talento in campo, grazie a quella racchetta è riuscito a diventare non soltanto un atleta ricco e stimato, ma molto di più. La sua classe ed il suo impegno per i diritti civili ed umani ne hanno fatto un vero e proprio esempio da imitare, non soltanto in ambito sportivo.
Giorni di grazia, la sua autobiografia recentemente pubblicata da Add Editore con traduzione di Silvia Mercurio, ha impiegato buona parte degli ultimi anni di vita del tennista americano. Il libro miratamente comincia con l’evento che porterà Arthur alla morte: nel 1988, durante una trasfusione di sangue subita in un’operazione al cuore, scopre di aver contratto il virus HIV. Oltre a due infarti ed infiniti giorni trascorsi in sale operatorie anche questo. E quello che per molti poteva significare l’inizio della fine, per Arthur Ashe fu l’occasione ideale per mostrare, questa volta più che mai, il suo voler lottare e non arrendersi alle avversità della vita. “Vi prego di non considerarmi una vittima. Io sono un messaggero”, queste le parole che lo accompagneranno nella sua lunga e debilitante battaglia contro l’AIDS. Sfruttando quindi la sua volontà che lo portò a difendere i malati di quella che fu definita “ la nuova peste del secolo”, Ashe può mettere nero su bianco tutto ciò per cui ha lottato e cercato di far cambiare le cose nel corso degli anni. Partendo dalla battaglia per cercare di estirpare il razzismo imperante della Virginia del Sud Bianco fino alla protesta per i diritti de rifugiati haitiani nel ’92. Passando per l’importante impegno contro l’apartheid in Sudafrica ed il suo incontro con Nelson Mandela.
Chi si aspetta di trovare invece un’esaustiva analisi sulla sua carriera tennistica, magari rivivendo momenti come la finale agli US Open del 1968 oppure la leggendaria vittoria a Wimbledon nel 1975, resterà un tantino deluso. Ashe ricorda di come nel mondo del tennis, definito quasi per antonomasia “elitario”, essere nero e voler diventare tennista nella vita a quell’epoca non erano affermazioni che potevano essere contenute nella stessa frase. Era incredulo quando gli veniva proibito l’accesso ad alcuni campi e tornei poiché “riservati soltanto ai bianchi”. Quando poi Walther Johnson, suo coach, gli comunica senza mezze misure che diventare tennista è molto più difficile per un nero e che, nei tornei giovanili dove ci si arbitra da soli, era meglio chiamare a favore dell’avversario anche una palla fuori di dieci centimetri “così non passerai per il solito negro che ruba i punti.” Arthur decide con tutto sé stesso di voler porre fine a ciò. Grazie soprattutto al suo talento cristallino. Primo nero a giocare in un campionato juniores, primo nero ad essere convocato e a vincere la Coppa Davis, primo nero a vincere Australian Open, US Open e Wimbledon. Senza dimenticare il suo ruolo fondamentale per la creazione dell’Association of Tennis Professionals.
Degno di nota il capitolo in cui descrive la sua esperienza da capitano del team USA di Coppa Davis. Il suo relazionarsi con due dei giocatori più forti ed allo stesso tempo difficili caratterialmente come John McEnroe e Jimmy Connors è ampiamente descritto. Le pagine restano impresse al lettore per il rapporto con McEnroe, Davisman per eccellenza contrapposto in tutto e per tutto, soprattutto in campo, alla pacatezza di Ashe.
Grazie ad uno stile diretto e a tratti struggente, permeato dalla grande conoscenza letteraria di Ashe, Giorni di grazia è un libro che affascina per la consapevolezza ed il modo sincero in cui è scritto. Tra citazioni di John Dryden, Henry James ed Herman Hesse (lo scrittore preferito dal tennista) rappresenta una delle autobiografie tennistiche più “vere” mai concepite. Capace di usare la penna allo stesso modo della racchetta Ashe conclude le proprie memorie con una toccante lettera-testamento spirituale a sua figlia Camera. Appena una settimana dopo, stroncato dalla malattia, si spegne a soli cinquant’anni. “L’autentico eroismo è sicuramente sobrio, privo di drammi. Non è il bisogno di superare gli altri a qualunque costo, ma il bisogno di servire gli altri a qualunque costo”. Ciò che è sicuro è che Arthur Ashe non sarà mai ricordato soltanto come un tennista. Ma come un uomo che, grazie al suo talento, la sua forza di volontà placida ma allo stesso tempo energica, è ancora oggi considerato un esempio di vita.
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