di Cesare Veneziani
Sull’onda lunga dell’appassionato articolo di Roberto Commentucci, sento anch’io la voglia di buttare un po’ d’inchiostro sulla situazione, diciamo un po’ deprimente, del nostro tennis. Ma con qualcosa in più, credo, e cioè la grande quantità di ore che ogni giorno passo sul campo con i miei allievi. Perché il mio sogno è quello di “creare” un giocatore da zero. Farlo nuovo nuovo, partendo dai primi esercizi sulle capacità coordinative, poi dritto e rovescio (e servizio! Tanto, tanto servizio!), avviandolo all’agonismo, provando a insegnargli il combattimento, l’assoluta volontà di farcela, di EMERGERE, e dulcis in fundo, programmandolo ora dopo ora. Ma non è e non sarà facile da attuare, anzi.
Per fare un giocatore tanti tasselli devono sistemarsi (ed essere sistemati) al posto giusto. Lo sappiamo e lo sapete. E lo sa la FIT, che se pensa di tirare fuori un giocatore crescendone dodici (sbaglio o “tanti” sono quelli che vivono a Tirrenia?) allora sta fresca. Quanti ce ne sono in Francia, seguiti dalla federazione? Quanti in Spagna? Qui non abbiamo nemmeno un’accademia, quasi quasi!
Ma torniamo a noi. Dicevamo, ci vogliono forza e competenza. Poi la struttura, la famiglia, l’integrità fisica, un minimo di comprensività da parte dei professori, fortuna e…il ragazzo. Io vedo che i ragazzi non ci credono. Ci lavoro ogni giorno, con passione e amore, e anche quelli che sembrano rispondere positivamente al lavoro, alle prime sconfitte si sentono male e hanno voglia di mollare. Non ci stanno. Credo sia perché sono assolutamente schiavi del successo. Anzi no, del successo immediato. Vedono miti di diciassette anni alla televisione, come quel golfista coreano che ha vinto un torneo importante non so dove…pochi minuti fa, come Rooney o Nadal, come quel tuffatore britannico o Britney Spears o la Hingis. E vogliono essere come loro, ma non si rendono conto della fatica che si fa a diventare professionista. Sono convinto che i ragazzi non ci credono fino in fondo, e soprattutto non sono disposti a perdere pur lottando. Sulla lunga distanza, certo (gli anni della crescita sono lunghi anni) ma anche sul breve volgere di una partita. 5 – 0 sotto? Mollo e ricomincio al secondo, pensano. No! Penso io. No! Non si può a quattordici anni, quello lo fa un campione sul cemento contro Federer, e comunque non dovrebbe farlo nemmeno lui. Ma è un campione, facesse ciò che vuole.
E che tutto il mio dispiacere, credo simile a quello del già citato Commentucci, non sia solo per il fatto in se, ma per il senso di impossibilità che accompagna il tennis italiano ormai da anni.
Poi la presunzione. Domenica scorsa ho partecipato ad un torneo Open (si, ancora la butto di là…), era uno di quei rodei organizzati da Cobolli e Santopadre, utilissimi per entrare in forma con match veri. Aspettando il mio turno mi sono fermato a vedere uno dei ragazzini più promettenti del Lazio. Nemmeno quattordicenne, giocava contro un 3.4 di diciassette anni. Alla fine ha perso 11 – 9 al tie break del terzo, ma non è questo il punto. Due sono le cose mi hanno colpito. La prima: c’era solo il padre e non il coach, e il padre parlava tutti i punti col figlio, criticandolo, applaudendolo e rimproverandolo come nessun coach farebbe. Il figlio ha pianto un paio di volte e ce lo ha mandato qualcuna di più. Secondo: c’è stato un punto in cui l’avversario ha servito una prima in kick sul rovescio, dritto opposto a un palmo dalla riga, attacco a rete con cross di rovescio di altissima qualità, volèè lunga sul dritto del ragazzino e stop volley vincente. A quel punto hai due scelte: o dici “bravo” o te ne stai zitto. Il giovane ha tirato con violenza la racchetta per terra e ha continuato a frignare. Che per me significa solo una cosa: non voler riconoscere il valore dell’avversario, almeno in quel frangente.
Presunzione e scarsa voglia di lottare, ecco il punto. Scontato, ma di Roger e Diego Armando, di Tiger e Schumacher mica tanti sul pianeta. O no?
Adesso vi saluto, vado a fare un po’ di stretching…
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