(Camila Giorgi – Foto Nizegorodcew)
di Roberto Commentucci
Per un fenomeno di nicchia come il tennis, la rivoluzione tecnologica portata dalla diffusione generalizzata della rete internet è stata una autentica benedizione. Grazie alla sterminata galassia di siti istituzionali, livescores, forum di discussione, personal blog (di giornalisti e aspiranti tali, ma anche di atleti, allenatori e semplici appassionati) la mole di informazioni che si può raccogliere in rete sul fenomeno tennis è cresciuta in modo esponenziale. Più di recente, un contribuito decisivo è stato fornito dalla grande diffusione dei social network come Facebook e Twitter, che hanno aperto nuove frontiere alle possibilità di aggregazione e di comunicazione fra gli addetti ai lavori e gli appassionati.
Ormai si può sapere tutto di tutti. Se si sa come e dove cercare, si riesce a conoscere in tempo reale o quasi persino l’esito di un torneo giovanile under 14 giocato dall’altra parte del mondo.
In questo contesto, le giovani speranze, i ragazzi promettenti, vengono inevitabilmente sottoposti ad una pressione mediatica sempre più forte e più precoce. Su Internet si trovano interviste a ragazzini under 14 e ai loro allenatori; si trovano juniores che raccontano i loro match su Facebook; negli interminabili dibattiti sui tanti forum della rete i più appassionati fantasticano sulla prevedibile evoluzione futura della carriera di questo o di quel ragazzino, magari senza averli mai visti giocare: “Eh, Tizio a 15 anni compete già fra gli under 18…” “Vedrai che l’anno prossimo giocherà i futures e i challenger, come facevano Nadal e Djokovic a 16 anni…” … “Si però dai, fino ad ora Tizio chi ha battuto? E’ andato a prendere punti in tornei facili, mentre Sempronio ha una classifica più bassa ma ha giocato con gente molto più tosta. Per me va più lontano…”. E via così, fra speranze e congetture.
Per un paese come il nostro, ormai da molti anni alla ricerca di un grandissimo campione, di quelli che fanno interrompere i telegiornali, questa tendenza è forse ancora più diffusa che altrove.
Se ne è avuta la dimostrazione nelle ultime settimane: mentre la stagione agonistica volge al termine, l’attenzione degli appassionati italiani, degli irriducibili patrioti, di quelli che scrutano i tabelloni dei tornei di mezzo mondo alla ricerca di un azzurrino promettente, è tutta rivolta alle gesta di due minorenni di notevole talento, su cui si appuntano tante speranze: Camila Giorgi da Macerata, classe ’91, n. 229 Wta, e il mancino Gianluigi Quinzi da Cittadella, addirittura un ragazzino del 96, che però al primo anno da under 14 è già nei primi 10 del ranking Tennis Europe di categoria.
Due storie diverse, due percorsi diversi. Camila, che con il papà Sergio ha girato le accademie di tutto il mondo, dalla Florida alla Spagna, da Mouratoglu a Lagardére. Gianluigi che ormai da qualche anno si divide fra l’Academy di Bollettieri a Bradenton e il Circolo paterno di Porto San Giorgio, studiando via Internet.
Camila che gioca un tennis rischiatutto, iper anticipato e iper aggressivo, in cui alterna giocate fantastiche a disperanti serie di errori non forzati. Gianluigi che brilla per completezza tecnica, capacità di verticalizzare il gioco, lucidità tattica e abilità difensiva, anche se manca ancora di un po’ di potenza.
In comune, questi due ragazzi hanno la precoce, precocissima attenzione che i media – anche quelli tradizionali – hanno loro rivolto. Interviste, analisi tecniche, proclami. Sergio Giorgi qualche anno fa all’esordio della figlia al Bonfiglio, in una famosa intervista alla Gazzetta dello Sport assicurò che Camila, fisico impressionante, potenza travolgente, anticipo entusiasmante, ma anche ingenuità tattica commovente, sarebbe diventata in poco tempo la numero uno del mondo.
E anche su Gigi Quinzi, i media ci hanno già raccontato molte cose. Di come a 4 anni, nel corso della manifestazione di promozione “Un campione per amico” fece restare di sasso Adriano Panatta, impegnato in un memorabile palleggio. Di come, a 7 anni, portato dai genitori negli USA, da perfetto sconosciuto, partendo dalle qualificazioni, vinse il prestigioso “Little Mo” il campionato americano under 8 degli Stati Uniti, intitolato alla memoria della compianta Maureen Connolly. Di come da Bollettieri, quando lo videro, gli offrirono di punto in bianco una scholarship gratuita e lo fecero mettere sotto contratto dalla IMG.
Insomma, con due storie così, è difficile pretendere che i media allentino la loro morsa soffocante.
Si discute se questo sia un bene o un male per i ragazzi.
Gli ottimisti ritengono che l’esposizione mediatica precoce sia positiva, perché aiuta a reperire risorse finanziarie dagli sponsor. E i soldi, nel processo di costruzione di un giocatore professionista, sono molto utili, per poter avere uno staff di coach e preparatori atletici di livello, per poter effettuare una programmazione internazionale ambiziosa e mirata alla crescita tecnica e del bagaglio di esperienza.
I critici ribattono invece che stare perennemente sotto le luci dei riflettori, ad una età così verde, quando il carattere non è ancora formato, è fortemente diseducativo e complica notevolmente il compito di tecnici e genitori. Le pressioni rischiano di diventare soffocanti, l’ansia del risultato può soffocare i migliori talenti, portare a stress eccessivo, delusione, nausea, fino all’abbandono precoce, al fallimento totale. E’ successo tante volte, in passato, con tanti ragazzi.
Difficile dire chi ha ragione.
La sensazione, tuttavia, è che la capacità di gestire le pressioni, di restare con i piedi per terra e focalizzati sul risultato, non sia altro che uno dei tanti, tantissimi prerequisiti necessari per emergere ad alto livello nel nostro difficilissimo sport, esattamente come le qualità tecniche e fisiche, come un buon diritto o una buona capacità di coordinazione: tutti i grandi campioni sono diventati tali anche perché hanno saputo resistere all’assalto dei media.
In conclusione, data la fame atavica di grandi personaggi che abbiamo in Italia, specie nel settore maschile, il prossimo campionissimo del nostro tennis dovrà avere le spalle larghe. E magari, terminato l’allenamento, abituarsi a fare un’ora di atletica in più, invece di andare ad accendere il personal computer.
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