Tra i vincitori del recente Lemon Bowl, uno dei ragazzi che si è messo in particolare evidenza per correttezza in campo, per educazione e anche per praticare un bel tennis, pulito, è Yannick. Nato a Fano, ha sempre vissuto in Italia, ma ha un doppio cognome molto difficile da leggere e pronunciare correttamente.
Il cognome di Yannick è Ngantcha Lliso, qualcuno ha pensato fosse francese, a causa del nome che ricorda il grande Noah e per la capigliatura arruffata che lo fa sembrare uno Tsonga in miniatura, mentre il papà è nativo del Camerun e la mamma spagnola. I genitori si sono trovati in Italia quasi per caso, e, nell’indecisione di andare a vivere in Africa, in Spagna o negli Stati Uniti, dove avevano ricevuto proposte di lavoro, hanno scelto di restare nel nostro paese e crescere in Italia i loro due figli.
Papà Jean-Jacques e mamma Maria Vicenta, entrambi appassionati di tennis, hanno subito assecondato la voglia di imparare a giocare dei propri figli, Yannick e la sorella maggiore dodicenne Ayline. Piano piano, tra un miglioramento e l’altro, sono arrivate anche delle soddisfazioni con la vittoria in tanti tornei riservati a ragazzi e ragazze della loro età.
Incontriamo Jean Jacques Ngantcha per farci raccontare la loro storia familiare e per approfondire ancora una volta il rapporto genitori-figli nell’ambito tennistico, rubrica che sta riscuotendo tanto interesse nel nostro sito.
Jean-Jacques, raccontaci la tua storia. Come sei arrivato in Italia?
“Io sono arrivato in Italia esattamente il 1 agosto del 1990 per iscrivermi alla facoltà di farmacia a Urbino. Ho fatto tutto il percorso universitario e mi sono laureato in Italia. Nel 1994 ho conosciuto Maria Vicenta Lliso, divenuta poi mia moglie, che era in Italia per uno stage, avendo vinto una borsa di studio che le aveva permesso di andare all’estero per completare il suo percorso universitario. Ci siamo frequentati, poi la storia è continuata, ci siamo sposati e abbiamo avuto due figli, prima Ayline e poi Yannick, nati entrambi qua in Italia, nella Marche, a Fano”.
Avete deciso subito di restare a vivere in Italia, oppure è stata una scelta difficile e lungamente ponderata?
“No, è stata una scelta guidata dagli eventi che si sono susseguiti nella nostra vita. Io sono venuto in Italia per studiare, per imparare a fare il farmacista, con l’idea di tornare poi in Camerun e aprire una farmacia con la mia famiglia. La nostra casa è in una zona con tre ospedali nuovi e c’era assoluta esigenza di avere anche delle farmacie in zona. L’idea iniziale era quella. Mia moglie non era contraria a venire con me in Africa, ma era chiaro che si sarebbe dovuta allontanare di molti chilometri dalla sua famiglia. Poi ho subito trovato lavoro in una importante casa farmaceutica italiana, mi sono trovato benissimo con i colleghi e allora il ritorno in Africa è stato sempre rimandato di anno in anno e abbiano deciso di restare in Italia”.
Poi la nascita dei figli vi avrà legato ancora di più al nostro paese…
“Certamente. Abbiamo anche considerato la possibilità di andare a vivere in Spagna e a un certo punto anche negli Stati Uniti perché avevo avuto una interessante proposta lavorativa, ma ci trovavamo benissimo in Italia, avevamo deciso di far frequentare le scuole italiane ai nostri figli in Italia e quindi non c’era motivo di andarsene”.
Sono tante le famiglie multiculturali in Italia e anche nel resto del mondo. Come vivete questo misto tra africano, spagnolo e italiano?
“Sì, devo dire che siamo proprio multiculturali. La mamma parla con i figli in spagnolo, io qualche volta in francese, loro ovviamente a scuola e con i loro amici parlano in italiano, c’è un misto di usi, costumi, cibo delle nostre origini. Ai nostri figli piace tutto questo, adorano quando vanno in Spagna, a Valencia dai nonni, ma sono contentissimi di vivere qua in Italia. Credo che questo mix di culture e origini possa fare solo del bene”.
Quindi alla fine sei stato soddisfatto della scelta di restare a vivere in Italia?
“Certamente sono soddisfatto, perché vedo che i miei figli sono contenti, perché vivono le loro giornate serenamente e senza problemi. In realtà, se devo essere sincero, sono sempre stato convinto che saremmo allo stesso modo felici in una qualsiasi altra parte del mondo, perché siamo una famiglia serena e felice. Il primo aspetto da considerare è la felicità del proprio ambiente familiare, tutto il contorno viene dopo”.
Cosa ti manca di più dell’Africa?
“Nel mondo occidentale si guarda troppo al ruolo delle singole persone nella società. Io sono rispettato e apprezzato per il mio lavoro, che svolgo con dedizione e impegno, mentre in Africa prima di tutto si guarda alla persona, non si chiede mai agli uomini e alle donne che lavoro fanno, cosa hanno studiato, non si guarda come sono vestiti, che macchina hanno o che telefonino usano. Mi manca soprattutto questo, l’essere visto solo come persona e non come personaggio che ricopre un ruolo nella società. In Italia come negli Stati Uniti o nel resto dell’Europa è diverso andare a un incontro in giacca e cravatta dall’andarci con vestiti scelti a caso, si lascia un’impressione diversa nell’interlocutore, in Africa questo non succede”.
Arriviamo a parlare dal tennis. Come si sono avvicinati al tennis Yannick e Ayline?
“Sia io che mia moglie siamo appassionati di tennis, abbiamo giochicchiato senza grandi pretese, abbiamo sempre guardato il tennis in TV con grande interesse. I nostri figli fin da piccoli si mettevano a guardare le prove dello Slam con noi in televisione e hanno iniziato a prendere la racchetta in mano, così per gioco, provando a colpire la palla contro il muro fin da piccolissimi. Si sono appassionati entrambi e noi non abbiamo fatto altro che incoraggiare la loro passione con grande piacere”.
E quindi li hai portati ad imparare a giocare a Perugia?
“Sì, siamo andati al Centro Tennis Perugia dove, sotto la guida di Romeo Lavoratori, lavorano veramente bene con tutti i bimbi. Vengono seguono quasi singolarmente, senza mai opprimerli troppo, hanno un ottimo metodo per far crescere sia umanamente che tennisticamente i nostri ragazzi. Noi abbiamo anche avuto la fortuna di conoscere un altro maestro di tennis, Patricio Remondegui, un argentino che allena in Romagna, che lavora tantissimo nell’atteggiamento mentale del bambino. Circa una volta al mese portiamo i miei figli da Remondegui e credo che il mix della tecnica insegnata da Lavoratori a Perugia e degli altri aspetti che riesce a trasmettere Patricio in Romagna sia veramente la combinazione vincente per i miei figli”.
Quanto conta il tennis secondo te all’età dei tuoi figli? Si possono già creare i futuri professionisti partendo dai dodicenni oppure deve restare solo un gioco?
“Il tennis è assolutamente una passione, un divertimento. Se gli piace lo fanno, se non piace più, smetteranno anche se sono bravi. Il tennis è un loro bisogno naturale, uno svago del dopo scuola, nulla di più a questa età. Loro vanno a scuola, fanno i compiti, devono studiare e dopo per rilassarsi e divertirsi vanno a giocare a tennis. Questo è quello che deve succedere con i ragazzi della loro età”.
Nessun problema quindi nel rapporto con la scuola?
“La scuola va benissimo, i miei figli hanno entrambi ottimi voti, sanno che è chiaramente la loro priorità. Il rapporto con gli insegnanti e con i compagni è ottimo, e c’è piena collaborazione nei casi in cui hanno fatto qualche giorno di assenza per partecipare ai tornei. La scuola è una grande soddisfazione per loro e anche per noi genitori”.
Ripercorriamo l’esperienza al Lemon Bowl. Al di là della vittoria di Yannick, come vi siete trovati e come giudichi un torneo del genere, con tantissimi bimbi provenienti da ogni parte di Italia?
“E’ la terza volta che andiamo e i miei figli adorano il Lemon Bowl. E’ nel periodo delle vacanze di Natale e ogni tanto pensiamo di andare magari in Spagna dai nonni ma i ragazzi, che pure adorano i nonni materni, non ne vogliono sapere perché il Lemon Bowl è veramente un appuntamento per loro irrinunciabile. E’ una grande festa, una grande kermesse dove conoscono nuovi amici, ritrovano quelli dello scorso anno. E’ tutto organizzato molto bene, si gioca tanto ma in modo ordinato e preciso, è veramente un’esperienza bella e gratificante e l’ho sempre detto indipendentemente dalla vittoria di Yannick. Ayline quest’anno era veramente dispiaciuta perché non ha potuto giocare, però era presente lo stesso e si è divertita a girare tra i campi ed è stata felice di ritrovare le sue amiche degli anni precedenti”.
L’entusiasmo vi ha permesso di vincere anche i problemi del freddo e delle condizioni atmosferiche molto critiche quest’anno…
“Ma sì, i ragazzi si devono abituare a giocare in tutte le condizioni, ci può sempre essere freddo o vento, è una esperienza anche quella. Poi non capisco i genitori o gli allenatori che dicono che questi tornei non servono a nulla. Serve a farli a giocare con altri bimbi, a farli adattare a campi e a condizioni atmosferiche diverse, serve a farli divertire e conoscere nuovi amici, non capisco davvero chi dice che tutto questo sia poco”.
Adesso sono in programma altri tornei in giro per l’Italia oppure aspettate la fine della scuola?
“Faremo i tornei macroarea nella nostra regione e poi tutte le tappe dei “Kinder”. I miei figli adorano anche il Kinder che ha molti aspetti del Lemon Bowl, anche se distribuito in diverse tappe nell’arco della stagione. Yannick ha anche vinto la finale del Master Kinder a Roma al Foro Italico ed è stata una grande soddisfazione per lui. Poi capiteranno altri tornei locali: Yannick ha giocato recentemente nel “Targa Umbra”, una competizione a squadre organizzata dalla FIT nella regione. Poi a luglio andremo in Spegna a trovare i nonni e giocheranno a Valencia alcuni tornei. Ayline, sperando che si riprenda bene dall’infortunio, potrebbe anche fare qualcosa a livello internazionale tra le under 12″.
E’ giusto avere prudenza, ma in un cassettino dei tuoi pensieri sono convinto che la speranza che i tuoi figli possano diventare tennisti professionisti sia sempre presente, sbaglio?
“Io ti direi una bugia se negassi che ci penso spesso al fatto che potrebbero diventare tennisti professionisti. Io alla loro età per potermi realizzare nella vita avevo a disposizione solo lo studio. I miei figli hanno principalmente lo studio, ma anche il tennis. Finché si divertono e non lo vivono come un peso è giusto che provino ad andare il più avanti possibile”.
Yannick ascolta distrattamente, è impegnato a recuperare i compiti persi in una giornata di scuola in cui era ammalato, non sembra tanto interessato all’intervista, ma non ha dubbi quando gli chiedo di dirmi il suo tennista preferito e il torneo che più gli piace: Rafa Nafal e il Roland Garros. Augurargli di diventare come Nadal forse è troppo, però molto volentieri gli auguriamo di arrivare a giocare in quel di Parigi.
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