di Marco Mazzoni
Con US Open e semifinali Davis in archivio, inizia una fase interlocutoria della stagione tennistica, la famigerata leg asiatica. Eventi lontani, ricchi, che piacciono (tanto) agli sponsor e pochissimo ai veri appassionati, intristiti da spalti vuoti, zero cultura del gioco e impegno ridotto ai minimi termini per molti big e non. Meglio perdersi forse nei primi profumi d’autunno, ormai alle porte, per un’esplosione di colori, sapori ed emozioni che il tennis nel sud-est difficilmente ci regala. L’annata del corri e tira non è ancora finita. Manca il Master, una finale Davis assai intrigante e gli ultimi baluardi europei del tennis indoor, che spesso sono autentici capolavori di show offensivo.
E’ presto per fare i bilanci, ma con “il grosso” già giocato si possono iniziare a tirare le prime somme. Gli spunti davvero non mancano. Il 2014 è un anno che a suo modo passerà alla storia per le novità che ci ha proposto, incluse sorprese notevoli. Alzi la mano chi pensava a due nuovi vincitori Slam dalle retrovie! Proprio in anno un po’ particolare, in cui i big non hanno sempre giocato al massimo ed in cui alcuni da dietro sono stati bravissimi ad inserirsi e crescere, ottenendo ottimi risultati in Master1000 e addirittura Slam, all’appello manca Tomas Berdych. Con Wawrinka e Cilic che hanno vinto uno Slam, Tsonga che s’è esaltato a Toronto, Nishikori che quasi abbatte Nadal sul rosso, la clamorosa finale all-swiss nel feudo iberico di Monte Carlo e via dicendo, il gigante ceco è sempre mancato quando l’occasione era ghiotta e l’impresa a portata di mano. Il 2014 poteva essere l’annata ideale per Tomas, per trasformare una carriera di ottimo livello (ma sempre dietro ai primissimi) in qualcosa di più speciale. E’ stata invece l’ennesima occasione mancata, a meno di qualche botto autunnale del tutto imprevedibile.
Scommettere su di lui è sempre stata roba al limite dell’azzardo puro. Eppure la sua annata era partita anche bene dall’Australia, con una semifinale a Melbourne, due vittorie easy in Davis, titolo a Rotterdam e finale a Dubai, persa d’un filo contro un Federer atleticamente rinato. Male Indian Wells, e semifinale a Miami, dove cede il passo a Nadal senza giocare. Eravamo agli ultimi giorni di marzo: di fatto la stagione di Berdych al top si è chiusa. Da lì in avanti il buon Tomas è più passato agli onori della cronaca per il look psichedelico proposto dal gigante H&M che per le imprese sportive. Non più un torneo vinto ma sconfitte, spesso contro pronostico e con prestazioni a volte di una pochezza sconcertante.
Altre volte Berdych ha vissuto in carriera dei momenti non esaltanti sul piano dei risultati, ma sempre aveva fornito la sensazione di avere il classico “colpo in canna” sul piano del gioco. L’aspetto più grave non sono i mancati risultati ma proprio questo, quello di aver mostrato raramente il massimo del suo potenziale devastante, e soprattutto di esser “scomparso” nei match che gli potevano cambiare la stagione e che invece ha perso piuttosto nettamente. Nel 2014, eccetto i primissimi mesi, non è riuscito ad esprimersi al meglio, non è stato capace di elevare la sua spinta ed il suo rendimento a quelle punte altissime con cui è capace di abbattere chiunque.
L’esempio di quella che è stata la sua stagione è la semifinale in Australia, persa in 4 set contro Wawrinka. Un match duro, tirato, giocato punto su punto, sui nervi del servizio e della risposta, ma in cui è stato superato nelle fasi più calde. La cosa è andata anche peggiorando in stagione, con le “perle negative” contro Gulbis a Parigi, Cilic a NY e pure la nettissima battuta d’arresto in Davis contro Gasquet lo scorso weekend. Un buonissimo Gasquet, che ha servito bene e giocato con un impeto per lui inconsueto, ma assai aiutato da un numero di errori gratuiti del ceco a due cifre già dal primo set…
L’argomento Berdych è da sempre intricato. Quante volte fior di analisti l’hanno visto “maturato”, pronto ad esplodere, sulla rampa di lancio. Mediamente è uno dei migliori giocatori del mondo da anni, semifinalista in tutti gli Slam e finalista a Wimbledon, vincitore in Davis, in 9 tornei tra cui il 1000 di Bercy. E’ top10 ininterrottamente da anni. Però manca qualcosa.
E’ sempre mancato qualcosa a quel tennis totalmente spregiudicato nella spinta. Forse nessuno nel circuito ha la sua capacità di accelerare la palla, da ogni posizione del campo, e trovare un vincente assolutamente imprendibile, con palle piatte e velocissime. Berdych è la definizione esatta di colpitore, di uno che con la racchetta divora la palla imprimendole velocità ed angoli micidiali. Ma oltre a questa dote incredibile non è mai stato capace di evolvere sul piano tecnico-tattico, e completarsi. Seguendolo da anni, la sensazione è che la sua crescita si sia arrestata almeno 3-4 anni fa, quando ha compiuto uno scatto sul piano atletico, diventando meno macchinoso con i piedi e più continuo nella spinta. Una crescita che gli è valsa l’ingresso stabile nella top10, subito a ridosso dei primi, e con qualche scampo eccellente ogni anno (vedi “colpo in canna”, quest’anno assente). Tuttavia la sua enorme capacità di spinta non è sufficiente a vincere (o utile in modo sporadico) senza l’ulteriore salto di qualità, quello che non c’è mai stato sul piano tattico, della presenza e lucidità in campo. Tomas è tutt’altro che un genio… Quando lo vedi aggirarsi per il campo con quell’occhio sbarrato, spesso nascosto sotto la visiera dell’immancabile cappellino, non ti da mai l’impressione di essere lucido e presente, di capire quello che sta accadendo intorno. Sembra giocare in uno stato trance totale, come un cavallo di razza purissima che scatta e prova sempre e soltanto l’allungo limitato da due paraocchi enormi, perdendo di vista tutto il resto. Purtroppo per lui il tennis non è un rettilineo da fare all’impazzata, è un’arte sportiva troppo complessa e difficile per esser vinta solo con uno sprint bruciante. Le parole duttilità e flessibilità non sono mai entrate nel suo vocabolario, come la capacità anche minima di analizzare le situazione e provare un piano-b quando la sua formidabile spinta diventa inefficace a stroncare il rivale, o quando non sente bene la palla. Altri big a volte su di lui scherzano negli spogliatoi: “Dopo 4 palle capisci se sente la palla o no. Se la sente, ti arrivano sassate da tutte le parti, e sarà dura… Ma se non la sente, beh, gioco facile tenerla in campo, tanto a sbagliare ci penserà lui…”. Non una gran prospettiva insomma…
Del resto Berdych è esattamente quello. Mai un colpo interlocutorio ben eseguito, quasi mai coglie in campo l’attimo per cambiare ritmo e “azzannare” il rivale nel momento di difficoltà. Spara tutto a tutta, senza compromessi, sul primo punto del game come nel tiebreak più delicato, senza alcuna sensibilità per il contesto. Malissimo in uno sport complicato e di situazione come il tennis, dove non si vince con l’assolo della vita ma anche con molte fasi interlocutorie ben gestite.
Ogni anno Tomas ci dice di lavorare bene, di focalizzarsi sulla difesa, sull’attesa, sulla seconda di servizio; oppure di cercare di migliorare la gestione dello scambio per prendersi il rischio al momento giusto. Niente. Sono rarissimi gli esempi di suoi match vinti grazie a queste piccole grandi astuzie tecniche e tattiche. Le sue vittorie sono quelle d’impeto, di forza, di una serie incredibile di miracoli balistici tanto belli quanto rischiosi. Tutto molto, molto difficile. La sua storia ci dice troppo difficile, anche per uno baciato da un talento raro come il suo.
La storia del gioco (mai dimenticarla) ci insegna che cechi maturano tardi. Senza perdersi nel bianco e nero, Korda, Novotna, lo stesso Lendl, tutta gente che ha dato il suo meglio già grandicella. Berdych è un classe 1985, non è ancora tardi ma il tempo passa, anche per lui; ancor più con le nuove leve che paiono esser ad un passo dall’arrivare ed imporsi. Per questo il 2014 resta a mio avviso una grande occasione mancata per Berdych: poteva e doveva essere l’anno giusto per la definitiva consacrazione, per l’impresa di una vita, un po’ come lo è stato per Wawrinka, a coronamento di una crescita sportiva ed umana molto importante, e che invece Tomas non è stato (ancora) in grado di compiere. Una crescita forse ormai tardiva per rivelarsi. Troppe le sue lacune mentali, forse preda di insicurezze ataviche evidenziate dalla sua condotta di gara troppo scarna e da quella fretta tra un punto e l’altro che mai lo porta a ragionare, ma solo agire.
Si è parlato pure di una ipotesi Ivan Lendl come suo coach. Sarebbe un binomio altamente affascinante, forse l’ultima vera speranza per un salto di qualità, memori di quello che lo “Zar” è stato capace di fare con un tizio assai tosto e complicato come Murray. Se mai il grande Ivan accettasse l’incarico di tirare l’ultima volata al miglior talento prodotto del suo paese negli ultimi anni, ci riuscirebbe? I dubbi sono molti. Forse la rigidità fisica e mentale di Berdych è troppo strutturata per esser demolita e rimodellata, anche da un lavoratore instancabile e certosino come Lendl, ma chissà…
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