di Luca Brancher
Il 20 ottobre 1982 Sergei Shvetsov non avrebbe mai immaginato che cosa avrebbe scatenato, con quel gesto. Lui, che 18enne aveva lasciato la sua Kutaisi per cercare fortuna nel cuore pulsante dell’allora ancora esistente Unione Sovietica, era ormai considerato un pilastro della difesa dello Spartak Mosca, ma contribuirono fattivamente a porlo sotto le luci dei riflettori anche le qualità offensive, le stesse che, appena ventenne, gli avevano garantito la prima – ma sarebbe rimasta unica – convocazione con la rappresentativa dell’URSS. Shvetsov, ora, di anni ne ha 22 ed è felice: con lo Spartak sta giocando in Europa, la Coppa Uefa, e dopo avere eliminato l’Arsenal toccava agli olandesi dell’Harleem. Manca poco, alla fine della contesa d’andata, e i sovietici sono avanti 1-0. La partita si sta giocando al Central Lenin Stadium, il clima è particolarmente freddo, per essere metà ottobre (-10 gradi), e, date le condizioni avverse, molti tifosi si incamminano anzitempo verso l’uscita, in prevalenza verso quella sita più vicina alla metropolitana. Quando l’orologio segnala che solo venti secondi separano le due squadre dal termine delle ostilità, Shvetsov scaraventa in rete la palla che sancisce il doppio vantaggio moscovita. Gioia, tripudio, festa sugli spalti, tanto che la gente che sta uscendo vorrebbe rientrare, ma le forze dell’ordine non paiono propense a concedergli tale possibilità. Altro che gioia, qui sta per succedere un disastro, sulle scale ci sono troppe persone. Troppe. Le scale cedono, la gente di conseguenza. Ed è così che si è materializzata la più grande tragedia nella storia dello sport russo: il disastro dello stadio Luzhniki. Tutta colpa di un gol.
Il 20 ottobre 1982 allo stadio, tra gli spettatori ben lontani dal luogo del disastro, c’era anche una giovane promessa del tennis sovietico, il 16enne Andrey Chesnokov, grande tifoso dello Spartak Mosca. In quella tragedia, che fino al regime gorbacioviano fu fatta passare sotto silenzio, morirono almeno 66 giovani ragazzi (a sinistra il monumento dedicato alle vittime del Luzhniki), uno spettacolo agghiacciante avvenuto sotto gli occhi della futura stella del tennis mondiale, che quegli attimi di terrore non li potrà mai dimenticare. Negli anni si è distinto rendendosi promotore di varie iniziative organizzate per ricordare un avvenimento che, fino al 1989, era poco noto, tanto che il numero delle vittime accertate non è mai stato ufficializzato: si dice che possano essere state addirittura più di 300. Meno di un anno più tardi da quel fatidico giorno, Andrey avrebbe esordito in Coppa Davis. La politica sportiva dell’Unione Sovietica privilegiava tutte quelle discipline che rientravano nel novero dei Giochi Olimpici, per cui il tennis, da questo punto di vista, era stato penalizzato, dal momento che sarebbe stato riammesso – in via sperimentale – solo nel 1984. Vista la penuria di giocatori non c’era nulla di strano se un ragazzo di soli 17 anni, perlopiù promettente, veniva convocato, a maggior ragione se in squadra c’era un altro giocatore nato nel 1966, Andrey Olhovskyi. Chesnokov esordiva così sui palcoscenici internazionali a Hradec Kralove, nella ex-Cecoslovacchia, facendosi rimontare un vantaggio di due set da Miloslav Mecir. Il moscovita avrebbe però in futuro scritto la storia della sua nazionale in questa competizione.
Nel 1991, Alexander Zverev (nella foto a destra) decise di comune accordo con la moglie, ex-giocatrice, Irina, di lasciare una Russia quantomai caotica per stabilirsi ad Amburgo, Germania, luogo prescelto per crescere il figlio di 4 anni, Mischa. Alexander era stato una bandiera dell’Unione Sovietica nel corso degli anni ’80, pur non avendo avuto un decorso tennistico così glorioso, ed era stato una sorta di chioccia per Andrey Chesnokov, nonostante, piuttosto curiosamente, fosse stato anche il primo giocatore a batterlo nel circuito professionistico, in un challenger a Bielefeld, in Germania, nel 1984. Alexander e Irina, poi, dopo un lungo periodo di ambientamento nell’Europa Centrale, decisero di mettere al mondo un nuovo pargolo, che avrebbe assunto il medesimo nome del padre, Alexander, per tutti Sascha, ovvero il tennista che in questi ultimi mesi sta facendo parecchio parlare e che sta trasmettendo a tanti l’impressione che questo ragazzo sia un predestinato. D’altro canto non può essere un caso se Zverev jr. è attualmente il tennista più giovane ad aver conseguito il titolo al Trofeo Bonfiglio, così come il più precoce ad aver colto una finale future. Quando questo è avvenuto, lo scorso 17 novembre 2012, Zverev non aveva ancora raggiunto i 15 anni e 7 mesi, bruciando sul tempo colleghi del calibro di Bernard Tomic, Richard Gasquet e Mario Ancic, gli unici a raggiungere tale traguardo prima del compimento dei 16 anni d’età (il croato ed il transalpino, a dire il vero, ottennero anche il titolo).
Dopo la vittoria al Bonfiglio, il successivo obiettivo di Sascha è il Roland Garros: trionfare in uno Slam a 16 anni sarebbe l’ulteriore riprova che il tedesco detiene tutte le carte in regola per sfondare. Che sia un buon prospect e che sia veramente duro da battere lo sa bene il nostro Stefano Napolitano, che dopo aver pagato dazio a Milano, ha alzato bandiera bianca anche a Parigi, sebbene la sua resa sia arrivata al termine di un’estenuante maratona, conclusasi soltanto al 24esimo gioco della frazione finale. Nel rammarico per le sorti dell’azzurro, la consapevolezza che Zverev, già costretto ad oltre 3 ore di gioco per regolare lo slavo Djere nella finale meneghina, differentemente dal fratello, possiede quella dote speciale condivisa solo dai giocatori che vogliono arrivare: il carattere.
A proposito di Roland Garros 2013 e di maratone, cos’altro aggiungere sul filone “I record di John Isner”? Il 28enne statunitense ne stava per combinare un’altra delle sue, ascrivendo al suo palmares un nuovo primato. Nessuno, infatti, nell’era Open era mai stato capace di vincere un incontro annullando 12 (dodici) match-point al suo avversario – dall’altra parte della rete, però, Tommy Haas non è stato dello stesso parere. E pensare che nel 2010, a Shanghai, John ne aveva annullati comunque 7 prima di avere ragione di Lukasz Kubot, numero impressionante, ma non sufficiente per meritarsi il titolo di record-man, dato che nei match 2 su 3 tale primato spetta al nostro Adriano Panatta, che nell’anno magico 1976, al primo turno degli Internazionali d’Italia, annullò 11 palle match a Kim Warwick prima di qualificarsi per l’incontro successivo. Senza questo successo, chissà che ne sarebbe stato di quella straordinaria stagione sulla terra battuta.
Se il tennis è tornato alle Olimpiadi, parte del merito va anche ad un italiano, Giorgio De Stefani (nella foto a sinistra), pluridecennale dirigente del nostro sport e prim’ancora uomo di punta della nostra squadra di Davis. Giorgio, primo italiano a qualificarsi per la finale del Roland Garros nel 1932, divenne noto perché, autodidatta, giocava il diritto sia da destra che da sinistra, sebbene vi sia un’altra curiosità che fa assurgere il suo profilo al di sopra di tanti altri. L’episodio a cui facciamo riferimento accadde nel 1930 in Francia – che per lui sarebbe poi divenuta terra di conquista – dove l’Italia si stava giocando con gli Stati Uniti l’accesso al “challenge round”, come veniva chiamata allora la finale, in cui ad attenderli c’erano i transalpini. Nel primo incontro De Stefani affrontava Willmer Allison: per quanto faticosamente, l’azzurro disponeva del suo pur valido oppositore. Dopo i primi due parziali vinti, nel terzo si verificava una piccola battuta d’arresto, ma Giorgio tornava a comandare nel quarto: 5-2 in suo favore. Da questo momento, l’italiano avrebbe avuto ben 18 (diciotto) match-point, non concretizzandone alcuno, prima di capitolare per 10-8 al set decisivo. L’Italia sarebbe poi stata sconfitta per 4-1 – ed avrebbe atteso 30 anni prima di centrare il primo atto conclusivo in Davis – ma soprattutto questo record, poco invidiabile, non avrebbe mai avuto pari. C’è un caso che, per quanto lontanamente, gli si avvicina, capitato in un’edizione della competizione a squadre molto più vicina ai nostri giorni.
Ci dobbiamo infatti spostare avanti nel tempo, al 1995, all’epoca della semifinale-rivincita tra Germania e Russia, dove i tedeschi erano ansiosi di vendicare lo schiaffo morale perpetrato 12 mesi prima dai russi, che violarono il campo amico degli allora detentori del titolo, sempre in semifinale; questa volta la sfida si giocava, in ottemperanza alla regola vigente, in casa dei russi, ma i tedeschi non parevano disposti a lasciare nulla d’intentato. Dopo la prima giornata, allo Stadio Olimpico di Mosca, la Germania era avanti 2-0, con l’aiuto delle punte di diamante Becker e Stich: perso il doppio e il primo singolare della domenica, con Karbacher sceso in campo in sostituzione di Becker, Michael Stich era comunque destinato a trascinare la sua squadra alla finale, soprattutto grazie ai 9 match point di cui fruiva nel corso del quinto set. Per quanto giunti ad un soffio, a staccare il biglietto per la finale sarebbero stati nuovamente, come nell’edizione precedente, i russi, per merito del miracolo firmato da Andrey Chesnokov, capace di respingere le 9 palle match di Stich e di agguantare la vittoria per 14-12 (nella foto a destra Chesnokov portato in trionfo dopo il successo su Stich). Pur sfruttando per la seconda volta consecutiva il fattore campo, anche questa volta, però, la Russia si sarebbe dovuta arrendere, per quanto in quest’occasione il comportamento fu sicuramente più onorevole, ma dall’altra parte, a rovinare i piani, si sarebbe prestato un certo Pete Sampras. Avrebbe dovuto attendere ancora 7 anni per la prima gioia, in uno scenario ed un’occasione che meriterebbe ben più di un capitolo di questa rubrica.
In diverse occasioni mi è capitato di assistere ad incontri con protagonista Mischa Zverev, che ad onor del vero, ormai 26enne, pare perduto per ambire a certi traguardi. La sensazione maturata, a mio modesto avviso, è che per emergere definitivamente gli mancasse quel pizzico di cattiveria, dal momento che in certi momenti del match, più o meno decisivi, preferisse specchiarsi invece che “finire” sportivamente il proprio avversario. Sensazioni, si badi bene, che vengono anche confermate dal suo palmares: se a livello ATP il tedesco d’adozione ha raggiunto un’unica finale, peraltro fortuita, nel 2010, a Metz, a livello challenger ha raggiunto ben 4 titoli, tra il 2006 ed il 2007, dopodiché ha racimolato ben 5 sconfitte consecutive negli atti conclusivi (di cui 3 recentemente, a cavallo tra 2012 e 2013). L’ultimo successo, quindi, risale al novembre del 2007, nell’allora torneo indoor di Dnepropetrovsk, nella cui finale regolò Dmitry Tursunov. Torneo scomparso, quello ucraino, per quanto fino alla metà dello scorso decennio fosse una manifestazione degna di una certa considerazione: buonissima entry-list, diversi giocatori del passato che venivano invitati ad assistere alle fasi finali – nel 2005, tra questi, c’era anche Chesnokov. Nella tarda serata del sabato, quando l’orologio segnava che la mezzanotte era ormai scoccata da oltre 2 ore, seduto al ristorante “Reporter” con una ragazza, l’ex-pro russo venne avvicinato da tre uomini che gli riversarono un paio di pallottole sullo stomaco. Trasportato immediatamente in ospedale, Andrey è stato quasi immediatamente definito non in pericolo di vita – le pallottole non avevano trapassato lo stomaco – per quanto fosse stato precauzionalmente ricoverato in rianimazione.
Il giorno dopo, ovviamente, Andrey, diversamente da quanto accordato, non poté essere presente tra il pubblico dell’atto finale e mancò così di rivivere un deja-vu. Sì, perché a trionfare, in quell’edizione del challenger ucraino, sarebbe stato Dick Norman, l’ultimo avversario affrontato sul campo dallo stesso Chesnokov. Avvenne nel future francese di Plaisir, più precisamente in finale, nel primo autunno dell’anno 2000, proprio mentre dall’altra parte del mondo, a Sydney, stavano per concludersi i Giochi Olimpici. Ed insomma, la morale, in questi casi, è piuttosto semplice da trarre: perdere da Norman, nella finale di un future, non aveva costituito un problema, un problema, etico e morale, sarebbe stato venire ammazzato – soltanto perché alcune persone ti avevano reputato antipatico – per essere andato in un posto ad assistere Norman vincere un’altra finale. Soprattutto per chi, a 16 anni, ha visto morire centinaia di persone davanti ai propri occhi, anche loro a causa di un evento sportivo. Se la vita tante volte sa essere tragica, alcune volte lo è altrettanto lo sport.
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