L’ascesa verso il successo tennistico segue strade imprevedibili: per alcuni passa da accademie rinomate, per altri da piccoli circoli tennis in paesi sperduti; per pochi eletti è lineare, univoca, apparentemente semplice, mentre per la maggior parte procede ad alti e bassi, a tentativi, fino a trovare quell’acuto fondamentale per sfondare i cancelli dell’olimpo del tennis.
John McEnroe un paio di tentativi li fece e, in quella che da fuori potrebbe essere considerata una perdita di tempo, effettuò una breve deviazione verso un’università americana entrando a far parte della squadra allenata da coach Gould. Certo, Stanford non era un’università come le altre, come non lo è tutt’ora: appena fuori da Palo Alto e ben radicata all’interno di uno dei poli tecnologici più ricchi del pianeta, vanta tra i suoi ex studenti personaggi del calibro di Phil Knight (co-fondatore di Nike), Sergey Brin e Larry Page (fondatori di Google), Tiger Woods, John F. Kennedy, Steinbeck e tantissime altre personalità successivamente diventate di spicco nel loro campo. Non guasta il fatto che Stanford abbia un campus che farebbe invidia a una reggia di monarchi europei e un clima che oscilla, mediamente, tra i 10 e i 25 gradi per gran parte dell’anno.
Questo avrebbe potuto non essere sufficiente, si dirà, se nel 1977 McEnroe raggiunse la semifinale di Wimbledon da qualificato a non appena diciotto anni di età. Stava finendo il suo ultimo anno di high school ed era riuscito a convincere i suoi professori a lasciargli qualche settimana libera per giocare i tornei in Europa. Per quanto i lussi di un tennis da poco diventato Open e i soldi che cominciavano a circolare lo attraessero, John stesso capì di non essere pronto per il salto tra i pro. La semifinale di Wimbledon gli aveva insegnato che, per raggiungere in maniera stabile quel livello, c’era bisogno di una continuità che ancora non gli apparteneva, oltre a una etica del lavoro da cui era ancora, probabilmente per motivi di maturità, lontano. Inoltre il ragazzo di Queens era stato cresciuto con un obiettivo: guadagnarsi il college tramite lo sport, con una borsa di studio che gli avrebbe permesso di frequentare un’ottima università, porta d’accesso per un lavoro da avvocato, come il padre.
John arrivò a Stanford dopo un’estate passata sui campi da tennis, al caldo e inframmezzata da innumerevoli viaggi. Era ovviamente una rockstar, con un’aura di leggenda che cominciava a formarsi e la sua classifica di numero ventuno del mondo stampata in fronte. Arrivò spossato e completamente scarico, tanto da non toccare una racchetta da tennis tra il primo ottobre e il tredici dicembre di quell’anno: gli era consentito farlo per via del suo status, e anche per il fatto che durante il Fall semester non si gioca il campionato ufficiale NCAA. Coach Gould lo lasciò fare, sapendo che avrebbe avuto bisogno del suo tempo per riprendersi. Fu tempo sprecato? Oggigiorno pensare di tagliarsi fuori dall’attività per due mesi e mezzo è impensabile, allora suonò sicuramente peculiare alle orecchie più vicine a Mc. Certo è che quel periodo fu fondamentale per digerire quanto aveva appena fatto, un risultato che a quell’età può avere effetti devastanti se non gestito nel modo corretto.
Ci si chiederà dunque come passò quel periodo di pochi mesi la più grande promessa americana di quegli anni. A suo dire faceva fatica a scuola e dovette ripiegare su corsi più semplici per riuscire ad arrivare alla sufficienza (si rivolse ai giocatori di football per consigli su questo argomento). Andava alle feste universitarie e trovò modo di sperimentare, nonostante la sua timidezza e il carattere leggermente introverso, tutto il pacchetto di attività che il college ti può offrire: roadtrip al mare, notti allegre nei bar, amicizie e ragazze. Dopo mesi passati in compagnia di professionisti più vecchi di lui nel circuito, quel primo semestre fu una sorta di ritorno a una vita adatta alla sua età, più “normale”, più semplice e spensierata. Fu anche l’ultima volta che ebbe la possibilità di vivere questo tipo di vita.
Durante lo Spring semester cominciò il campionato e Stanford rimase imbattuta. Lui no, però: perse due partite durante il semestre e non mantenne l’imbattibilità che tutti gli attribuivano. La pressione giocò certamente un ruolo e, se successivamente McEnroe non fu mai un tipo particolarmente soggetto alla tensione in partita, fu anche grazie all’esperienza del college che gli diede una grossa mano a crearsi una corazza verso l’esterno. Lo dice lui stesso, e aggiunge che il dover gestire la pressione in college fu un enorme aiuto per la sua successiva carriera da tennista professionista. Lui doveva vincere singolo e doppio, la squadra doveva vincere e gli spettatori ubriachi e urlanti sicuramente non aiutavano. Il periodo universitario fu anche quello in cui John crebbe fisicamente: da ragazzo mingherlino e con un servizio leggero cominciò a trasformarsi, lentamente, in giocatore completo, più potente e rapido sul campo. In suo aiuto vennero i campi rapidi su cui si giocava il campionato americano: sempre cemento, sempre serve and volley (mai praticato fino ad allora), sempre rimbalzi bassi che tanto piacevano ai suo colpi di approccio e al suo slice mancino.
Il sigillo del bad boy (non ancora diventato tale) arrivò al campionato NCAA, a cui lui teneva particolarmente. Lo vedeva come un rituale di passaggio, una vittoria che avrebbe affermato la sua volontà, alla fine dell’anno accademico, di diventare professionista e lasciare l’università. Al termine di nove giorni di competizione si trovò a giocare la finale contro un certo John Sadri, futuro numero 14 del mondo che, spinto dal pubblico del sud della Georgia, gli diede filo da torcere: McEnroe vinse 7-6 7-6 5-7 7-6 e definì Sadri uno dei migliori servitori che avesse mai visto. Alla fine dell’incontro, come dice lui stesso, “gli sembrò di volare”.
John firmò da professionista il mese successivo al Queen’s Club e, come molti si aspettavano, ebbe una carriera che lo portò ad essere uno dei più importanti giocatori di sempre. Dove si pone l’università in questo grande disegno studiato apposta per lui? La risposta è indefinita come tutto ciò che riguarda le scelte di vita, ma a sentire lui fu una benedizione. Gli diede tempo di digerire i primi improvvisi successi e di maturare fisicamente, oltre che di imparare a gestire la pressione dell’essere il grande favorito. Soprattutto, diede la possibilità a Stanford di vantarsi del fatto che anche il grande John McEnroe sia stato, e sempre sarà, tra i suoi più illustri ex studenti.
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