di Matteo Mosciatti
Nel mondo siamo tanti, ma proprio tanti, noi che giochiamo a tennis. Ad accomunarci la passione, a distinguerci obiettivi e risultati, assurdi ed altalenanti come in nessun altro sport. Le nostre storie (o se preferite “carriere”, che fa più scena) sono soggette a tanti “eventi” degni di nota quante le ore di sofferenza psico-fisica trascorse in quelle arene piene di righe bianche.
Ora, è bene che tutti quelli che vogliano avvicinarsi al tennis o stiano per farlo tengano conto di una regola, forse la più importante: si tratta di uno sport folle che se folle non sei nato, folle ti farà diventare.
Dopo 14 umili anni di esperienza, capisco di potermi definire tale osservando un particolare: ricordo meglio fatti “tennistici” vissuti fuori dal campo che match giocati, e, fidatevi, di partite ne ho vinte tante…e perse ancora di più!
Come quel pomeriggio del Maggio 2005 in cui costrinsi quel santo di mio padre a girare tutti i negozi sportivi di Roma alla ricerca del completino di uno spagnolo pochi anni più grande di me che aveva appena vinto il Roland Garros. O quella volta in cui rischiai di non vedere l’esordio in Champions League della mia squadra del cuore per punizione, vista la racchetta spaccata il giorno precedente.
Poi ci sono le competizione a squadre, quei week-end in cui sai che da un momento all’altro potresti trovarti a dover decidere le sorti dei tuoi compagni davanti ad una tribuna piena che sostiene solo e soltanto te. C’è chi subisce il peso della responsabilità e chi invece tende ad esaltarsi fino a migliorare persino il proprio gioco. Io ho sempre amato queste situazioni pensando alle quali non posso tralasciare un altro aspetto fondamentale del tennis e dello sport in generale: le rivalità/amicizie.
Quando incontri un avversario del tuo livello e magari della tua età, ci metti poco a capire i suoi schemi, i suoi punti di forza e le sue debolezze. La seconda, la terza volta che lo sfidi si tratta quasi solamente di superarlo sotto l’aspetto psicologico, di sconfiggerlo in una lunga partita a scacchi. Così c’è poco da stupirsi se a 9 anni ti giochi la finale di un torneo regionale contro un mancino che corre come un addannato, per poi ritrovartelo di fronte 8 stagioni dopo nel vostro diciottesimo “head to head”, concluso ovviamente 7/5 al terzo.
E poi gli infortuni, le notti passate sui libri, perché in questo sport di garanzie e di successo non ne aveva neanche Roger, gli allenamenti alle 15 anche nelle giornate estive più bollenti, l’emozione nell’aprire i cartoni con i completini nuovi, forte adesso come a 12 anni e soprattutto la consapevolezza che finchè troverai dentro di te quella fiducia di “arrivare” avrai il dovere di rinunciare ai più classici divertimenti adolescenziali.
In tutto ciò, l’approdo alla maggiore età rappresenta una tappa importante, nel tennis come nella vita: quelli che consideravi progetti, sogni e magari obiettivi si avvicinano a quel giovanissimo “apprendista” che sei stato fino ad ora, e rinviare la loro realizzazione non è più possibile. Hai il dovere di intraprendere uno sprint che ti porti al risultato, alla classifica e alla forma massima consentita da ciò di cui ti ha fornito Madre Natura, così da poter dire, se un giorno cederai, “Ho fatto il massimo”. Perché finché rimarrà nelle tue corde, così come nel tuo cuore, quella minima voglia di tirare ancora 4 pallonetti di là, sarà davvero dura lasciarti fuori dal palcoscenico rosso più beffardo del mondo.
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