di Marco Mazzoni
NYC Time. Archiviati i tornei dell’estate nord americana, inclusi due Master 1000 dominati da un Nadal straripante, il grande tennis arriva a New York per l’ultimo Slam stagionale. Un Major ancor più importante poiché potrebbe decretare il miglior giocatore del 2013, visto che i “big 3” hanno vinto finora uno Slam a testa. I favori del pronostico sono tutti per il toro iberico, mai così in salute e scatenato, pronto ad abbattersi sugli avversari come un uragano. Associazione lessical-tennistica non casuale. Dici Uragano e pensi a Miami. Le immagini scorrono veloci ai venti fortissimi che spazzano la Florida, magari a Katrina che nel 2005 devastò come mai. Negli ultimi anni la famigerata e temutissima stagione degli uragani del Caribe s’è spostata un filo più avanti, arrivando al suo picco non più ad agosto ma a metà settembre, quando i cicloni sono più grandi, violenti e aggressivi. Tra le vittime di questa fenomenologia meteorologica anche il nostro amato tennis, che ogni anno proprio intorno al 10 settembre vive uno dei suoi momenti clou, il weekend decisivo degli US Open. Proprio quando a New York per colpa del passaggio dei cicloni la calura opprimente dell’estate lascia il posto a piogge insistenti, venti vigorosi e un crollo termico che non ha nulla d’estivo ed invitante. Ancor meno per i campioni della racchetta, che sul duro dell’Arthur Ashe devono interrompere i match già alla caduta di poche gocce, che rendono il rettangolo di gioco infido e sdrucciolevole. Altro che “Super Saturnday”, piatto ricchissimo imposto dalla CBS con in campo le due semifinali maschili e la finale femminile, schedule affascinante quanto tecnicamente scellerato (che in passato ha condizionato l’andamento di svariate finali maschili ed oggi per fortuna archiviato); negli ultimi anni ombrelli aperti e attese snervanti per i match decisivi del torneo. Tanto che le ultime 5 finali maschili sono andate in scena di lunedì, schiave dei capricci di un “Giove pluvio” beffardo. “Ma un tetto come in Australia e Wimbledon no, eh?” si gridava da più parti, sorridendo amaro all’entrata in campo di decine di raccattapalle armati di asciugamani a pulire righe e spazi di gioco, insieme agli “stooges”, simpatiche macchine a getto d’aria calda. “Difficoltà tecniche” rispondevano dalla USTA, coprire un catino così gigantesco era impresa ardua; anche difficoltà finanziarie aggiungiamo noi, visto che la raccolta dei fondi per ampliare l’impianto andava a rilento in un periodo economico tutt’altro che florido e con le ultime rate dei 254 milioni necessari al completamento dell’Arthur Ashe da onorare.
La soluzione “pilatesca” già decisa per quest’anno? Spostare la finale maschile direttamente al lunedì, per diluire il programma ed avere un giorno in più come margine di sicurezza, insieme alla speranza di presentare alla domenica l’unica americana che può davvero ambire al titolo, Serena Williams; e assicurarsi anche una finale top nel tardo pomeriggio del lunedì, senza altri eventi sportivi a far concorrenza (come la NFL alla domenica) e di lancio al Monday Night Football. ITF e ATP non hanno preso di buon grado questo schedule, visto che la domenica è il giorno delle finali, da sempre. Ma ecco il colpo di scena. A 10 giorni dall’inizio dell’edizione 2013 dello Slam newyorkese, la federtennis USA annuncia un clamoroso piano di rilancio di tutta l’area del USTA Billie Jean King National Tennis Center, compresa la copertura del “mostro”, come amabilmente è chiamato dagli addetti ai lavori l’enorme centrale di Flushing Meadows. In sintesi il più grande stadio del tennis al mondo, inaugurato nel 1997 con i suoi 22.547 posti a sedere, sarà dotato di una copertura mobile, flessibile, costituita da politetrafluoroetilene (polimero resistente alle alte temperature) distesa su di un’anima di acciaio, sostenuta da otto colonne che circonderanno l’Arthur Ashe Stadium. Un tetto che dal progetto pare nemmeno così brutto e che costerà da solo 100 milioni di dollari. L’intero progetto di riqualificazione dell’impianto costerà 550.000.000 $ (senza un penny di origine pubblica, tutto finanziato con gli introiti dell’evento e dall’emissione di alcuni bond), e consisterà soprattutto nella costruzione di un nuovo Luis Armstrong (ex centrale prima dell’Ashe) nella sua posizione attuale, un nuovo Granstand che nascerà nell’angolo più a sud dell’impianto per migliorare la viabilità di tutta l’area, insieme ad un’area pedonale più grande e verde, oltre a nuovi parcheggi e “facilities” in genere. Il Grandstand sarà già pronto nel 2015, mentre il tetto sull’Ashe nel 2017, e il completamento di tutti i lavori l’anno successivo. Lavori che secondo Gordon Smith (direttore esecutivo della USTA) “cresceranno ancor più l’impatto economico del torneo sulla città, oggi stimato in 750 milioni di dollari”. Autori del miracolo ingegneristico ancora la Rossetti, importante studio di architetti (di origine calabrese) con base nei dintorni di Chicago, definiti negli USA i “pionieri nello sviluppo di arene sportive integrate a valorizzare il tessuto urbano”; a loro si devono anche gli stadi di Indian Wells e Miami, oltre all’Arthur Ashe stesso, e centinaia di altre arene di Football, Baseball, Università e quant’altro, in tutto il mondo. Quando l’Ashe fu concepito e costruito, non poche furono le perplessità e polemiche. Uno stadio a regola d’arte, funzionale, ma troppo grande per uno sport come il tennis, dove lo spettacolo va in scena in un’area tecnica di poco più lunga di 30 metri e con una pallina decisamente piccola.
Nonostante l’accoglienza impeccabile, incluse le 90 suites deluxe appannaggio di pochi ricconi, 5 ristoranti e players’ lounge a due piani con annessa palestra di riscaldamento, tanti spettatori tornano a casa avendo immaginato il gioco, più che averlo visto. Oltre le primissime file del terzo anello, la pallina diventa invisibile, mentre i due tennisti vengono ridotti a formichine impegnate in una danza incomprensibile. Necessario armarsi di un buon binocolo nel caso in cui vogliate provare l’ebbrezza di “gustarvi” un match dalle ultime file che, non a caso, spesso restano desolatamente vuote anche nel caso di un match notevole. Spazi vuoti che non sono mai piaciuti alla USTA ed agli sponsor, tanto che ad un certo punto era anche stata ventilata l’ipotesi di tornare indietro, togliendo alcune file, idea poi accantonata. Stadio quindi paradossale, come ne fu anche il suo concepimento. L’idea dell’impianto di Flushing Meadows è nata durante un atterraggio aereo all’aeroporto di La Guardia. A metà degli anni ’70 il capo di un team di architetti, guardando lo stadio dei Mets lì vicino durante un atterraggio, pensò che l’area poteva esser ideale per costruire il nuovo impianto newyorkese della USTA, che doveva rimpiazzare Forest Hills come sede gli open americani. Detto fatto, con la consueta efficienza americana in poco tempo una struttura faraonica era già in funzione …senza pensare che ai tennisti il rumore del continuo atterraggio degli aerei avrebbe causato molti problemi! Si ricordano storiche diatribe di Connors e McEnroe, pronti ad usare a loro piacimento i tempi degli atterraggi per proteste varie o togliere la concentrazione al Lendl (furibondo) di turno. Tanto che dopo anni di trattative si riuscì a far invertire la rotta di decollo e atterraggio nella quindicina del torneo, quando il vento lo permette.
Una visita agli US Open è sempre più che raccomandata, perché il torneo è un microcosmo di umanità varia che racchiude in sé il meglio ed il peggio della cultura yankee. Il tutto a NYC, la metropoli più invidiata e visitata al mondo. L’evento è specchio fedele della cultura popolare USA, del suo gigantismo, della sua strapotenza e a volte ignoranza. Si continua a far crescere l’area tecnica del torneo richiamando sempre più pubblico quando già l’arrivarci è più che un incubo – giammai in auto, pena passare buona parte dei primi match nella disperata ricerca di un parcheggio e di sfuggire all’ingorgo… Un evento che attira anche il pubblico più variopinto e disordinato della stagione, con tanta gente che arriva quasi “per sentito dire” conoscendo il giusto il tennis e le sue peculiarità; o che addirittura si risente poiché convinta di essere ancora il centro dell’universo tennistico mondiale, quando poi il campo racconta tutt’altro. Chiasso durante gli scambi, movimento continuo, quasi più entusiasmo per la maglietta nuova o l’hotdog che per un gran colpo. Mi raccontavano di una variopinta famigliola del Dakota, in vacanza nella grande mela, che entrò nell’Ashe quasi per caso, e stupiti da quel poco che si intravedeva dal 50esimo piano chiese ai vicini “ma perché stanno quasi più seduti che a giocare?”. Di storie così se ne potrebbero trovare e raccontare a decine, roba da far rabbrividire coloro che si fanno la “queue” di Wimbledon insomma… Per non parlare dell’odore di fritto e fumo di hamburger che ti si cuce addosso e non ti abbonderà più.
Eppure in questa “palude luccicante” (tentativo di traduzione di Flushing Meadows) di grande tennis ne è passato proprio parecchio. Un torneo stra-dominato dai giocatori di casa dall’era Open a tutti i ’90s. Connors in primis, non a caso chiamato il “Sindaco” da queste parti, con le sue 5 vittorie e un numero enorme di piazzamenti, compresa la clamorosa semifinale del 1991 quando era sulla soglia dei 40 anni; lottatore eroico nelle sue battaglie in cui infiammava il già facilmente eccitabile pubblico newyorkese, con molti comportamenti sopra le righe (sulle “righe” chiedere a Corrado Barazzutti, che subì da Jimbo una delle angherie più assurde della storia…). E come non ricordare le 4 vittorie di John McEnroe, una più bella dell’altra, tra cui spicca la stupenda affermazione del 1980 su Borg, un match che regalò un campionario di tecnica ed emozioni sopraffino, non inferiore alla sfida giocata dai due lo stesso anno a Wimbledon, ma offuscata solo da quel mitico tiebreak che è passato alla storia. Dopo la tripletta di Lendl (che però giocò ben 8 finali di fila dall’82 all’89), qua arrivò il primo titolo Slam di Sampras (per un totale di 5 a NY) e soprattutto l’inizio della sfida infinita con Agassi, culminata nella grande finale del 1995 che determinò buona parte della loro futura rivalità (basta leggersi l’ottimo “Open” di Agassi per capirne di più). Fino all’arrivo della nuova generazione nel 2000, con l’illusione di Roddick nel 2003 (ultimo Slam vinto da un americano) e quindi il regno di Federer, durato dal 2004 al 2008. Moltissimi sarebbero i match da ricordare: le sfide tra Connors e Lendl, o anche tra McEnroe e Lendl; la semifinale 1992 tra Edberg e Chang, con Stefan che rimontò da 3-0 sotto nel quinto; la SF tra Agassi e Becker nel ’95, con punti pazzeschi e aria a dir poco elettrica in campo tra i due. Tra le tante belle finali, ne ricordo due recenti. 2005: un Federer forse mai così forte si scontrò con un Agassi 35enne ma agguerrito come mai, con i due set centrali che offrirono un tennis da cineteca per la sfuriata di Andre e la rimonta e sorpasso di Federer; e quella del 2009, quando un Roger lanciatissimo scherzò Del Potro fino a metà del secondo set, cercando di irriderlo fin troppo e suscitando così la reazione furiosa dell’argentino, ancora scosso per l’esordio in una finale Slam ma che finì per vincere al quinto con mazzate di dritto mai viste. Una finale a suo modo storica, perché segna forse l’arrivo di un tennis diverso a NYC, quello attuale, segnato da un’overdose di potenza e continuità di prestazione. Proprio a questa considerazione dedico la chiusura, che in poche parole racchiude il senso di come è cambiato il tennis, e di conseguenza anche il torneo newyorkese. Fino a qualche tempo fa i principali commentatori e tennisti concordavano che sul cemento in generale e su quello di New York in particolare si giocasse il torneo con le condizioni “più oneste”, quelle che non favorivano troppo i battitori e attaccanti, ma nemmeno penalizzavano i giocatori più difensivi o specializzati alla terra battuta. Specializzazione. Questa la parola chiave, oggi praticamente scomparsa.
Fino a quando le condizioni di gioco erano varie, la tecnica meno omologata e le superfici realmente differenti, si assisteva ad un tennis molto diverso da una stagione all’altra. Il cemento non era veloce come l’erba o certi tappeti indoor, ma si poteva attaccare e dominare la rete per chi aveva questo dono. Pare passato un secolo, ma nell’anno di grazia 1992 l’angelo biondo Stefan Edberg vinse il suo secondo US Open con oltre 1000 (sì, m-i-l-l-e) discese a rete! Roba che oggi non credo avvenga a Wimbledon sommando tutti i match maschili in tabellone… Ma il cemento non era nemmeno così veloce da penalizzare totalmente gli specialisti del rosso, come per esempio ha dimostrato Wilander con la sua stupenda vittoria nel 1988, o dello stesso Borg, che mai riuscì a vincere a NY ma arrivò 4 volte in finale, e come lui tanti altri “difensori” o diciamo non attaccanti, da Mecir in giù. Con l’arrivo della nuova generazione dei classe ’90 in poi, dominata da tennisti molto più simili come tecnica e strategia di gioco, e con il cambio di palle e condizioni dei primi anni 2000, sul cemento e quindi anche a New York si è assistito via via ad un progressivo appiattimento del gioco, con la scomparsa degli attaccanti ma anche delle soluzioni più creative e spregiudicate, stritolate da un agonismo sfrenato sostenuto da fisici “bestiali”, a produrre maratone infinite dove il winner è diventato lo sbagliare pochissimo e pressare l’altro a commettere il primo errore. La parola specializzazione è stata soppiantata da omologazione. Scorri l’albo d’oro recente e magari non te ne accorgi, “drogato” da Mr. Federer che ha dominato per 5 anni di fila. Ma già da alcune stagioni nelle fasi finali troppi match sono uno uguale all’altro; spettacoli deludenti, animati da battaglie feroci e noiosissime, vedi le ultime 3 finali, tutt’altro che memorabili. La tendenza è purtroppo al ribasso. Ovvio che nell’enorme quantità di match di un tabellone Slam, anche quest’anno vivremo tante occasioni di buon tennis, ma sarà soprattutto nella prima settimana, seguendo giocatori più vari in incroci di tabellone stuzzicanti. E via via che il draw si farà più stretto, con i soliti superatleti a contendersi il titolo, anche gli sbadigli forse prenderanno il sopravvento, e non solo per gli orari perlopiù serali dei match. Scambi infiniti e grandinate di pallate in arrivo su NYC, e nemmeno un tetto gigante potrà ripararci…
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