di Silvano Papi
Buongiorno a tutti! Sono di ritorno da una operazione al tendine del terzo dito della mano dx al policlinico Tor Vergata di Roma, splendido! Ho avuto qualche giorno per disintossicarmi da internet, dai telegiornali, dai fatti quotidiani…
Ho parlato con gli altri malati, condividendo storie e sofferenze.
Ho atteso le visite delle mie figlie, le telefonate di mia moglie, il passaggio degli infermieri e dei medici, mentre osservavo dal letto il passaggio delle nuvole al di là del vetro.
Dallo stesso e unico punto di osservazione ho ammirato la lenta ed inesorabile costruzione del palazzo dello sport di Calatrava nella nuova città dello sport di Tor Vergata.
Intendiamoci niente di grave, mi hanno ricucito il tendine. Un mese di tutore e un altro di riabilitazione, ma quello che mi ha colpito è stato riscoprire il grande bisogno di affettività che normalmente non trova spazio nelle mie giornate. Mi sono commosso all’improvviso e senza motivo, semplicemente pensando a me, al tempo che passa, ai miei amori.
Ho ascoltato autenticamente le storie degli altri, del mio primo e anziano vicino di letto, 4 operazioni alla gamba sx che non voleva più tornare a casa:
- Mia moglie è morta 7 anni fa, io sono solo. I miei figli lavorano, mica possono prendersi cura di me… Mi faccio ricoverare a Villa Luana lungo degenti…. Lì mi fanno da mangiare e c’è sempre qualcuno per fare due chiacchiere…
Il secondo vicino di letto, miracolato in seguito ad un incidente di moto, completamente immobile dovrà fare un intervento a settimana per ridurre e aggiustare le innumerevoli fratture:
- Sai che te dico? M’ è andata bene!
Ha solo il braccio destro sano e con la mano si accarezza la fronte:
- C’hò un contratto a tempo indeterminato… lavoro in un discount a San Basilio e adesso vado sotto INAIL, ne avrò per più di un anno….Me sa che ho trovato l’unico sistema de famme casa, coi soldi dell’assicurazione!!!
Ho bevuto un caffè con un 50enne libico, claudicante, in attesa della seconda protesi per l’anca
- Il laboro me ha ridotto così…
Mi ha chiesto una sigaretta, ma io non fumo. Quanto mi sarebbe piaciuto fumarmene una con lui.
Non mi fraintendete, non mi sento Veltroni in partenza per l’Africa, e neanche alla ricerca di ricette new age. Vi voglio comunicare solamente in quale stato d’animo fossi e quello che ho provato quando mi sono riconnesso a Spazio Tennis.
QUERELE. SMENTITE. POLEMICHE.
Alcuni propongono saggiamente di trovare un punto di ripartenza, di fare passi indietro, di collaborare, di rinunciare alle lotte di potere.
Io vi sottopongo la mia:
recuperare la tenerezza. Per i figli, nostri o degli altri, e soprattutto per noi stessi.
Quanto è pesante sopportarci quando siamo così pesanti, quando non ci piacciamo. Ci accompagna un vago e cupo disagio che ci fa essere spietati con noi stessi. Applicare lo stesso clima di terrore agli altri poi è solo questione di tempo, di poco tempo.
A questo proposito voglio proporvi un mio intervento, riveduto e corretto, in occasione del convegno di Genova (Valletta Cambiaso) di 3 o 4 anni fa dal titolo “Da maestro a coach, 30 anni di storia”.
Relatori Carlo Polidori, Giampaolo Coppo, Patricio Remondegui ed il sottoscritto.
Presenti il Presidente del Comitato Regionale Ligure, 180 tra maestri ed addetti ai lavori. Organizzatore dell’evento il maestro Marco Lubrano, mio grande amico.
Quattro argomenti diversi, il mio riguardava tra gli altri il rapporto genitori figli.
Che cosa dico? Non volevo essere retorico, o peggio ancora, pedagogico. Non volevo fare leva sul buon senso. Una parola! Allora mi sono lasciato andare, senza pensare alla mia credibilità, alla bella figura, a quello che si aspettavano gli altri…. Non senza timore scrissi e poi lessi la storia che segue, preceduta da una breve introduzione che vi propongo integralmente. Il titolo della favola era:
E’ SOLO UN GIOCO. VERO?
Ogni anno migliaia di bambini vengono lanciati nell’attività agonistica e non sanno bene cosa li aspetta, ma sanno che sta per accadere qualcosa di importante. Cosa gli riserverà questo passaggio emozionante, pericoloso ed attraente allo stesso tempo?
Proviamo a rispondere a partire dalla differenza tra il gioco e lo sport.
Il gioco è lo specifico dell’età infantile.
Ciò che da spessore all’infanzia e che la rende comprensibile.
Un bambino che gioca è assorto, concentrato in ciò che fa, in contatto profondo con il suo sé.
Non vi risponde perché non vi sente, è identificato con il suo lavoro, ovvero proietta nel gioco i propri contenuti per poi identificarsi con essi.
In quei momenti è esattamente ciò che fa, i continui feedback lo aggiornano sulla coerenza dei suoi sforzi, riportandolo alla realtà.
Nell’età infantile il gioco è di esclusiva pertinenza del bambino.
Il genitore osserva, spesso approva, difficilmente interferisce.
Sorpreso e compiaciuto valuta le nuove capacità del suo piccolo, apprezza i suoi progressi accetta con amore anche i tentativi più goffi e gli insuccessi.
Lo sport è la forma più evoluta del gioco, il sociale che avanza, in nome del quale il bambino si relaziona con gli altri, oltre che col mondo interno.
Si chiamano discipline sportive proprio perchè ci sono le regole, perché molto presto il bambino scopre che l’addestramento vuol dire fare la cosa giusta, anche quando non gli va, intuisce che il mondo adulto entra prepotentemente nella sua sfera personale e lui gli spalanca le porte.
Non sa resistere.
– Ci sono degli inconvenienti…– Pensa.
–Non faccio più come mi pare, però…mi considerano tutti di più….e poi non devo più strillare o insistere per avere pochi secondi di attenzione del mio papà e qualche minuto di gioco controvoglia. Anzi ora non si perde una mia mossa, viene sempre a vedermi, mi da dei consigli…certe volte fa una faccia brutta quando sbaglio….però poi mi sorride di nuovo….se non faccio errori!–
Questo potrebbe essere l’inizio del rapporto meta comunicativo tra genitori e figli. Fatto di gesti eloquenti più delle parole che al contrario significano altro:
–Non sono affatto arrabbiato perché hai perso– dice il padre con voce alterata
–Ma il modo…Sembravi assente…Anzi non c’eri proprio…Un’ora di macchina per giocare pochi minuti. Caro mio non è questa la strada. Ti sei persino fatto rubare dei punti! Cosa avevi?–
Il bambino ha gli occhi bassi, vorrebbe replicare ma non sa che dire. Però lui non voleva che finisse così, con quella figura da fesso. Perché le sue gambe non si erano mosse? E le braccia sembravano quelle di un altro? Perché fino alla sera prima era sicuro di sé e la mattina gli pareva di non essersi proprio svegliato? Perché papà non lo capisce?
–Papà perché non mi abbracci e stai zitto?–
Non riesce a dirglielo. Lo pensa soltanto e cerca di farglielo capire con la sua sottomissione. Ma questo atteggiamento non fa che peggiorare-
–Anche adesso…Stai lì imbambolato e non mi guardi neanche. Non parli. Dai dimmi cosa avevi…Non ti mangio mica.-
Il bambino sembra ancora più piccolo sulla poltrona dell’auto.
Mortificato. Non riesce a pronunciare una sola parola. Offeso.
–Papà mi vuol far credere che è calmo, ma io lo so che ce l’ha con me–
Anche il padre ora guarda fisso davanti senza più parlare, come se il figlio non ci fosse. Infatti il figlio non c’è più.
E’ combattuto tra il bisogno di soddisfare la sua rabbia, che aumenta con le domande senza risposta, e il desiderio di lasciarsi andare alla tenerezza per quel piccolo pulcino che trattiene a stento le lacrime.
Questa scelta rappresenta una delle tante porte che si possono chiudere o aprire.
Tale scelta determinerà la qualità del rapporto, l’autenticità degli affetti.
Per il padre una possibilità in più per scendere nel proprio profondo a vedere che c’è, a prescindere da ciò che gli fa piacere pensare.
Una possibilità per crescere, per ammettere che siamo anche come non vorremmo, che non siamo ciò che pensavamo, che i nostri figli hanno gli stessi nostri limiti, che non sono macchine da guerra.
A che serve sbandierare i successi dell’infanzia?
– All’età tua….dovevo andare di nascosto da mio padre…giocavamo con la palla di carta….non c’erano soldi, avessi avuto io le tue possibilità…–
Se fino a due o tre anni prima uno strafalcione del nostro piccolo ci faceva sorridere, una caduta goffa era causa di ilarità e di gioia, le sue difficoltà e i suoi dolori erano causa di angoscia esclusivamente per “LUI” e la “SUA” sofferenza. Cosa è cambiato?
– Anch’io da bambino avevo le tue stesse paure. Quando mi interrogavano ci mettevano un po’ le parole ad uscire….. E poi le partite, certe volte mi sono proprio vergognato di me, soprattutto quando ci tenevo di più e volevo fare bella figura, non riuscivo ad esprimermi. Non mi divertivo affatto e non vedevo l’ora che finisse.–
Il bambino ora ascolta suo padre. Non perde una parola. Suo papà è come lui, forse anche peggio… Vorrebbe che quel momento non finisse mai.
Questo padre ha lasciato una porta aperta. Le difficoltà del figlio lo aiutano ad aprirsi, a lasciarsi conoscere ed avvicinare da lui.
Ora è il figlio a provare un po’ di tenerezza. Questo papà grande e grosso… possibile che anche lui…
–Papà ci torniamo domenica a giocare? Forse avrò meno paura. E’ solo un gioco, vero?–
Era calato un silenzio surreale nella palestra di Valletta Cambiaso, poi un lungo applauso.
Colleghi mi vennero a stringere la mano, qualcuno mi confessò di essersi emozionato.
Un maestro grande e grosso, forse ligure, si era addirittura commosso.
Provai una grande gioia, il mio narcisismo si era nutrito è vero, ma non provavo l’euforia del vincitore…non so come dire, ero molto sereno.
Sentivo di condividere le stesse emozioni con gli altri e ebbi la certezza che soltanto attraverso le emozioni avrei prodotto cambiamenti significativi anche dentro di me.
In poche parole provai una grande tenerezza semplicemente perché ero stato autentico.
Forse il bambino della storia ero io. O forse io ero il padre. O forse ero tutti e due.
Di sicuro l’autore della storia voleva bene ad entrambi.
Vi rubo ancora 2 minuti per dirvi che la tenerezza non può essere l’unico sentimento che ci accompagna, ma che bisogna ricorrere ad essa quando ci sentiamo aridi e vuoti.
Quando diventiamo puntigliosi e sterili e tendiamo esclusivamente a prevalere sugli altri.
Poi c’è l’aggressività, che bella!
La rabbia.
La competizione.
La voglia di vincere.
L’odio.
L’eccitazione. Chi più ne ha…non ne abolirei nessuno.
Potreste chiedermi
“Ma come si fa a provare tenerezza se sono sempre incazzato nero?”
E’ vero, la risposta non è semplice. Vi posso dire quello che faccio quando, ad esempio, assisto agli incontri dei miei allievi e la tensione mista a rabbia mi travolge.
Guardo il cielo con la testa all’insù per qualche secondo, quando la riabbasso mi sento piccolo piccolo e sono felice di trovarmi lì per potermi mettere al servizio del mio allievo.
Infine un abbraccio fraterno a Stefano Grazia che mi auguro torni ad illuminarci con i suoi racconti pieni di dubbi e di umanità. Persona intelligente e sensibile che non merita attacchi protervi.
E poi Stè vi sbagliate si chiamava PFM Premiata Forneria Marconi.
Un bacio a tutti, ma proprio a tutti.
Silvano
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