Di Paolo Angella
Nicola Ceragioli è uno dei più validi tecnici nazionali. Ha lavorato in giro per il mondo per oltre un decennio seguendo i migliori talenti del tennis italiano. La prima tennista di valore seguita è stata Verdiana Verardi. Ha iniziato con un giovane e promettente Andrea Arnaboldi, portandolo in Spagna nel gruppo di lavoro che seguiva anche Sara Errani, è passato a collaborare con Massimo Sartori a Caldaro, dove ha lavorato con Andreas Seppi, Karin Knapp e Simone Vagnozzi. Poi è diventato l’allenatore di quella che sembrava essere la più grande promessa del tennis italiano, Gianluigi Quinzi. Dopo un anno si è interrotta la collaborazione e, dopo una parentesi assieme al gruppo di Renzo Furlan, periodo nel quale ha seguito, tra gli altri, Federico Gaio e Alessandro Giannessi, ora ha deciso di smettere di girare il mondo e si è stabilizzato a Poggibonsi, in Toscana, dove dirige la scuola tennis del locale circolo, occupandosi soprattutto di alcuni giovani agonisti, ma da maestro, non più da coach che li segue in giro per il mondo.
Incontriamo Nicola Ceragioli per ripercorrere la sua carriera e soprattutto per cercare di capire assieme a lui quale sia il momento attuale del tennis italiano.
Nicola, orami hai deciso definitivamente di chiudere la tua vita da “giramondo” e di fare esclusivamente il maestro di circolo?
Sì, è stata una scelta prima di tutto familiare. Ho deciso che era il momento di diventare papà e non sarebbe stato giusto per mio figlio avere un genitore che torna a casa tre giorni al mese. Fare il coach in giro per il mondo è bello, ma molto faticoso e soprattutto ti tiene lontano da tutti i rapporti sociali e familiari. Statisticamente gli allenatori che girano per tornei non hanno famiglie “stabili”. Io ho fatto una scelta pensando prima di tutto alla mia famiglia e a mio figlio in particolare. Ci siamo stabiliti qua in Toscana a Poggibonsi, dove fra l’altro, c’è veramente un ambiente sano ed è un posto piacevole in cui vivere. Anche dal punto di vista economico, a meno che non alleni un top player, non ti credere che si guadagni di più girando il mondo assieme al tennista, anzi, tutt’altro, meglio le entrate certe che ho ora di quello che ho avuto per molti anni. Per ora sono molto molto contento della decisione che ho preso, poi non si sa mai nella vita, quando mio figlio sarà grande non è detto che possa riprendere a girare un po’, magari con i ragazzi che sto allenando ora, per adesso va benissimo così.
Raccontaci quindi quello che fai a Poggibonsi.
Abbiamo una scuola tennis ben avviata con tanti ragazzi e ragazze che fanno under 12, under 14 e anche under 16. Alcuni sono bravini e hanno velleità professionistiche, altri lo fanno per divertimento e basta, l’importante è che tutti si trovino bene, in un ambiente sano e piacevole. Mi pare che stiamo riuscendo in questo intento.
Non rimpiangi nemmeno un po’ quello che hai fatto per tanti anni, il poter lavorare con tennisti importanti e stargli accanto nei tornei?
Sono lavori diversi, quello del maestro, dell’insegnante che deve far crescere e plasmare il gioco dell’allievo, da quello del coach che lo deve guidare nel momento del torneo. Io, in realtà, mi sono sempre sentito un insegnante, ho sempre preferito aiutare i miei allievi a trovare il proprio gioco, a creare un tipo di gioco, diverso da ragazzo a ragazzo. Il ruolo del coach è un altro, l’ho fatto con molto impegno ma non mi ha mai entusiasmato più di tanto. Per questo non ho grandi rimpianti e comunque sono assolutamente soddisfatto sia umanamente che professionalmente di quello che sto facendo ora.
Quindi anche i ragazzini che stai seguendo ora sei convinto di “lasciarli” andare con un coach professionista qualora diventassero molto bravi?
Certo, sta già succedendo. Ho un paio di allievi promettenti che hanno manifestato l’intenzione di provare a fare qualcosa di più specifico per entrare nel professionismo, uno dei due l’ho invitato ad andare a Barcellona, in una struttura che conosco molto bene e che penso possa essere di notevole aiuto per lui, visto che necessita anche di fare attività fisica molto mirata e qua non ne abbiamo le condizioni. Io sono il primo a capire quando la mia attività debba finire e quando sia necessario un passo ulteriore per il mio allievo che deve essere necessariamente in altri luoghi e con altre persone.
Tra i tanti campioni che hai allenato, c’è qualcuno che ti è rimasto impresso più di altri, sia dal punto di vista tecnico che umano?
Mi sono trovato bene con tanti, se proprio devo fare un nome, non ho dubbi e ti dico Gianluigi Quinzi. E’ un ragazzo davvero eccezionale, una disponibilità straordinaria, sempre pronto a fare tutto quello che gli veniva detto e fatto fare. Un ragazzo semplice e gentilissimo, ho davvero un buon ricordo di lui anche se poi non siamo riusciti ad aiutarlo tecnicamente come tutti speravamo. Poi anche altri ovviamente, ogni tanto mi chiamano alcuni tennisti che ho seguito, che magari nel frattempo sono diventati loro stessi allenatori, per chiedere qualche consiglio. Mi fa molto piacere, vuol dire che qualche segno positivo l’ho lasciato.
A proposito di Quinzi, come mai non è ancora esploso a livello ATP secondo te? Sarà sempre un’eterna promessa o è ancora presto e bisogna aver pazienza per vederlo tra i top player?
I motivi per cui non è ancora arrivato ad essere un top player per me sono gli stessi che mi hanno indotto autonomamente ad interrompere la collaborazione che avevo con lui, ovvero non c’erano i presupposti per poter crescere in modo graduale. Lui e la sua famiglia avevano aspettative diverse, volevano saltare alcune fasi secondo me essenziali per la sua crescita e allora ho preferito lasciarlo andare per vedere se altri erano in grado di soddisfare le loro esigenze. A scanso di equivoci è bene chiarire che io sono rimasto in ottimi rapporti sia con Gianluigi che con la sua famiglia e sono sempre a loro disposizione se hanno bisogno di qualche consiglio. Io ho comunicato loro la mia decisione di non allenarlo più prima di Natale, ma sono rimasto con lui altri due mesi fino a che non hanno trovato un nuovo allenatore che potesse soddisfarli.
Troppe aspettative dalla sua famiglia o comunque intorno alla sua persona?
No, le aspettative è giusto che ci siano state e che si siano tuttora. Era un ragazzino che da under 12 e under 14 vinceva tutte le partite o quasi. Era giusto sentirgli dire che voleva diventare il numero uno del mondo. Quello che secondo me non era giusto riguardava le aspettative sulla sua crescita. Non si può migliorare da un giorno all’altro, ci vuole pazienza. Io proponevo un percorso di lavoro e di crescita a lungo termine, le persone attorno a lui pretendevano un “tutto e subito” che secondo me non era possibile per lui, come probabilmente per nessun altro ragazzino bravo a giocare a tennis. Il tempo credo mi stia dando ragione, ma io sono comunque il primo ad augurarmi che Quinzi possa diventare il miglior giocatore italiano di sempre, se ci dovesse riuscire ne sarei veramente molto felice.
Secondo te, in generale, quale è lo stato dell’arte delle scuole tennis in Italia? Funzionano bene oppure dovrebbero seguire esempi di altri esempi come in Spagna, dove sono organizzate in modo diverso?
Se devo essere sincero, io sono sempre stato molto critico verso l’organizzazione del percorso che viene proposto ai ragazzi più bravi dalla Federazione. Ho avuto anche una recente discussione con alcuni dirigenti federali che a Tirrenia spiegavano ai migliori allievi italiani in raduno il loro progetto. Io ho ribattuto che i tennisti più bravi da Djokovic, a Federer, a Nadal, a Murrey non hanno fatto un percorso giovanile come quello proposto dalla federazione. Qualcuno mi ha persino chiesto come facessi a saperlo, ma ne sono assolutamente certo avendo lavorato sia con Toni Nadal che con il preparatore atletico di Federer.
Quale è l’errore più grande a tuo avviso?
Sicuramente secondo me si inizia l’attività internazionale troppo presto. Trattiamo i ragazzini di 14 anni come se fossero professionisti. Arrivano a 18 anni con 4 anni di tornei in giro per il mondo che secondo me non aiutano per nulla la loro crescita. Questi sono gli anni più importanti per la formazione tennistica del ragazzo. Se si perde tempo negli aeroporti o in posti sperduti dove magari non ci si può allenare è solo dannoso per il ragazzo. Secondo me la programmazione della maggior parte degli allenatori è totalmente sbagliata. E poi un altro grave errore è che si cerca di affinare la tecnica, ma si perde di vista il gioco, la tattica, l’intensità. Ora nei top 100 ci sono giocatori che valgono molto meno tecnicamente di alcuni nostri che sono cento posti dietro a loro nel ranking, eppure riescono a vincere di più grazie a tanti aspetti del tennis che da noi non vengono curati.
Quindi è inutile secondo te fare molti tornei ETA o ITF Junior?
Dipende dal torneo. Alcuni sono importanti per fare esperienza, per confrontarsi con altri ragazzi di altri paesi, ma personalmente non credo abbia senso farne 15-20 in un anno. Ne bastano pochi, ben selezionati. Credo abbia ancora meno senso andare in posti sperduti per fare tornei di bassissimo livello. I pochi punti che portano nel ranking fare tornei di grado 5 in Iran o in Bahrein non credo che compensino minimamente i soldi spesi per il viaggio e i giorni di allenamenti persi. Secondo me sono davvero soldi e tempo buttati. Torniamo al discorso di prima, i migliori giocatori di tennis hanno ignorato completamente alcuni tipi di tornei junior.
In tanti casi però i vincitori degli Slam Junior poi hanno anche vinto lo Slam da professionista…
I migliori hanno fatto Slam e tornei importanti junior solo perché avevano già gli sponsor che chiedevano di partecipare. Erano già tennisti affermati quando hanno vinto gli Slam da junior. Mi ricordo Djokovic nel 2004 quando ha partecipato agli Australian Open junior, io ero presente. Era già in grado di primeggiare nei challenger, ma ha fatto lo Slam perché era pagato dallo sponsor per farlo. C’era la motivazione economica, ma non tecnica o di crescita.
Gli errori secondo te sono quindi degli allenatori che preferiscono far fare tanta attività internazionale ai propri allievi?
La colpa è certamente nostra, inteso come colpa di quei maestri o allenatori che pensano di valere di più se portano il proprio allievo in capo al mondo a farlo giocare e magari vincere due partite contro ragazzi locali che hanno appena preso la racchetta in mano. Succede spesso che i maestri, certamente stimolati dagli stessi genitori, che poi in fondo sono quelli che ci rimettono i soldi del viaggio, si improvvisano o si credono dei coach portando su un aereo il proprio allievo e facendo vedere che sanno un po’ di inglese per cavarsela in ogni parte del mondo. Con la crescita del tennista però tutto questo non c’entra nulla. Credo che ci sia troppa improvvisazione nel nostro mestiere.
Tu guardi sempre al modello spagnolo come qualcosa a cui attingere?
Le cose stanno cambiando anche da quelle parti in realtà. Fino al 2004-2005, quando io lavoravo a Valencia c’era un tipo di organizzazione eccellente che faceva ogni settimana tornei Open di livello elevatissimo. Si confrontavano tra di loro e non avevano alcuna necessità di viaggiare. Tra l’altro in Spagna praticamente non esistevano tornei Junior o Tennis Europe. Il rovescio della medaglia è che i maestri spagnoli non avevano tanti margini di guadagno. Poi hanno capito che col tennis potevano creare un business, hanno creato le grandi accademie dove far venire tennisti stranieri, si sono fatti tornei ITF con sponsor e grandi partecipazioni, ma la qualità degli insegnanti è decisamente calata. Non mi meraviglierei affatto se nei prossimi anni di spagnoli bravi ce ne saranno pochi.
Concludiamo guardando al nostro tennis. Vedi qualcuno in grado di diventare un top player nei prossimi 3-4 anni, oppure dovremo rassegnarci ad avere anni senza giocatori di livello assoluto?
Se devo essere sincero, a livello femminile mi pare ci sia davvero da mettersi le mani nel capelli e per parecchi anni sarà molto dura. I maschi non è che stiano molto meglio. Forse l’unico che può fare bene è Donati, gli altri della sua annata mi pare ormai siano un po’ fuori dai giochi importanti. Poi bisognerà aspettare gli attuali under 14 che mi pare siano bravini, ma hanno davanti tantissimo per arrivare.
I tempi per “esplodere” però mi pare si stiano allungando, si diventa top player anche avanti negli anni…
Non sono tanto d’accordo. Mi sembra più una scusa per giustificare mancati risultati. Parlando di tennisti italiani sento dare dei “ragazzini” a gente come Giannessi, Arnaboldi o Gaio, che francamente ormai ragazzini non lo sono più da tempo. L’età media qualche anno fa dei primi 100 del mondo era 24 anni. Adesso è vero che si è allungata l’età media dei top 100, ma per il semplice motivo che nelle prime posizioni abbiamo dei fenomeni che stanno continuando su livelli eccellenti. Io resto sempre convinto che il massimo di un tennista sia appunto attorno ai 24 anni, poi deve essere bravo a mantenere quello che ha imparato, ma è molto raro che migliori. Poi ci sono le eccezioni, ma è dura programmare sperando che tutti facciano la carriera di Lorenzi che arriva al best ranking a 31 anni.
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