Reality Tennis


di Andrea Villa
La stagione è iniziata come al solito. Quasi nulla sembra cambiare anno dopo anno, come un replay continuo, un cristallizzarsi lontano da qualsiasi cambiamento. I provini sono il momento più curioso, quello in cui si capiscono molte cose, uno specchio bizzarro dove viene riflessa la struttura della scuola di tennis. Ormai tutto sembra assomigliare ad un reality, con la giuria dei maestri pronta a giudicare, ad accontentare sempre, mai a bocciare, allontanare, far desistere il candidato. Chiunque trova un gruppo adatto, un orario in cui infilare l’ennesimo impegno sportivo, dove soddisfare le proprie motivazioni.
Bisogna prendere il maggior numero di iscrizioni, allungarsi verso un nuovo record, riempire la cassa, il resto arriverà se non verrà lasciato inopinatamente in secondo piano.
I genitori fibrillano, osservano il futuro campioncino, già sapendo cosa desiderano, come dovrà essere allenato, quali obiettivi inseguirà con o senza l’avvallo dell’insegnante.
A volte mi chiedo a cosa serva il maestro. Attenzione non sono alla ricerca di una qualsivoglia colpevolezza, padre e madre hanno sempre il diritto di pretendere il meglio per i loro pargoli, forse la maggior parte ha perso il senso della realtà.
Sembrano tutti super dotati. In grado di imparare bene e in fretta, smaniosi di affiancare il successo tennistico a quello scolastico, dove naturalmente emergono in maniera brillante.
A nessuno interessa la verità, professionisti della racchetta compresi. Nessuno vuole sottoporsi ad una sana gavetta, ad un percorso duro e lungo: dimostrare quanto si vale è esercizio lasciato alle generazioni del passato.
Ricordo il mio provino nel 1982: oggi lavoro con il maestro che me lo fece oltre trenta anni fa. Ricordo anche quelli di altri bambini, che sarebbero diventati compagni di tornei, e avversari di partite memorabili. Nessuno osava sindacare il giudizio del maestro, che quasi sempre inseriva i nuovi allievi un gruppo sotto il proprio livello: se avevi qualche qualità era l’occasione per tirarla fuori. L’agonistica era un miraggio, per entrare bisognava battere i migliori ragazzi della propria età, una vera impresa, visto come giocavano! L’unica concessione che veniva fatta alle seconde linee, era quella di fare la preparazione atletica con loro, un’ora e trenta minuti molto duri due volte alle settimana.
Oggi abbondano le accademie, i programmi personalizzati, i coach privati, i genitori pronti ad allenare i figli: senza dimenticare i tornei per neonati, e quelli per embrioni che presto saranno approntati. Provocazioni a parte, il ruolo delle scuole tennis è sempre più marginale, ridotte ad un contenitore economico e ludico, invece di essere un importante punto di riferimento tecnico e meritocratico. Non capisco perché sia così difficile farlo.
Persino la cosiddetta parte complementare in alcune grandi strutture è facoltativa, oppure non c’è per chi frequenta un corso mono settimanale: un errore gravissimo, visto come sono deboli dal punto di vista motorio i bambini che si avvicinano al tennis.
Ecco perché non sono critico con le iniziative individuali dei genitori, anzi le osservo con curiosità per comprendere se possono essere una strada veramente alternativa, e non appena un progetto fanatico. Ha ragione chi esige dalla scuole tennis massima professionalità, è corretto pretenderlo da qualsiasi categoria lavorativa, maestri di tennis e preparatori atletici compresi. Ho l’impressione che rispetto al passato sia andata perduta la severità che contraddistingueva i migliori insegnanti, meno preoccupati dell’incasso e più attenti all’insegnamento nudo e crudo.
Eppure mentre provo alcuni nuovi allievi resto di stucco, sentendo cosa hanno da dirmi, quando chiedo come mai hanno deciso di cambiare scuola tennis. Nonostante una buona impostazione giudicano il lavoro del maestro abbandonato insufficiente, senza specificare con chiarezza i motivi. Oppure adducono mancate motivazioni da parte di chi li ha seguiti sul campo, più preoccupati di stare al telefono che di farli migliorare. Non mancano i gruppi formati male, insieme alla provenienza da altri sport, magari stufi di restare in panchina a guardare i compagni che giocano. Sorrido davanti alla cultura degli alibi italiana, di fronte alla mancanza di argomentazioni di spessore, e penso a quei genitori che invece tentano di tracciare una strada felice per i propri figli lontana da questi banali ragionamenti.
Resto dubbioso. Schiacciato tra bizzarre richieste, strampalate consapevolezze, e l’impossibilità di dire la verità, soltanto la verità, come senza problemi disse il maestro Mario a mia mamma, quel lontano pomeriggio. Forse sono all’antica, rimasto indietro di trent’anni, ma ai ragazzi che alleno perdono poco o nulla: quello che desiderano devono meritarlo.
Nel fallimento tutte le componenti sono complici, è innegabile. Non c’è sistema che possa funzionare senza meritocrazia e trasparenza. Lo sport è fatto da predisposizione, motivazione, preparazione e risultati: il resto sono soltanto chiacchiere. È altrettanto vero che non possiamo pretendere di fare campioni da chi vuole soltanto passare in allegria un’ora sul campo da tennis, tuttavia tutti hanno il diritto di imparare secondo una metodologia chiara, inseriti nel contesto giusto, con compagni di pari aspettative.
Altrimenti tutto si trasforma in un reality, una copia sbiadita della realtà, dove il valore si confonde con il prezzo, in cui il pressapochismo diventa certezza, e la verità un vezzo di pochi.

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