di Piero Emmolo
Ci sono storie che nel tennis trascendono la dimensione sportiva per intrecciarsi con vicessitudini d’ogni tipo. Sociali, economiche e, soprattutto, personali. La storia di Victor Estrella Burgos ha ampiamente i connotati per rientrare nei ” topoi ” narrativi suddetti. Una storia di stenti economici tra le tante del circuito. Tipiche di atleti appartenenti alle retrovie professionistiche che devono fare salti mortali per sbarcare il lunario. E per “lunario”, osiamo andar oltre il contenuto più classico di un Devoto-Oli qualsiasi ingiallito dal tempo.
Intendiamo giocare a tennis con la pressione massacrante e psicologicamente frustrante di dover far per forza un certo risultato, pena il non raccattare i soldi del biglietto aereo per il torneo successivo. Intendiamo adeguare forzosamente il connubio armeggio-tensione affinchè duri più a lungo possibile. Ed è risaputo, che più alta è la tensione delle corde, meno esse durano. Intendiamo dover in punta di piedi richiedere l’ospitalità a qualche player autoctono, con il cortese auspicio di poter ricambiare il favore in futuro. Tutto ciò l’economo Victor lo sapeva bene. La sua vita nel circuito era coordinata più ad ammortizzare le spese di viaggio che a limare le imperfezioni tecnico tattiche del suo tennis.
Nella prima tranche della carriera del dominicano emerge uno sport professionistico solo di fatto, tale solo formalmente; o “marron“, come la giurisprudenza italiana, sempre ciecamente ossequiosa verso i neologismi giuridici inglesi, ama precisare. La storia di Victor rievoca per tanti aspetti quella dell’argentina Paola Suarez. La tennista albiceleste riuscì a costruirsi un’ottima carriera in singolo e in doppio non senza esser arrivata sul lastrico. Ad un vero e proprio punto di non ritorno. E non per usuale modo di dire. Giocò quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo match della sua carriera, qualora l’avesse perduto. Lo vinse. E da quella vittoria si costruì una carriera eccellente anche in doppio, con l’amica iberica Virginia Ruano Pascual, compagna di otto titoli dello Slam nella disciplina.
Victor andò oltre questo tennistico “point of No return“. Restò senza denaro per viaggiare e, soprattutto, vittima del silenzio assordante della federazione caraibica. La Repubblica Dominicana è un arcipelago di dieci milioni scarsi di abitanti. La logica promozionalistica di qualsiasi contesto sportivo-istituzionale , specie se così parco numericamente e con una minima programmazione nel medio-lungo periodo, avrebbe indotto a sovvenzionare un atleta che, si piaccia o meno, era tra le punte di diamante dello sport dell’isola centramericana. Invece no. Victor arranca. I risultati non arrivano e decide di alzare bandiera bianca. L’immobilismo federale e l’incapacità di trovare sponsor prevalgono sulla sua vis agonistica. Decide di ritirarsi in patria e ”vivacchiare” con qualche lezione di tennis a dilettanti insulari o a turisti in transito nelle splendide spiagge dominicane. Ma realizza di vivere senza una seria prospettiva economica futura. Di vivere ” giorno per giorno “, proprio come il Rambo del grande Mario Kassar, dimenticato da tutti e supportato da nessuno al termine dell’illogico conflitto vietnamita.
Decide di rimettersi in gioco, di dare un nuovo colpo di reni alla sua vita, memore comunque del serio infortunio che lo aveva sibillinamente indotto a mollare quella vita da globetrotter avara di soddisfazioni. Rientra nel circuito professionistico nel 2006. Un paio d’anni vissuti tra più ombre che luci sembrano essere un pallido deja vú di un inferno già vissuto. Ma il dominicano non demorde. Nel 2008 centra il suo primo vero acuto, riuscendo ad accedere al main draw di Cincinnati, dove però il Fernando Verdasco in auge di quei tempi è troppa cosa. Perde con onore, ma soprattutto intasca un lauto assegno che gli permette di prendere ossigeno e programmare con più serenità allenamenti e competizioni agonistiche. Si avvicendano buoni risultati ad anni alterni.
Riesce a vincere il challenger di Medellin nel 2011, salvo ripiombare in un 2012 deludente. Il 2013 e la prima tranche del 2014 sono però gli anni della definitiva consacrazione a certi livelli. Vince tre titoli challenger a Quito, Bogotà e Salinas rimpinguando una bacheca già colma di titoli futures, per lo più vinti nel suo Paese. Approda in semifinale all’ATP 250 di Bogotà, nel quale elimina Richard Gasquet e fa segnare il suo best ranking di numero 82 ATP. É il primo dominicano della storia ad entrare in top 100. Specie nel torneo colombiano, Estrella ha dato l’impressione di essere il tipico ” solidone ” ; non eccellente in nessun colpo in particolare. Conosce la variante in back al rovescio coperto e non disdegna di cimentarsi ( con successo ) in qualche chirurgico dropshot. Eclettico e versatile in tutte le superfici, come dimostrano i successi ottenuti, equamente distribuiti sul veloce e sul mattone tritato. Gran carattere. A volte un pò sopra le righe ma entro parametri agonisticamente accettabili. Non possiamo esimerci dal sottolineare un flebilissimo trend nelle ultime settimane di tennis. Gente come Estrella ( alto solo 173 cm ), Goffin e Berankis, tra i più bassi ai piani alti del ranking, stanno onestamente battendosi ad armi pari con atleti ben più dotati fisicamente, grazie all’impegno, la tenacia e alla volontà ferrea di superare infortuni, talvolta assai gravi, o difficoltà economiche insormontabili. Quando l’ATP si mostrerà meno reticente ai problemi delle retrovie del tennis sarà sempre troppo tardi. É ora di dare una seria svolta. Perchè senza la tenacia e la voglia di emergere del dominicano, non avremmo potuto raccontare questa storia conciliante con lo sport. Ma soprattutto avremmo colpevolmente collocato nell’affollatissimo dimenticatoio del nostro sport un “Estrella” come fosse una meteora qualsiasi nel firmamento tennistico. Bravo Victor!