Quando nel 1981 Nick Bollettieri ebbe l’idea di aprire la sua Accademia non poteva sapere che da lì a qualche anno avrebbe ospitato un giovane ragazzo italiano con una voglia matta di imparare e con una enorme capacità, direi naturale, di insegnare. Questo ragazzo, che pian piano stava diventando uomo e che risponde al nome di Umberto Rianna, avrebbe collaborato con lui per tre anni, diventando un coach di grande livello a Bradenton e quindi in Italia. Rianna, pur essendo ancora giovanissimo, classe ’69, ha già fatto la storia del nostro tennis contemporaneo, avendo allenato moltissimi dei più forti giocatori azzurri come Potito Starace o Simone Bolelli, cresciuto molto sotto le sue cure (con il supporto importante di Petrazzuolo), come anche il belga Xavier Malisse, senza dimenticare che ai tempi della Florida sotto le sue mani è passato Tommy Haas, ancora ragazzino. Ai tempi del Blue Team di Arezzo, quando allenava Starace, aveva creato una squadra vincente, con Bracciali e Luzzi tra gli altri, creando una accademia (grazie anche agli sforzi delll’avvocato Tenti) che avrebbe fatto scuola per gli anni a venire. Il segreto sta in una parola: lavoro. Rianna non lo dice, ma uno dei suoi punti di forza è anche una sensibilità speciale e una grande capacità comunicativa, che lo rende credibile agli occhi dei ragazzi. Vederlo ai tornei è uno spettacolo, sa essere cordiale con tutti, con gli organizzatori dei tornei, con i ragazzi della transportation, con gli appassionati, per tutti ha una parola. Poi quando è ora di allenarsi con i ragazzi è lì a cercare la massima intensità e concentrazione possibile, e quando si entra in campo per la prestazione in gara, la sua energia arriva agli atleti, oltre ai suoi preziosi consigli. Ora Umberto è il responsabile del progetto Over 18 della FIT, nato affinché non si disperda il talento dei ragazzi nel passaggio da Junior a Pro, un crocevia assai complicato che richiede moltissima attenzione agli aspetti motivazionali e psicologici oltre che ad un allenamento mirato. E chi meglio di Rianna per far crescere ragazzi come Quinzi, Donati, Sonego, Mager, Eremin che hanno così tanto bisogno di un continuo supporto? Rianna ha applicato una filosofia cara al vecchio Bollettieri: unire i migliori e farli allenare assieme perché si spronino l’un l’altro, si confrontino.
Partiamo dall’inizio: sappiamo che ti sei avvicinato al tennis grazie ad un amico, è così?
“Il mio amico si chiama Peppe Nuzzo e abitava vicino al Parco Pezzillo a Caserta, dove sono nato, e nella comitiva in Parrocchia si giocava su campi che erano tutto un programma: neri come l’autostrada. In realtà un giorno organizzarono un torneo e io superai un ragazzo forte, per cui con quello che storicamente è il mio primo Maestro, Massimo Fusco, decidemmo di andare avanti a divertirci e siccome ho avuto uno sviluppo precoce, ero alto e buono fisicamente, riuscii anche a battere ragazzi molto in gamba ai tempi dell’U12 e dell’U14, come Galoppini, Nargiso, lo stesso Caratti. Però io in realtà mi dedicavo maggiormente allo studio, facevo il Liceo Classico, non mi allenavo tanto per cui a 18 anni ho smesso di giocare. Mi sono iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza e ho fatto il militare nella compagnia Atleti grazie alla classifica di B3 che avevo conseguito”.
Subito dopo però ti sei concentrato sull’insegnamento del tennis…
“Si, ma è stata una scelta quasi casuale, anche se in realtà la passione e la spinta per insegnare ce l’ho avuta sempre, e me ne sono reso conto fin da ragazzo. Però non avevo le idee così chiare. La storia è questa: un giorno venne Nick Bollettieri a Capri, per una ‘tennis clinic’, e fu ospitato dalla famiglia Staiano, con la quale Bollettieri aveva un rapporto speciale. Giacomo, il figlio degli Staiano, era un buon giocatore di tennis e Bollettieri gli offrì una borsa di studio presso la sua Accademia a Bradenton. Jack (Giacomo, ndr) mi chiese di andare con lui e io non ci pensai due volte perché gli States erano il mio sogno da bambino. Il bello è che lui ha resistito 3 mesi, io sono rimasto lì 3 anni”.
Cosa hai imparato a Bradenton?
“E’ stata una palestra di vita incredibile, professionale sì, ma anche personale e umana. Pensa ad un ragazzo che veniva da Caserta, legato alla famiglia, con abitudini consolidate. I primi tempi non sono stati rose e fiori e non nego di aver pensato più volte di tornare indietro”.
Come era Nick come “capo”?
“Durissimo, anche se sono state raccontate tante storie, anche di fantasia, ti confermo che lavorare con Bollettieri significava non avere “pause”. Non era cattivo, chiedeva molto a tutti perché pretendeva tantissimo anche da se stesso. Un giorno non mi mandò nemmeno al bagno, potevo aspettare, mi disse. Io lo capivo e lo rispettavo, lo apprezzavo pure proprio per questa coerenza. Non era il tipo che ti diceva di fare una cosa ma lui ne faceva un’altra. E’ stata una palestra così importante che quel bagaglio di esperienza me lo porto ancora appresso e quanto mi è stato utile!”
Che ricordi hai di Tommy Haas e di Anna Kournikova, che si allenavano a Bradenton in quegli anni?
“Sì, con Tommy ho condiviso anche il “dormitorio”, la grandezza di Bollettieri stava davvero nei particolari come dimostra l’approccio che aveva con Tommy: nonostante avesse percepito la forza di Haas, da una parte cercava di tenerlo umile, dall’altra lo affidava a cure particolari dei coach, tra i quali c’ero anche io. Ho allenato anche la Kournikova in quel periodo: aveva talento ma a un certo punto le si sono spostati gli obiettivi: all’inizio della sua avventura a Bradenton la russa voleva fortemente diventare la numero 1, pensa che si allenava con Haas e voleva batterlo, era disposta ad ogni sforzo, poi mano a mano questo fuoco si è spento. Inoltre non aveva grande pesantezza di palla, avrebbe dovuto lavorare ancora molto e avendo perso quella “fame” incredibile man mano è andata perdendo motivazioni”.
Cosa non ti piaceva del lavoro forense?
“Non era esattamente la materia che faceva per me, non mi ispirava l’idea di lavorare al chiuso, in cuor mio avevo già intuito che la mia vita sarebbe stata questa, sebbene non potessi sapere cosa il destino avesse in serbo per me. Cambierei il mio lavoro solo per fare il musicista, adoro le chitarre”.
Qual è la differenza principale tra italiani e statunitensi?
“La mentalità. Gli americani sono molto più diretti e semplici. Il loro schema di pensiero è basico. E nelle espressioni non sono artefatti. Sul lavoro preferisco la mentalità yankee, si approcciano con più serenità alle cose, sono meno sentimentali, meno legati agli affetti, questo può essere un vantaggio per molti frangenti del lavoro, magari sul piano personale un po’ meno. E comunque sono abituati a pensare positivo”.
E’ vero che il tennis è uno sport da ricchi?
“Purtroppo sì, non si può negare. Se i ragazzi non fossero aiutati dalla Federazione come potrebbero permettersi tutto questo? E quelli che non hanno la famiglia alle spalle o le federazioni che li aiutano finiscono per non farcela, o comunque questo è il rischio”.
Torniamo alla tua carriera da coach, nel 2005 apre il Blue Team…
“Nasce tutto dalla intuizione e dall’iniziativa dell’avv. Tenti di Arezzo al quale sono legatissimo, e al quale riconosco il merito di aver creduto in un progetto che all’epoca era davvero innovativo. Al CT Arezzo con investimenti, pazienza e capacità si è creò qualcosa di davvero interessante e che sarebbe diventato un punto di riferimento per le Accademie future anche in Italia. C’era tutto a disposizione dei ragazzi: fisioterapista, equipe medica, tre preparatori atletici di livello, cinque maestri, mental coach e cura degli aspetti manageriali. Mettemmo i ragazzi nella migliore condizione possibile per esprimere le loro capacità”.
All’epoca il tennista del Blue Team ad arrivare più in alto fu Potito Starace…
“Con “Poto” sono diventato coach. Posso dire che Starace è la mia carriera, o comunque una buona parte. Lui talento ne aveva da vendere, è bastato metterlo in condizione di poter dare il massimo, la mia bravura è stata quella. Nel 2004 arrivò la striscia pazzesca che ci diede la certezza che stavamo lavorando bene: tre Challenger vinti (Sanremo, Sassuolo, San Marino) e in mezzo terzo turno al Roland Garros perdendo 7-5 al quinto da Marat Safin, il tutto partendo dalle qualificazioni. Quell’anno fu un trionfo, qualificazioni raggiunte a Wimbledon, semifinale a Gstaad perdendo solo da sua maestà Roger Federer 6-3 al terzo set. Potito è un ragazzo con una viva intelligenza, ha senso pratico e sono sicuro che qualsiasi attività dovesse intraprendere in futuro gli riuscirà sicuramente, così come gli è riuscito di diventare un tennista di altissimo livello”.
Come definiresti Starace in due parole?
“La fantasia al potere. Una fantasia abbinata a doti tecniche e caratteriali notevoli. Tieni presente che Poto ha dovuto convivere con una artrite congenita, molto invalidante. Per questo faticava anche a giocare sul cemento. Io influii su di lui proprio mettendogli a disposizione tutte le risorse di cui aveva bisogno, uno staff di livello, una presenza continua e un’organizzazione positiva”.
Parliamo di Daniele Bracciali…
“Beh, anche lui ha dato il massimo. Nel Blue Team era uno dei punti di forza, un talento eccezionale. Forse è partito con la convinzione in se stesso troppo tardi, era un po’ timoroso. Ti posso dire che con noi è cresciuto tanto, lo ha detto lui stesso”.
Non possiamo non citare il compianto Federico Luzzi…
“Fede era un ragazzo eccessivo, nel bene e nel male. Era un ragazzo mai banale, aveva una energia incredibile di natura, ha lasciato un ricordo pazzesco in tutti noi.”
Hai allenato anche Diego Nargiso, vero?
“Sì, ho allenato Nargiso, sicuramente uno dei ragazzi più talentuosi che ho avuto occasione di guidare, chiaramente lui era già in una fase della carriera un po’ avanzata, aveva 28 anni, e c’è un po’ il rammarico di non averlo avuto prima, magari con l’esperienza che ho adesso, visto che era il ’98.”
Ti viene in mente un tennista che aveva qualità indiscutibili ma non è esploso?
“Xavier Malisse era un talento formidabile, un vero fenomeno, ma non si allenava da professionista. A volte i belgi sono un po’ pigri e lui lo era. Era genio e sregolatezza, io l’ho avuto un anno e mezzo con me, aveva 18 anni.”
Poi hai lavorato con Simone Bolelli…
“Sì, ad un certo punto lavoravo con gli under 14 a Tirrenia, avevo un contratto di 20 settimane, e si è presentata l’occasione di allenare Bolelli. L’ho preso che era 140 del mondo ed è tornato nei top 60 Ma non è solo una questione di classifica, sono fiero che avesse trovato tante motivazioni. Quando poi è tornato dopo l’infortunio l’ho seguito attraverso la Federazione”.
Su che cosa hai lavorato in particolare con Bolelli?
“Tecnicamente la risposta al servizio. Ma il lavoro più delicato è stato fargli capire, metabolizzare l’idea, che il suo gioco doveva partire dall’aspetto agonistico, e non da quello tecnico o tattico. Prima c’è l’agonista, la lotta, la voglia di vincere a tutti i costi, poi su queste motivazioni si costruisce il gioco, con i colpi e tutto il resto. Purtroppo anche per lui qualche infortunio è stato limitante.”
Ed eccoci al Progetto Over 18…
“La Federazione mette a disposizione tutto ciò che serve, a cominciare da Tirrenia dove c’è davvero ogni cosa, non manca nulla. L’organizzazione è eccellente, non c’è che dire. E aggiungiamoci le tante wild card che la federazione mette a disposizione per far fare esperienza a questi ragazzi”.
Come sono organizzati precisamente i gruppi di lavoro?
“L’ottica è quella di dare il massimo contributo ai ragazzi, le massime risorse possibili. Ci sono dei mini gruppi da 2 ragazzi, con un tecnico e un preparatore atletico. Gabrio Castrichella segue Andrea Pellegrino e Gianluca Mager. Poi vedremo, perché i gruppi sono abbastanza eterogenei, vediamo se faranno gli stessi tornei, il loro ranking, le loro esigenze. E’ tutto fatto con l’obiettivo di crescita, non ci facciamo condizionare da politiche di raggiungimento di classifica, ma cerchiamo di lavorare affinché il loro livello sia ottimale. Certo se poi scalano il ranking mica ci dispiace. Riccardo Rosolin segue Enrico Dalla Valle e Samuele Ramazzotti. Berrettini e Sonego hanno il sottoscritto e Filippo Volandri. Infine a Tomas Tenconi sono affidati Corrado Summaria e Andres Ciurletti. E ti ribadisco che i gruppi possono anche variare nel caso le situazioni rendano preferibile un cambiamento”.
Filippo Volandri si è inserito bene nel gruppo di lavoro…
“Benissimo. Ha un entusiasmo eccezionale, tanta voglia di lavorare, i ragazzi li conosce bene, e ha la giusta sensibilità per saperli approcciare. Una grande esperienza, un bel valore aggiunto”.
Cosa rispondi a chi critica Tirrenia, dicendo che non escono campioni?
“C’è un malinteso di fondo: le Federazioni non fanno i campioni, le Federazioni mettono a disposizione le risorse. E mi pare che la FIT lo stia facendo. Poi ci vuole una parola chiave: pazienza. Pazienza non significa aspettare all’infinito, ma saper cogliere i progressi dei ragazzi, capire il loro progetto di crescita. La bacchetta magica non ce l’ha nessuno e i progressi dei nostri sono evidenti. Alcuni non avevano esperienze pregresse, altri ne avevano troppe, per cui con qualche scoria addosso, qualcuno voleva addirittura smettere, e invece mi pare che grazie al lavoro di tutti ci sono buoni segnali di crescita, no?”.
Veniamo ai singoli: partiamo da Lorenzo Sonego…
“Lorenzo è un caso anomalo, non ha in pratica percorso da Junior e quindi diamo merito al ragazzo di aver recuperato il terreno perduto in passato. Quello che piace è che si esprime sempre al massimo, sicuramente è un buon fighter, ha sempre un ottimo agonismo. Il fatto che sia tra i top 300 è già tanto. Tecnicamente deve lavorare molto, in particolare nella risposta al servizio.”
Gianluca Mager…
“Alti e bassi, è anche qualcosa che gli deriva dal suo carattere. Gli farà bene trovare un equilibrio emotivo, è un tipico esempio di come il carattere, la vita fuori da racchette e palline, finisce con l’integrarsi col tennis giocato. Quindi più equilibrio significherebbe miglioramenti, oltre ovviamente al lavoro su tutta la parte tennistica”.
Andrea Pellegrino…
“Andrea è un ragazzo ancora in formazione. Ha 19 anni. Per alcuni versi è già un ragazzo maturo, per altri ancora non sufficientemente. Vorrebbe vedere miglioramenti continui da un giorno all’altro, e deve essere lui paziente per primo. Le migliorie nel suo gioco già ci sono, ora deve impegnarsi per curare i dettagli. Il colpo naturale è senza dubbio il rovescio.”
Matteo Donati…
“Il ragazzo è estremamente in gamba. Il prossimo anno potrebbe essere l’anno della verità, questo appena passato è stato troppo travagliato a causa di numerosi stop per infortunio. E’ mancata continuità eppure i risultati sono stati discreti. E’ un buon segnale.”
Stefano Napolitano…
“Stefano è il migliore esempio di come il lavoro programmato dia i suoi frutti. Si allena con costanza perseguendo obiettivi chiari e specifici, non mette in dubbio quello che fa e sta crescendo tanto. Ha un timing pazzesco, una risposta al servizio davvero buona. E nel corso del tempo ha costruito una sua fisionomia di gioco, sa cosa fare e quando.”
Gianluigi Quinzi… con una domanda aggiuntiva: perché è finita con Giancarlo Petrazzuolo?
“Con Petrazzuolo è durata pochissimo, troppo poco perché si conoscessero a fondo. Con il nuovo coach che lo segue da qualche mese, l’austriaco Ronnie Leitgeb, sembra sia scattato un buon feeling, e anche per lui, come per Donati sarà indicativo il 2017. Mi spiego meglio: Leitgeb è arrivato da relativamente poco tempo, a stagione già iniziata. Cosa poteva fare? Solo lavorare su qualche piccolo dettaglio, e magari sul piano psicologico e motivazionale. Ora con la preparazione invernale si giocherà la sue carte, provando a migliorare tutti gli aspetti per il 2017.”
Edoardo Eremin…
“Dodo ha bisogno di una ricerca interiore, per rendersi conto di quanto vuole davvero esplodere finalmente. Le doti le ha, sia fisiche che tecniche. In realtà è abbastanza completo, ma per emergere ancora di più deve migliorare su tutti gli aspetti. Migliorare le percentuali di prime di servizio ad esempio, con la potenza che esprime il suo corpo deve rendere la battuta un’arma implacabile. Fisicamente deve stare sempre al top della forma, per lui è ancora più importante che per altri.”
Matteo Berrettini si è messo in grande evidenza nei challenger di brescia Andria…
“Matteo ha una grande qualità: la testa. E’ un ragazzo con una bella testa su spalle ben quadrate, e proprio per questo ha saputo così bene recuperare da vari infortuni che ha avuto in passato. Ora che i problemi fisici sono superati può esplodere definitivamente. Matteo è un misto di Starace e Bolelli, anche Fognini per alcune cose, è un mix davvero moderno”.
Perché tutti (o quasi) soffrono il passaggio da Junior a Pro?
“Perché ci sono dei malintesi sulle fondamenta della formazione. Non si capiscono le priorità, e si portano ragazzi al passaggio tra i pro con troppe lacune.”
Quanto contano in percentuale i seguenti aspetti: tecnico, tattico, atletico e mentale?
“Oggi non puoi fare a meno di essere al top in ciascuno di essi. Non è corretto dare delle percentuali. Un giorno puoi avere bisogno di un agonismo esasperato e quindi tanta solidità mentale, un altro può servirti avere un piano tattico coerente da seguire, e tecnicamente non puoi avere lacune. Se vuoi emergere anche l’aspetto atletico è ormai la base. Nel circuito devi essere al 100%”.
Tema scomodo 1: Doping.
“Voglio pensare che non ci sia. Ti rispondo così”.
Tema scomodo 2: Scommesse.
“I ragazzi sono troppo esposti, troppo vulnerabili. Però aggiungiamoci che le scommesse possono essere anche il male dello sport.”
Ma tu le aboliresti?
“Impossibile.”
Qual è il viaggio più bello che hai fatto e perché?
“In Australia senza dubbio. E’ un incubo arrivarci, d’accordo, ed è lontana, ma mi piace tutto del’Australia: la gente, la mentalità. L’Australia è tutto ciò che c’è negli Usa ma nei suoi aspetti maggiormente positivi”.
Quale posto senti come casa tua?
“Da settembre vivo a Tirrenia, ho preso una casa in affitto lì. Prima ero ad Arezzo. Quando era in vita mia mamma sentivo Caserta come casa, adesso è cambiato tutto. Casa mia era mia mamma”:
La tua vita sentimentale?
“Non è facile proprio per chi fa questo mestiere avere un rapporto sentimentale stabile, trovare gli equilibri per una relazione quando sei via tante settimane. E’ davvero complicato”.
Torniamo al tennis, come si gestiscono i 30 secondi tra un 15 e l’altro?
“La cosa migliore è darsi dei rituali da seguire. Così facendo si riesce a mantenere la mente più sgombra dai mille fantasmi che spesso ingombrano la psiche dei tennisti durante la performance. A volte però alcuni ragazzi, presi dal punteggio, o rapiti da situazioni varie, finiscono col dimenticarsi di seguirli. E’ importante in quei 30 secondi attivarsi per recuperare fisicamente, quindi respirare come si deve, e fare visualizzazione, anche sulla scelta tattica nel punto successivo. Ai cambi di campo bisogna seguire la stessa regola”.
Qual è il torneo che ti affascina di più e perché?
“Beh di tornei belli e affascinanti ce ne sono tanti, la Coppa Davis onestamente ha un sapore speciale. Portare dei ragazzi a giocare la Davis sarebbe già una grande soddisfazione.”
Facciamo un gioco: indovina il prossimo numero 1 dopo i fab four.
“Uno tra Raonic, Thiem o Zverev. Ma ho già sbagliato in passato quando avevo pronosticato Dimitrov come futuro number one.”
Quale sarà il prototipo del giocatore tipo per il futuro?
“L’evoluzione che c’è stata nel gioco può far pensare ad una sola cosa: la discriminante potrà essere, anzi sarà, la struttura morfologica. Basta vedere quanto sono alti in media i top 100. Altezza e grosse qualità atletiche, come forza, resistenza, agilità, saranno decisive. Non ci sarà posto per atleti non completi. Il servizio assumerà un’importanza sempre maggiore, e certo è che servire dall’alto è un vantaggio non indifferente. In più il circuito presenta appuntamenti sempre più fitti, quindi la capacità di recupero diventerà decisiva per rendere al meglio.”