Il punto del lunedì: addii e ritorni

Matteo Donati

di Alessandro Mastroluca

“A volte mi chiedo se ci sia mai stato qualcuno che abbia desiderato così ardentemente di migliorarsi come Novak Djokovic”. Parola di Roger Federer. È la miglior fotografia possibile per il numero 1 del mondo, che ha vinto il suo 21mo Masters 1000 e soprattutto ha conquistato due terzi dei suoi titoli fra Slam, 1000 e Masters: perché la grandezza si alimenta sui grandi palcoscenici.

La grande bellezza? La finale di Indian Wells, non all’altezza delle migliori sfide Roger-Nole (Roland Garros 2011 rimane irraggiungibile, ma anche il title-match dell’anno scorso resta superiore), non ha nascosto verità sconosciute. Difficile, certo, che ce ne possano essere tra due giocatori che si sono affrontati 38 volte. Sanno già quel che succederà, il match è una coreografia di movenze anticipate, di reazioni già scattate prima dell’azione. Una partita in cui la differenza la fanno i colpi di inizio gioco. Federer, che pure in stagione ha una dominance ratio (il rapporto fra i punti vinti in risposta e quelli persi al servizio) più alta anche di quella che manteneva nelle stagioni migliori. ha servito globalmente peggio, e i 43% punti in risposta di Nole son lì a dimostrarlo. Djokovic, che nella semifinale contro Murray ha vinto per la 52ma volta più del 50% dei punti in risposta sulla prima (e queste 52 le ha vinte tutte), si sarà rivisto in Dimitrov nel tiebreak del secondo set, deciso dai suoi tre doppi falli. Nello scambio, a Federer sono mancate le variazioni, e in uno scenario simile il finale era quasi già scritto. Comunque, anche un loro scontro diretto di livello alto ma non altissimo si rivela pur sempre molto superiore alla media degli incontri ATP attuali. Senza cadere in luddismi tennistici, come dare torto a Pete Sampras? “Il tennis moderno? Tutti imitano Djokovic e Nadal, la prossima generazione che spettacolo darà? È un noia”. Con una sola eccezione: Thanasi Kokkinakis, che con quel dritto può far quel che vuole, e a Indian Wells ha vinto con Monaco e perso con un Tomic finalmente centrato, concentrato e tirato fisicamente, due dei match migliori dell’intero torneo. E non può essere un caso.

Ritorni e rimpianti. Al femminile, è stata la settimana dei ritorni e dei rimpianti. Per Serena Williams, commossa per la prima vittoria dopo 14 anni in un torneo che, ha scritto nella sua autobiografia, per lei speciale ma dove le è successo qualcosa che le ha cambiato la vita. Qualcosa, leggi le offese del pubblico nella finale vinta nel 2001 dopo il forfait di Venus in semifinale, che l’ha convinta a non tornare fino a quest’anno. E l’ha fatta piangere di gioia e sollievo dopo un primo turno contro Niculescu che solo il coacervo emotivo di significati profondi ed extra-sportivi ha potuto rendere così incerto nell’andamento e nel punteggio. E di lacrime ne ha piante anche Flavia Pennetta, per ragioni che ha spiegato senza spiegare, nei primi game contro Maria Sharapova. L’ha battuta ancora, con l’asticella della convinzione, della motivazione, che in America di fronte alla siberiana si spinge sempre un po’ più in là. Le è un po’ mancata la spinta col dritto, ma è una strategia tattica chiara con una contingenza occasionale, nel tiebreak finale contro una Sabine Lisicki che rivede la luce alla fine del tunnel. È stata la settimana del ritorno di Jelena Jankovic, che qui ha vinto il suo titolo più importante, nel 2010, e qui cinque anni dopo cancella i pensieri di ritiro di inizio stagione, arriva a un set dal trofeo e fa il suo rientro in top-20. È soprattutto la settimana di Simona Halep, nuova numero 1 nella Race, che ha messo in fila 8 vincenti e 18 errori nel primo set, si è trovata sotto 1-3, 3-4 e 4-5 nel secondo, ma ha firmato una rimonta delle sue. La rumena, che contro Pliskova ha giocato probabilmente il miglior match femminile del torneo e dimostrato la distanza semantica fra un tennis schematico e un tennis banale, in finale ha ridotto gli errori a 29 complessivi negli ultimi due set contro i 46 della serba. A parità di vincenti, fa tutta la differenza del mondo.

Il gioco delle coppie. Per l’Italia, è stata la settimana dei doppi, delle coppie che si spezzano (le Cichis), delle certezze e delle incognite per il futuro. Errani e Vinci si lasciano da numero 1 della specialità, ma restano disponibili per la Fed Cup: ma avrebbe senso riunirle solo per la competizione a squadre nel lungo periodo? Non sarebbe meglio formare una coppia nuova (Pennetta-Vinci?) su cui insistere in ottica anche Rio 2016? Domande che al maschile si trasformano in certezze. La finale di Bolelli e Fognini chiude un trimestre avviato col trionfo australiano e allo scoccar del primo terzo di stagione assegna agli azzurri la sostanziale certezza di un posto alle Finals di Londra.

Futuro azzurro. E nella settimana dove si parrà la nobilitate di Quinzi, wild card nelle qualificazioni di Miami contro Thiemo De Bakker con cui condivide lo status di ex campione junior di Wimbledon, il futuro si palesa un po’ più azzurro. Alla prima vittoria ITF di Napolitano si abbina il quarto di finale di Donati al Challenger di Drummondville, una di quelle sconfitte che fanno crescere. Perché giocare alla pari con Frank Dancevic non è cosa da poco, e per saper neutralizzare il suo gioco di studiati rallentamenti e attacchi costanti serve ancora qualche anno di esperienza. Donati deve di sicuro migliorare in risposta e nella costruzione dello scambio, rinunciare senza snaturarsi alla ricerca pervicace del vincente, ma questi Challenger rappresentano già il suo livello attuale. Il tempo è dalla sua.

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