Una settimana da (e con) Raul


(Margalita Chakhnashvili, Raul Ranzinger e Marta Polidori)

di Marta Polidori

Raul Ranzinger è un coach che ho avuto il piacere di conoscere due anni fa al 100.000 $ di Biella, quando accompagnò la sua giocatrice Margalita Chakhnashvili  (che si fermò in semifinale contro Alexandra Cadantu, poi vincitrice del torneo).

Questa intervista è nata per puro caso. I contatti non erano molti, anche se dopo averci parlato al suddetto torneo era rimasto nel cuore a me come a mia madre.

Un giorno, via facebook, decisi di proporgliela.

Lui ha base a Sestri Levante, ma questo non mi ferma, perciò un semi-solare sabato di Marzo decido di prendere e andare a trovarlo.

Ho aspettato un po’ per trascriverla. In primis perché dopo quel sabato ho deciso di rimanere ad allenarmi con lui una settimana (visto che i miei compagni di classe erano in gita a Praga) e di rendere la mia esperienza parte integrante dell’articolo.

La imposterò a punti, in modo da numerare (letteralmente) i concetti che secondo me lo rendono una storia che vale la pena di leggere. Il tutto un po’ mischiato, per far capire meglio con chi stiamo parlando, aggiungerò alcune parti assortite di discorsi di vario genere. Più che un’intervista è stata una lunga conversazione, senza lo schema classico della domanda e risposta, perché Raul è un personaggio molto socievole e non esattamente quello che definirei un tipo telegrafico. Anche per questo, forse, mi è balenata in mente la malsana idea di allenarmi una settimana (considerando che mi portavo appresso un anno e passa di completa inattività, almeno quattro kili in più, muscoli che se un tempo parevano muscoli ora vertono più verso la pubblicità del magico stracchino volante del Nonno Nanni…). Poi è bello per una volta poter scrivere in maniera più confidenziale di una persona.

Eccoci qua comunque, informazioni di base: Raul ha allenato Tathiana Garbin, Barbara Schett, Patty Schnyder, Maria Paola Zavagli,  Henrieta Nagyova, Anastasia Rodionova e ora segue  Margalita Chakhnashvili  (attualmente 396 del ranking mondiale, capitana di Fed Cup per la squadra della Georgia e con un best ranking di 130), Ekaterina Gorgodze, Sofia Kvatsabaia (numero 478),  Anna Tatishvili (numero 62, part-time e al momento infortunata), di ragazzi Filippo Ghio e Antonio Zucca.

Come hanno fatto a trovarti?

Ma casualmente. Io sono venuto qui un giorno ad allenare ‘Maka’ (che sarebbe Margalita) perché mi servivano dei campi e si è venuta a creare questa situazione, questo gruppo, sono finito qua come base. Le georgiane sono arrivate per il classico sentito dire, passaparola.”

Come organizzi i loro allenamenti e spostamenti?

Tutti insieme, lo facciamo in gruppo. Ci sediamo e facciamo un programma, ognuno personalizzato. Tornei, allenamenti, dov’è meglio andare, cosa è meglio fare, dov’è meglio fermarsi…

E per l’atletica? Hai un collaboratore?

No faccio tutto io

Lui ci è piaciuto subito (quando dico ci intendo me e i miei genitori) perché ha una visione dell’atleta molto simile alla nostra.

Punto uno: non sono una massa di persone da allenare, sono tutti differenti e con specifiche priorità, tempi, bioritmi e necessità. Prima che atleti, dunque, sono persone. Sembra scontato? Non lo è. Capita fin troppo spesso di pagare per avere un lavoro generalizzato al massimo che non solo non porta avanti, ma se ti va male ti porta anche più lontano dalla tua meta.

Quindi questa cosa fantastica ci tengo a sottolinearla, lui riesce davvero a stringere un rapporto con i propri giocatori raro e decisamente proficuo.  Alle volte se li porta anche a pescare (io ho inseguito un’orata per quattro ore).

Durante la mia settimana di allenamento gli ho chiesto come facesse.

Mi ha spiegato che innanzitutto ci tiene a che chiunque entri a fare parte del suo team sia in grado di fare gruppo, perché per la sua organizzazione è indispensabile. Girano tutti insieme, se possono, per dimezzare le spese e si viene a creare un clima che rende meno pesanti diverse situazioni. Proprio perché è un lavoro difficile lui non vuole che si carichino le persone di ulteriori preoccupazioni.

Questo lo confermo:  ho visto come parla a Maka in torneo e in allenamento. Personalmente con me ha avuto un atteggiamento molto positivo e mi ha lasciata libera di esprimermi. Io sono una piuttosto aggressiva in campo, se così si può dire. Più che aggressiva, mi arrabbio parecchio e mi intestardisco. Questa è una cosa vantaggiosa se riesco ad incanalarla, perché mi rende più concentrata, ma alle volte mi parte proprio la brocca. Molti allenatori hanno tentato di farmi stare zitta, ma per me la repressione è mille volte peggio. Lui mi ha lasciata fare tutte le smorfie e le brontolate che il caso mi richiedeva, aggiungendo però che avrei dovuto caricarmi non solo quando sbagliavo, ma anche quando facevo giusto.

Un episodio è stato particolarmente carino, ci tengo a raccontarlo così magari riesco a ritagliarvi meglio il personaggio: la premessa è che io vado matta per Caparezza (e voi vi starete chiedendo cosa c’entra, ma datemi il tempo di spiegare). La sera, dopo un viaggio di andata/odissea e l’allenamento, ero stanca e  stavo navigando su internet, girando su facebook per rilassarmi. Ho postato come stato un pezzo di una sua canzone, che cita “Non è stato facile per me trovarmi qui, ospite inatteso, preso, indesiderato e arreso, complici i satelliti che riflettono un benessere artificiale: luna sotto la quale parlare d’amore. Scaldati in casa davanti al tuo televisore, la verità nella tua mentalità è che la fiction sia meglio della vita reale, che invece è imprevedibile e non il frutto di qualcosa già scritto, su un libro che hai già letto tutto…”.

Raul si è preoccupato che io potessi averlo scritto perché i due ragazzi che erano nel circolo (uno è Zucca e vive lì e l’altro è Ghio) mi stavano dando noia. Ha chiamato loro e me, ma io lo avevo scritto senza pensarci e solo perché mi piaceva la canzone, non avevo alcun tipo di problema, anzi mi trattavano tutti benissimo!

Cambiando discorso.

Punto due: ha lavorato anche con un’accademia (di cui solitamente non apprezza la generalizzazione del lavoro) e questa si chiama Walter Bertini Tennis Accademy; si avvicinava al tipo di lavoro che fa lui, quindi molto specifico. Le altre le ha solo viste e frequentate, ma mai da diretto interessato.

È stato anche un buon giocatore, ma ha subito capito che avrebbe voluto fare il coach, fin dai sedici anni.

Come si intraprende un percorso di coaching?

Bella domanda. Non c’è un percorso vero credo, c’è sicuramente una passione prima di tutto, ho sentito molte volte dire io un giorno riuscirò a fare il coach. Io non ho mai guardato qualcuno e detto un giorno diventerò come te, entravo in campo e facevo quello che mi piaceva fare e vedevo che mi riusciva con tutti i livelli. Meglio lo fai e più arrivi in alto nel tuo lavoro. In Italia per esempio ce ne sono tanti e tanti buoni sparsi per il mondo: Pistolesi, Piatti, Sartori, Coppo, Brogin… adesso, sai, magari non mi vengono in mente ora sul momento, me li dimentico e ci rimangono male (ride)”

Punto tre: non fa previsione su nessun’atleta. È impossibile strappargliene una su chiunque, la sua esperienza nel circuito gli ha insegnato che non si può mai dire, ha visto gente improbabile diventare qualcuno e viceversa.

Punto quattro: un coach personale serve a determinati livelli e non prima ed è molto importante imparare ad interagire con altri.

La mia conclusione è che al di là di una settimana piacevole, a me fino a quel momento non era ancora capitato di stare a contatto con un coach e non conoscevo la differenza tra gioco e lavoro. Lui mi ha spiegato davvero tante cose, fatto notare ciò che prima non avrei minimamente considerato e perciò nel mio caso lo devo anche ringraziare.

PS: Sono morta, anche se gli allenamenti non hanno generato traumi fisici, ma andavo avanti ad Arnica come se non ci fosse un domani.

 

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