di Luca Brancher
Dopo aver trattato in maniera diffusa dell’Orange Bowl 2014, con inserti interessanti sulla storia, c’è sembrato opportuno ripetere il percorso a ritroso, per valutare quale sia stata l’incidenza di quello che fu – lo abbiamo capito bene – il più importante torneo juniores mondiale sulle sorti del tennis italiano. Ovviamente era impossibile trovare un’unica gradazione della medesima cromatura, e dietro le sorti azzurre vi sono tante piccole sfaccettature: c’è chi, attraverso l’Orange Bowl, è divenuto un tennista affermato, e chi nemmeno ci si è avvicinato. Tra la vittoria, la prima italiana, del 1971 di Corrado Barazzutti, under 18, e quella nella categoria appena più bassa da parte di Dario Sciortino ventiquattro anni dopo, carpiamo quanto sia dura, in effetti, divenire un professionista e quanto possano essere distanti i destini di ragazzi, le cui ambizioni erano giocoforza similari.
“Per me è stato fondamentale, potrei tranquillamente dire che è stato il torneo attraverso il quale sono diventata professionista.” a pronunciare queste parole Raffaella Reggi, campionessa under 16 nel 1981, una coroncina d’arance che definì un periodo parecchio vivo di una carriera ancora agli albori. “Stavo vivendo un periodo particolare, da due mesi avevo abbandonato l’Italia per andare ad allenarmi da Bollettieri, all’epoca ci fu un grande dibattito, se il mio successo, ed il merito derivante, fosse da ascrivere alle cure italiane oppure a quelle di Nick. Non fu una situazione gradevole, perché quando attraversai l’Oceano la Federazione mi chiuse le porte in faccia e non mi permise di giocare l’Orange Bowl, quell’anno era ancora nella categoria under 16, come loro giocatrice, per cui per accedervi dovetti prendere parte ad una di quelle competizioni che si disputavano nel weekend, dal giovedì alla domenica, e che davano diritto, alla vincitrice, di partecipare. Grazie ai buoni risultati giovanili, all’Orange Bowl ero comunque testa di serie, vinsi e per questo motivo ebbi in dote una wild card per una competizione del circuito Virginia Slims, giocai il torneo di Fort Myers, feci quarti e così ebbi la possibilità di avere la prima classifica ufficiale: 127. Da lì ebbe inizio la mia vita pro’” Nel caso specifico dell’ex numero 1 italiana, l’Orange Bowl fu un fulgido esempio della validità di una manifestazione giovanile che proietta i ragazzi verso la dimensione successiva, ma non è semplice per tutti, non tutti sono Raffaella Reggi, e per qualcuno dietro quel passaggio si cela ogni tipo di difficoltà. A fine anni ’80, per due anni consecutivi, in finale, poi sconfitta, giunse Lara Lapi, e se torniamo ancora più indietro, più precisamente nel 1979, sempre tra le under 18, l’onore di arrendersi nell’atto conclusivo spettò a Patrizia Murgo, la prima azzurra in assoluto a raggiungere una finale. “Ero numero uno d’Italia a livello giovanile, ero in nazionale e avevo già girato un po’ per tornei.Fu forse il primo anno che andai in America, giocammo la Continental Cup a squadre e poi l’Orange Bowl. Fu bellissimo, perché giocai partita dopo partita, speravo di fare il meglio possibile, ma non puntavo davvero alla finale, ero abbastanza forte a livello giovanile, ma di fronte a giocatrici da tutto il mondo… Comunque battei varie teste di serie, giocatrici che avevano fatto diversi risultati, più forti sulla carta, ma alla prova dei fatti riuscii a batterle, fu davvero una bella soddisfazione. Lì poi mi trovai con una ragazza di quindici anni, ma un fenomeno (Kathleen Horvath, futura top ten, due volte ai quarti di finale al Roland Garros 1983-84 n.d.a.), ero avanti 5-3 nel primo set, poi persi 7-5 6-1. A posteriori pensai che avrei potuto fare qualcosa di meglio, poi un po’ l’emozione e anche la forza di questa ragazza mi lasciarono lì…” La carriera professionistica della Murgo si sarebbe interrotta a 24 anni, nel 1986, dopo aver raggiunto, come miglior classifica, la 138esima posizione mondiale.
Nel 1988 l’invasione azzurra al Flamingo Park fu piuttosto imponente, ma, nonostante le tre finali colte, nessun titolo finì nella nostra bacheca. Oltre alla già citata Lapi, fu la volta di Stefano Pescosolido tra gli under 18 e di Manuel Gasbarri tra gli under 16. “Io ho giocato nel 1988, ho fatto una finale under-18 con Rosset, partita finita al terzo set. Per me era il primo anno nella categoria, per cui posso dire che fu un ottimo risultato: una bella esperienza perché il livello era buono, si incontravano giocatori validi” ha affermato il futuro numero 42 delle classifiche mondiali, mentre più partecipato è il ricordo di Gasbarri su quanto accaduto ventisei anni fa “Il mio primo Orange Bowl fu nel 1986, giocai l’under 14, persi nei quarti di finale da un tedesco. Due anni dopo mi ripresentai nell’under 16, arrivai in finale, e fui sconfitto, al termine di una vera e propria lotta, da Fabrice Santoro Ne porto un buon ricordo, al tempo il calendario era meno fitto, e questa manifestazione serbava un retrogusto storico, giocato oltretutto in un posto incantevole quale è Miami. L’America non era facilmente raggiungibile come ora, e poterci andare a 14-16 anni, per fare il tuo sport, era un privilegio notevole. Inoltre una parte della famiglia di mio padre risiede in California ed ebbero modo di vedere la finale in tv, dato che negli USA i network specializzati la davano in diretta. I partecipanti erano tutti portati dalle federazioni, soltanto nelle qualificazioni si vedevano tennisti che si iscrivevano per conto loro, ora è cambiato Andammo quell’anno col maestro Magneti, io e Pescosolido, che fece finale nell’under 18, ci allenavamo al centro tecnico di Riano”.
Da quanto emerge le impressioni sul torneo delle arance sono pressoché positive, ma a distanza di anni i nostri alfieri non risparmiano alcune critiche a quello che è stato e che non è più ora “Il circuito ITF ha cambiato fisionomia, è diventato un business e di conseguenza ci sono troppi tornei, decisamente, e quindi tutti i tornei perdono valore. Trattandosi poi di tornei giovanili, anche i punti hanno un valore simbolico: si sono create le basi per bruciare giocatori, in primis gli italiani. Considerando che nel 2013 l’età media dei top 100 era 28,5 anni, puoi capire quanto contano i tornei giovanili? Ora come ora ha effettivamente perso valore, anche se per un ragazzo andare un paio di settimane a Miami ad allenarsi può rimanere una bella esperienza, se rimani consapevole che il tennis vero sarà molto dopo” afferma convintamente Gasbarri, a cui gli fa da ecco Pescosolido “Oggi consiglierei di giocare un po’ meno per fare più preparazione tecnica e atletica”, che puntualizza inoltre un altro aspetto fondamentale, vale a dire i differenti ambienti che, a stretto giro, un tennista si trova a vivere “Cambiare del tutto ambiente da tornei prestigiosi con diciottenni brillanti a kermesse decisamente meno prestigiose con giocatori esperti e scaltri è sempre una cosa impegnativa, ci si trova sballottati“ mentre è accorato l’appello della Reggi “Io sono del parere che l’esperienza all’estero sia da fare, per ogni ragazzo che sogna di diventare un pro’ della racchetta, non ho dubbi al riguardo. Io ho lasciato casa a 11 anni e giovanissima sono volata in America. Se me dicessero se lo rifarei risponderei: certo! Ed è questo che consiglio a tutti quanti. E non consiglio soltanto di andare ad allenarsi all’estero, ma proprio di giocare i tornei juniores, che sono un ottimo banco di prova per crescere. Se avessi un ragazzo o una ragazza pronta ad approcciare il mondo pro’, io mi sentirei di indicarle di fare un mix tra tornei futures e giovanili, sono importanti, non per la vittoria o per la sconfitta, ma proprio per l’esperienza che ne trai.”
L’aspetto su cui tutti si trovano è d’accordo è quanto fosse splendida l’atmosfera di Miami, in particolare di Flamingo Park “Ho vinto anche alcuni tornei a livello juniores tra cui l’Open del Canada, ma questa finale– anche se la persi – è il mio ricordo migliore del circuito giovanile, al tempo l’Orange Bowl era davvero un campionato del mondo, c’erano praticamente tutti i più forti tennisti a livello giovanile. Ho giocato anche gli slam a livello junior, tranne l’Australian Open, ma nemmeno Wimbledon juniores ha il fascino e la considerazione dell’Orange Bowl” ricorda la Murgo, così come lo stesso Pescosolido “l’Orange Bowl era sicuramente il torneo più bello da giocare a livello giovanile, si respirava la storia, anche da semplice spettatore, era molto suggestivo”, “Erano però altri tempi, l’Orange Bowl era una manifestazione che fungeva da cardine di un’intera stagione e restituiva parametri indicativi, per quanto possa e potesse essere indicativo un torneo giovanile” sottolinea Gasbarri, ma chiaramente altre sono le sensazioni di chi ha vissuto questa manifestazione da ormai residente “C’è un aneddoto piuttosto divertente, che riguarda Nick Bollettieri: dopo la vittoria al primo turno mi disse che sarebbe venuto alla partita successiva, ma quando uscii dal campo vincitrice domandai al maestro che mi stava visionando se fosse venuto Nick– c’erano un sacco di accompagnatori dalla Bollettieri Academy, d’altronde ci sono moltissime manifestazioni in contemporanea e in vari circoli, per cui erano sempre numerosi – e mi disse di no, ma fui rassicurata che sarebbe venuto la volta successiva. Questa scena si ripeté dopo ogni turno, col risultato finale che vinsi la manifestazione, ma lui non venne mai a vedermi! Mi disse poi che lo aveva fatto per scaramanzia. Una volta finito il torneo, salimmo sul pullman che ci riportò a Bradenton ed arrivati scoprii che mi avevano preparato una festa. Non me l’aspettavo, ero nuova, ero lì da poco. Alla fine, Nick mi prese da parte e mi disse: ‘Brava, ma è adesso che comincia la tua strada’. Ecco cosa vuol dire instillare nei giovani la mentalità vincente. Questo discorso fu talmente d’impatto che lo ricordo ancora oggi, come se me lo stesse dicendo ora.
A proposito di mentalità, un’altra riflessione viene espressa dalla Reggi, legata al fatto che quest’anno la federazione ha mandato soltanto tennisti legati alla categoria under 14. “Mossa strana, un tempo eravamo presenti in tutte le categorie, andavamo in fondo, è capitato che vincessimo, ora si fa fatica a mandare questi ragazzi nei tornei. Onestamente non condivido la scelta, non mi sembra che, in particolare nel mondo femminile, ci siano ricambi così pronti per sostituire le nostre atlete, e non vedo come evitare di prendere parte a queste manifestazioni possa essere una mossa adeguata. Forse chi cura queste cose, dovrebbe farsi qualche domanda.”, decisione, supponiamo, dovuta anche allo svilimento che nel frattempo ha avuto l’Orange Bowl nell’economia dei tornei mondiali, all’interno di un calendario sempre più fitto “Il circuito era strutturato in maniera diversa, si giocano forse troppi tornei che tolgono spazio alla preparazione” ricorda Pescosolido, e pure cosa volesse dire un tempo nell’economia dell’informazione italiana. Già detto, nell’articolo dedicato, di un Pistolesi che una volta rientrato in Italia venne ospitato al “La Domenica Sportiva”, interessante anche l’aneddoto legato a Patrizia Murgo“La notizia ebbe un suo clamore, sono diventata anche una definizione delle parole crociate!”.
Anche questo è (o era) l’Orange Bowl.
Leggi anche:
- None Found