di Federico Mariani
“Credo che un’Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa.” Stefano Accorsi, interpretando magistralmente Ivan Benassi nel film Radiofreccia, fondeva così nostalgia ed ottimismo in uno dei monologhi più celebri del cinema italiano contemporaneo. Al momento della stesura del copione (1997), Ligabue nell’inusuale veste di regista non sapeva ancora che da lì a poco un alieno brasiliano avrebbe fatto impazzire il mondo dalla parte nerazzurra di Milano, o che svariati anni dopo El Principe del Bernal avrebbe impiantato indelebilmente il nome dell’Inter nella storia del gioco con la conquista dell’epico triplete.
Cosa c’entra l’Inter e la sua storia con Rafa Nadal? Poco, molto poco. Ma è indubbio che nelle parole di Ivan Benassi, ogni tifoso, appassionato, innamorato di qualsivoglia sport deve trarre ispirazione. Gli aficionados dello spagnolo più forte della storia del tennis convivono ormai con l’accettazione di non poter più ammirare lo schiacciasassi targato 2008, quello che per intenderci nel giro d’un mese brutalizzò Federer a Parigi per poi detronizzarlo dal regno londinese. O, ancora, la luccicante versione 2013 quando in un’estate di rara prepotenza centrò l’accoppiata Montreal-Cincinnati per poi schiantare un Djokovic già dominatore nella finale di New York. Un Nadal così non tornerà più. Le trenta primavere mai così vicine ed un evidente quanto inevitabile logorio fisico non possono che confermare tale affermazione. Non è, tuttavia, altrettanto scontato che Rafa smetta di stupire, di regalare nuove gioie a chi lo sostiene. Gioie magari diverse alla gloria che fu, ma non per questo minori, anzi. Nadal, seguendo d’altra parte la stessa strada già battuta da Federer, ha inevitabilmente smarrito un po’ di quella reputazione da imbattibile che l’accompagnava, anzi lo precedeva in ogni luogo del globo terracqueo. Nadal, già da qualche periodo, è diventato perdente e (vivaddio) umano. Ora lo stesso spagnolo pare essersi reso consapevole appieno di ciò e, come solo i veri campioni sanno fare, s’è calato nella parte, una parte che accompagnerà l’epilogo di una delle carriere più folgoranti della storia del Gioco.
Lo swing asiatico prima e l’autunno europeo poi hanno temperato notevolmente un 2015 che, numeri alla mano, ha rappresentato la stagione più avara di sorrisi per il mancino di Manacor. Primo anno senza Slam dopo un’eternità, tre soli titoli incamerati e neanche una semifinale Major sono un bottino davvero troppo magro per un campionissimo del calibro dello spagnolo. La porzione di calendario tradizionalmente più ostica a Rafa ha consegnato al circuito un nuovo Nadal, un altro Nadal. In Cina, il maiorchino ha centrato la finale a Pechino arrendendosi solo ad un Djokovic versione illegale. La settimana seguente è tornato a battere un top ten sbarazzandosi di Raonic, impresa che mancava da Madrid, prima di scherzare Wawrinka e perdere sul filo un’emozionante sfida con Tsonga in semifinale. Il vero capolavoro, tuttavia, Rafa l’ha tracciato nel 500 di Basilea, sulla superficie a lui meno congeniale. Lo spagnolo s’è esibito nel corso del torneo in uno spettacolo di tenacia, continuo ed incessante, che l’ha spinto fino in finale dove il padrone di casa Federer ha dovuto estrarre il meglio di sé e dal servizio per imporsi in tre set. Nelle quattro giornate basilesi antecedenti la finale, Rafa ha nell’ordine: rimontato un disperato svantaggio di 6-1 5-4 e 30-0 col servizio in mano ad un Rosol sin lì perfetto, per poi vincere al tie break del terzo; è partito col break di svantaggio in tutti e tre i set contro Dimitrov, vincendone due; recuperato nuovamente da set e break sotto contro Cilic nei quarti di finale per trionfare 6-3 al terzo; rimontato un break di svantaggio a Gasquet sia nel primo che nel secondo set in un match che avrebbe dovuto perdere ma che alla fine ha chiuso in suo favore per 2-0 spedendolo in finale. Per un totale di sette set incamerati partendo con un break di ritardo, su una delle superfici più rapide del circuito, contro avversari per nulla docili al servizio quali Rosol, Dimitrov, Cilic e Gasquet. Sostanzialmente un’enormità statistica.
In tali frangenti il gioco conta fino ad un certo punto, così come la condizione atletica. È ovvio, i progressi rispetto alla prima parte di stagione sono evidenti e tangibili, ma ciò che ruba l’occhio è l’occhio stesso di Nadal. Nello sguardo di Rafa è tornato quel fuoco che forse, anche per un duro come lui, s’era un poco affievolito nei mesi trascorsi in un anonimato che non gli appartiene. Brucia ancora Nadal e, di riflesso, questo comincia a farsi notare negli occhi degli avversari cui è tornato un po’ di quel timore reverenziale che solo grandissimi sanno incutere.
È meraviglioso ritrovare Nadal sgomitare coi migliori giocatori del mondo, arrampicarsi nel ranking per tornare al posto dove il suo talento gli impone di stare. È meraviglioso rimirare quel furore maledetto, quella voglia di vincere mai realmente sopita. E chissà che l’ultima parte di un deludente 2015 non sia un nuovo inizio, l’inizio dell’ultima fase di una formidabile carriera da vivere in modo diverso, non dominante, ma non necessariamente meno bello.
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