Per concludere e salutarvi, avevamo in sospeso i cinesi, gli italiani e le fasi finali del torneo che per i “tennis addicted” sono le meno interessanti: in questo caso particolare, poi, hanno evidenziato una superiorità così netta da parte dei vincitori da rendere i match fin troppo poco avvincenti.
Olesya Pervushina si è dimostrata di ben altra consistenza rispetto alla inaspettata slovena Juvac, proveniente addirittura dalle qualificazioni e che quindi ha dovuto scontare anche un carico di nove match in una sola settimana, per cui dopo essersi strenuamente opposta nel primo set con le sue armi, che sono un tennis ben più vario ed estroso rispetto alla media, ha alzato bandiera bianca.
Il dominio e la conseguente superiorità delle russe è resa evidente dal fatto che le stesse tre semifinaliste hanno monopolizzato la finale del doppio. Se Juvac non avesse sorprendentemente battuto Ribakina avremmo avuto un doppio poker di donne (le stesse quattro).
Ricordando che le vincitrici delle ultime edizioni (Bencic, Bellis e Voundrousova) hanno ottenuto risultati significativi a livello WTA pochissimi mesi dopo aver vinto a Milano, possiamo ragionevolmente supporre che anche la bella Olesya sia proiettata nella medesima direzione.
Con l’eccezione di Alexander Zverev, il percorso dei boys appare storicamente più complesso nella fase di accesso al tennis che conta in questi ultimi anni: chissà in quanto tempo il greco Tsitsipas farà impazzire i telecronisti di Sky così come ha fatto impazzire la mia tastiera nel tentativo rispettivamente di pronunciare o scrivere correttamente il suo cognome. Quel che mi appare certo è che, se così fosse, i telespettatori ammireranno un tennista piacevolissimo e dotato sia di alcune peculiarità significative (in primis il desueto rovescio ad una mano) nonché di una vicenda personale interessante, di una provenienza anomala e di una rara sportività.
Blanch, che è stato il suo degno avversario nella finale, potrebbe avere dei margini ancora superiori a livello tecnico, fisico e caratteriale: siamo di fronte ad un meticcio (nativo di Porto Rico, trasferitosi a Seattle soltanto 96 ore dopo la nascita, con influenze genetiche o ambientali che si perdono tra Stati Uniti, Thailandia e Argentina, ora di stanza a Bradenton), che traspare evidente nel suo approccio al tennis. Il tecnico che lo dovrà sgrezzare avrà davanti un compito molto stimolante sotto tutti gli aspetti. Per uno che si chiama Ulises la continuazione del viaggio e l’approdo appaiono misteriosi e molto interessanti da seguire.
Dal momento che per recarsi al Tennis Club Milano da casa mia si percorre la popolosa e attiva Chinatown, che lo storico bar-tabaccheria di fronte al Circolo dove ho consumato un caffè ed acquistato la mia dose giornaliera di veleno è da quest’anno gestito da una famiglia cinese (più gentili dei precedenti proprietari, ad essere sinceri) e, soprattutto, che entrando poi al Circolo i campi di allenamento siano spesso monopolizzati da tennisti con gli occhi a mandorla, mi è venuta spontanea una riflessione: che ci stiano provando anche nel tennis?
A dire il vero i risultati sono fin qua piuttosto modesti, ma tra quelli proveniente dalla cosiddetta Repubblica Popolare Cinese, i taipeiani, i coreani e i giapponesi, oltre agli americani di seconda generazione provenienti dall’Asia, gli asiatici sono proprio molto numerosi ed hanno una cultura del lavoro maniacale, come peraltro i loro connazionali che di tennis non hanno mai sentito parlare.
Mentre i tecnici sono perlopiù occidentali, i preparatori fisici al seguito sono invece orientali; potevate trovarli, gli uni e gli altri, già affaccendati di prima mattina così come in attesa che i campi venissero liberati dagli ultimi match di giornata per prenderne possesso. Oppure nei prati del circolo impegnati in dure sessioni di stretching o in tutto ciò che esulasse dal rimanere con le mani in mano.
Ora non vorrei scadere nel populismo a buon mercato, che già troppo ne viviamo giornalmente in ambiti diversi e purtroppo ben più importanti per il futuro nostro e dei nostri figli, ma i nostri mi sono parsi ben diversi. Da osservatore parziale ho avuto l’impressione che qualcuno viva il tennis come gli impiegati ministeriali il proprio lavoro: timbrano il cartellino, non si comprende in base a quali meriti siano stati selezionati e qualcuno forse è più impegnato a godersi i suoi privilegi.
Ripeto di non voler fare di tutta l’erba un fascio, ma non traspare la passione per il proprio ruolo, la consapevolezza che si possa fare di più e meglio, l’impegno ossessivo che ho visto negli altri.
Come mi capiterà certamente di leggere, che si parli dei risultati dei nostri atleti di vertice, dei più giovani, di Tirrenia, e perfino di Camila Giorgi per citare un caso che mi sta a cuore gestito in maniera a dir poco irraccontabile, i supporter più realisti del re mi annovereranno tra i gufi che remano contro, ma non c’è niente di più sbagliato.
Ciò che penso è semplicemente che, anche nel tennis, si dovrebbe andare oltre la polemica tra opposte fazioni, andare oltre le appartenenze come già purtroppo avviene in troppi ambiti; gli italiani non sono antropologicamente mediocri, ma sono antropologicamente familisti e dunque negano che in famiglia, intesa come clan o fazione o partito, nessuno possa essere criticato o sostituito se necessario.
Siamo andati forse troppo oltre il Trofeo Bonfiglio che avrebbe dovuto essere l’argomento, ma lo sapete, a volte mi lascio trascinare fuori argomento. Qualche ragazzo bravino ce lo abbiamo anche noi, e sappiate anche che competere in ambito mondiale in uno sport così universale è assai complicato, ma, per quel poco che ho capito, occorre assolutamente aprirsi maggiormente al mondo che sta diventando, per usare un termine abusato, più globalizzato di quel che sembra restando nel proprio chiuso orticello anche e soprattutto nello sport.
Una cosa piccola, ma si comincia sempre da quelle, potrebbe essere quella di far giocare i doppi con ragazzi di altri paesi , un’altra di imparare a parlare inglese così da ascoltare quello che hanno da dirci avendo la volontà e l’umiltà necessarie per assimilare e assorbire: ma vi pare logico che da giovedì fossero tutti scomparsi nell’unico evento che ti porta a domicilio un campione così ampio da studiare e con il quale confrontarsi?
Per indugiare un momento sui singoli, una citazione la vorrei riservare alle due Federica. La giovanissima Rossi (2001, Sondrio) ha superato le quali ed un turno di tabellone tosto prima di cedere alla Zhuk, nei pressi della quale non si notavano tecnici in divisa FIT (non so se casualmente o perché segua un percorso autonomo) ed osservando brevemente la quale ho rilevato un diritto ed una stazza da discobola agile non certo così comuni. E la Bilardo (1999, Palermo) che, invece, era seguita da una fin troppo lunga “panchina” (compresa la new entry Maria Elena Camerin) e che dispone sempre di un considerevole animus pugnandi ed ha mostrato, rispetto ad un anno fa, progressi lenti ma significativi sia fisici che tecnici.
Tra i boys, detto di Caruana nella puntata precedente, cito volentieri Andrea Guerrieri (1998, reggiano del TC Albinea) che gioca un po’ troppo lontano dalla linea di fondocampo, ma che ha strappato un set ed impegnato nei primi turni il finalista Blanch, cosa significativa della quale dobbiamo accontentarci stante il divario sia fisico sia di talento.
E chiudo con una modesta proposta che mi stupisco nessuno di quelli delegati a farlo abbia mai preso in considerazione: un torneo così bello, importante e unico, meriterebbe che i vincitori ottenessero una wild card per gli Internazionali di Roma dell’anno successivo costituendone a tutti gli effetti l’appendice junior, non a caso infatti è denominato “Internazionali d’Italia Juniores”. Contribuirebbe a lanciare un forte segnale di collegamento tra le due migliori manifestazioni di cui il tennis italiano dispone.
PS: Olukayode Alafia Damina Ayeni, in foto, è il vincitore dell’ambito “Big Lebowski Award” dell’edizione 2016 del Trofeo Bonfiglio.
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