di Luca Brancher
Tutti quanti vorrebbero diventare eroi, nel proprio ambito, ed anche Dusan Lajovic, in fondo, ha covato quest’illusione. Se, sulla scarsa fattibilità, erano tutti d’accordo, lui per primo, l’ambiente, la carica, il fascino della competizione e l’epica legata alla Davis Cup devono avergli permesso di cullare, anche se per pochi istanti, il sogno di diventare il nuovo eroe serbo. Insomma, gli elementi c’erano tutti. Un po’ come la Danimarca, all’Europeo del 1992, Lajovic è stato giocoforza inserito all’ultimo momento come secondo singolarista dal suo capitano Obradovic, perché Troicki si era rifiutato, mesi prima, di fare un controllo antidoping e Tipsarevic si era, alla vigilia, dichiarato ineleggibile. Per cui dopo Djokovic, c’era lui, Dusan Lajovic, Il 23enne serbo che in cuor suo sperava, più prosaicamente, di emulare il Troicki del 2010, chiudendo vittoriosamente l’ultimo singolare, oppure il Mikhail Youzhny, del 2002, che da ultimo della sua selezione era stato chiamato in causa per il match numero 5, vincendolo, sempre in finale. In entrambi i casi, però, dall’altra parte della rete c’era la Francia, non la Repubblica Ceca, e, soprattutto, nell’ultimo episodio citato, c’era anche Paul Henri Mathieu, noto “choker” transalpino – per molti, lo divenne dopo quella partita, in realtà già prima aveva dato ampi segni di “panico da successo”. E se avessimo voluto trovare un tennista, tra i presenti nel weekend a Belgrado con tali caratteristiche, questo era proprio Lajovic.
D’altronde quanti di voi conoscono giocatori professionisti capaci di perdere un set, perlopiù decisivo, dilapidando un vantaggio apparentemente incolmabile di 5-0 40-0? Beh, Lajovic fa parte di questa ristretta cerchia, dopo una sciagurato scivolone avvenuto nelle qualificazioni degli Australian Open 2012 contro Matteo Viola; e non è solo quello, spesso Lajovic ha gettato incontri all’ortiche, mostrando una certa sofferenza psicologica sui campi da tennis. Sicuramente deve averne patita anche oggi, perché non puoi essere tranquillo se sei chiamato a giocarti l’ultima partita della finale di Coppa Davis, davanti al tuo pubblico, contro una nazionale che schiera, dal canto suo, una vecchia volpe del circuito come Radek Stepanek, che di anni ne ha 12 più di te. E soprattutto conosce il tennis molto più di te. Che Dusan fosse contratto, lo testimoniano le prime due risposte malamente scentrate su due servizi tutt’altro che ingiocabili dell’esperto tombeur de femmes ceco, che manifestavano un cattivo inizio anche da parte del più rodato in campo. Il blackout di Radek si limitava, però, ad un primo gioco sciaguratamente regalato al serbo, situazione che aveva il (de)merito di alimentare una falsa speranza nei cuori dei tanti e rumorosi tifosi presenti alla Beograd Arena.
Un gioco. Un solo gioco è però durata quest’illusione. Perché da quel momento, e per i 90 minuti a seguire, Radek Stepanek sarebbe salito in cattedra, non facendo capire più nulla al povero Dusan Lajovic, costretto a raccogliere le briciole davanti ad un pubblico che, col passare del tempo, diveniva sempre meno coinvolto, sempre meno vicino, attendendo, comunque rumorosamente, la fine di una sfida, che mai si era rivelata tale. Non me ne vogliano i sostenitori di Dusan, nettamente sfavorito, ma l’immagine che mi rimane di questo pomeriggio di tennis belgradese è frutto, a mio personalissimo parere, della deriva tennistica che questo sport sta prendendo. Perché Lajovic, ancor prima che irretito dalla sublime tecnica di Radek, non ci ha capito nulla da un punto di vista tattico, ha sempre provato quelle due-varianti-due di cui è in possesso, anche in situazioni in cui la logica e il buon senso avrebbero suggerito ben altro. Meglio sempre un colpo forte tirato ad occhi chiusi, di dritto o di rovescio poco importa, che uno appoggiato dove il tuo avversario non può arrivare. E a Stepanek sono bastati dieci minuti per capire cosa era necessario fare per non rischiare alcunché, fino al 6-3 6-1 6-1 conclusivo, suggello di una passeggiata che permetteva a Radek e alla Cechia di bissare quanto conquistato 12 mesi prima.
Ora, giudicare un tennista da una sfida è sbagliato, puntare il dito contro un’atleta chiamato a giocarsi le proprie chances in una situazione delicata è un esercizio antipatico, perché porterebbe a conclusioni affrettate e sbagliate. Non posso, però, esimermi dal manifestare (ampiamente in ritardo) una certa preoccupazione, dal momento che il Lajovic di oggi è modello di un’evoluzione sbagliata del tennis, di uno sport diventato la fiera del “corri e spara”, dell’esaltazione per un punto spettacolare di 40 e più colpi dove i due contendenti non hanno fatto altro che tirare forte e più forte (ogni riferimento all’ultimo US Open è puramente casuale). Che poi i due giocatori tratti a esempio (i primi due del mondo, tra l’altro) sappiano fare anche altro, e bene, se non molto bene, è palese, altrimenti non vincerebbero quello che vincono, ma è quello che verrà dopo che preoccupa, perché l’idea è che si trovino impreparati a variare il proprio gioco e di conseguenza a comprendere tattiche “diverse” da parte degli avversari. Un problema che rischia, ahimè, di diventare secondario, perché se nessuno varierà, nessuno dovrà temere che qualcun altro vari (sic).
Durante il Roland Garros del 1996, il tabellone al secondo turno mise a confronto una nuova promessa del tennis iberico, Carlos Moya, e lo svedese Stefan Edberg, al suo ultimo anno sul circuito. Tutti erano pronti a celebrare il “funerale” parigino del due volte campione di Wimbledon, ma sul campo avvenne esattamente il contrario, con il maiorchino completamente spiazzato davanti al tennis frizzante dello scandinavo. In piccolo, è quello che è successo oggi (Lajovic non diventerà forte come Moya, ma nemmeno Stepanek è Edberg). Sarà colpa dei materiali, colpa delle superfici o delle palline, poco importa, di sicuro, così facendo ci giochiamo una buona fetta di spettacolo. Ed i tifosi di Federer, d’altro canto, possono dormire tra due guanciali: magari la tenuta fisica per vincere uno Slam non l’avrà mai più, ma con la sua tecnica potrà rimanere sul circuito a lungo, a prendere in giro a piacimento queste nuove leve. In fondo, ce ne sarà sempre bisogno.
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