di Luca Brancher
Il modo in cui da oltre settant’anni viene decisa una delle otto wild card per il tabellone principale dello U.S. Open lega, in maniera indissolubile, il tennis moderno con quello degli albori. Qualsiasi giocatore, infatti, facente parte della USTA e che avesse velleità di poter ambire a rientrare fra i 128 meritevoli di calcare i campi di Flushing Meadows dovrebbe a fine luglio recarsi al Kalamazoo College, nell’omonima città sita nel Michigan e rendersi eleggibile: unica altra richiesta è il non avere ancora compiuto i 18 anni nel giorno in cui il tabellone principale ha inizio (quest’anno il limite era posto al 1 agosto del 1995). Attraverso un torneo di qualificazione si ottiene la possibilità di essere inseriti in un tabellone principale monstre (da 256 atleti) che, nel giro di 10 giorni, garantisce al vincitore un posto nel tabellone principale dello U.S. Open, ed allo sconfitto una chance nelle qualificazioni del medesimo torneo. Quest’anno il titolo è spettato a Noah Rubin, campione a Wimbledon juniores, mentre lo scorso anno Colin Altamirano aveva rotto una barriera, essendo il primo tennista non testa di serie a fregiarsi di tal titolo. Nel 2009 l’onore era spettato a Chase Buchanan.
Chase si era quindi garantito la possibilità di giocarsi le sue carte nella manifestazione più sentita da ogni statunitense, ma lo sfortunato sorteggio – aveva pescato Tsonga – e l’emozione del momento gli avevano riservato un magro bottino sotto gli occhi di tanti connazionali appassionati. Sarà stato lo scotto dell’esperienza, o il fatto di aver avvertito la sensazione che prima di competere a questi livelli ne avrebbe dovuti mettere di campi sotto i piedi, sta di fatto che Chase, differentemente da altri suoi coetanei, ha preferito proseguire l’avventura cominciata nella primavera dell’anno prima alla Ohio State University, una sorta di istituzione per lui, nato e cresciuto nell’Ohio, tra Columbus, città natale, e New Albany, in cui aveva frequentato le high school. Si sarebbe rivelato un quadriennio di grandissimo successo, in cui avrebbe fatto la conoscenza di un atleta europeo con cui avrebbe costituito una coppia di doppio d’alto livello: Blaz Rola.
Gli anni del college sono stati molto formativi per Buchanan, entrato all’ateneo di Columbus dopo aver vinto, appena diciassettenne, il primo titolo future, quantomeno stando alle dichiarazioni che lo vogliono come un fervente fan di Agassi nei suoi primi anni con la racchetta in mano – non casuale quindi che, come colpo preferito, indichi la risposta – ma di essere stato molto influenzato da Al Matthews, il coach che lo ha iniziato alla pratica e lo ha seguito fino ai 17 anni, ma anche e soprattutto da Ty Tucker, capo allenatore dei Buckeyes, e dal suo assistente David Kass. A ridosso della conclusione del quadriennio di studi, ad Indian Harbour Beach, Florida, veniva colto il secondo titolo ITF della sua ancora embrionale carriera, in cui avrebbe sconfitto il caro amico Rola, ma da quel momento in poi le carriere dei due ex compagni avrebbero avuto destini ben differenti, dal momento che lo sloveno, costretto ad un altro anno di studi per conseguire l’agognata attestazione, avrebbe spiccato velocemente il volo verso il mondo ATP, mentre Chase, per il prosieguo del 2012, avrebbe ingaggiato una personale battaglia a livello ITF per aggiudicarsi una nuova corona, conclusa vittoriosamente soltanto a metà novembre, dopo tre sconfitte in finale ed altrettante in semifinale (la prima delle quali, avvenuta per ritiro, si narra fosse per presenziare ad un matrimonio).
Sembrava a prescindere acclarato, soprattutto dopo gli stenti della prima parte del 2013, che quella partecipazione allo U.S. Open del 2009 sarebbe rimasta l’unica comparsata nel circuito maggiore di Chase, a meno di qualche munifica wild card. Costretto quindi a peregrinare addirittura in futures di bassa caratura, con l’amico Devin McCarthy, per tornare a vincere qualche match, inaspettatamente ha visto svoltare la propria carriera dopo il primo viaggio verso sud, dimentico di quanto era accaduto negli anni da junior, quando si era rivelato ai vertici federali della USTA con un successo, a soli 15 anni, nel Panama Bowl. Con tre titoli ed una finale ITF, Buchanan rilanciava le proprie credenziali, ma è con la semifinale nel challenger di Quito che si garantiva i punti e la fiducia necessari per cominciare a scalare il ranking. Il 2014 diveniva così il suo primo vero anno da tennista errante, condensato da diversi risultati di spessore: una finale a Karshi, altre due semifinali challenger, svariati quarti e la consapevolezza di aver abbattuto la barriera del top 200 ATP.
Con tutt’altra attitudine raggiungeva Cincinnati, nel suo Ohio, per giocarsi le chance di entrare nel tabellone principale del Master 1000 del suo Stato. E, dopo aver sconfitto un disarmato Llodra al primo turno, i due set con cui disponeva di Tim Smyczek sancivano il suo approdo nel tabellone principale, dove se la vedrà con l’iberico Joao Sousa. Un ciclo vincente che si chiude, il suo ritorno in un main draw di una manifestazione di tal lignaggio, un altro che potrebbe essere destinato ad aprirsi.
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