di Luca Brancher
Nel 1696 ad un tale di nome John Harrison fu concessa una singolare opportunità, con lo scopo di ottemperare un obbligo che il re d’Inghilterra, all’epoca, aveva contratto con lui. Gli fu infatti permesso di circoscrivere, in sella al suo cavallo, un’area, in 24 ore di tempo, poco a nord di New York – le zone che per prime furono visitate dall’esploratore fiorentino Giovanni da Verrazzano – e il territorio ivi compresso sarebbe divenuto di sua proprietà. Il prode cavaliere non lasciò cadere l’invito e si lanciò nella sfida, cercando di sottrarre più terra che riuscisse: una volta terminato il tempo, venne fondata la città che da lui prese il nome, Harrison. Un centro nei secoli affermatosi come un giusto compromesso tra chi vuole i vantaggi della città (Manhattan è a 30 chilometri) e la tranquillità di strade da sempre abitate dall’alta borghesia yankee. In questi luoghi, esattamente tre secoli più tardi, è cominciata la complessa, poi capiremo il motivo, vita di Louisa Chirico, aspirante campionessa a stelle e strisce.
Se il tennis femminile americano non pare essere privo di probabili future protagoniste, pronte a raccogliere parti di quell’infinita eredità che le sorelle Williams prima o poi saranno costrette a lasciare, non è possibile non citare, tra le altre, questa giocatrice, se non altro per la sua formazione alquanto curiosa, una sorta di continua rincorsa rispetto a quelli che sono i canoni ideali dell’essere un campione, indirizzata però nella giusta direzione. Ciò che maggiormente restava impresso di Louisa in tutti gli addetti ai lavori che nel corso del tempo si avvicinavano alla nativa di Morristown, New Jersey, consisteva nel fatto che, differentemente da tante altre “stelline” su cui si era pronti a scommettere ad occhi chiusi, il tennis, nella sua vita, è sì stato un elemento importante, ma non così fondamentale. Probabilmente scontando il fatto di essere nata in una famiglia in cui nessuno aveva precedentemente praticato questa disciplina, Chirico fino a 7 anni non sapeva nemmeno quale fosse la forma di una racchetta e per il lustro successivo tre sarebbero stati gli sport tra i quali avrebbe diviso il tempo libero: basket e calcio rientravano nella sfera dei suoi interessi. Di tempo, a dire il vero, ce n’era ben poco, dal momento che Louisa eccelleva perfino negli studi, bruciava le tappe, tanto da arrivare a frequentare, nella prestigiosa Rye Country Day School, corsi di geometria “speciali” – nelle scuole preparatorie U.S.A., molti corsi vengono impartiti in due versioni, regular ed honor, i primi sono alla portata di tutti, i secondi soltanto per coloro i quali mostrano determinate attitudini, e con speciali faccio riferimento a questi ultimi – e di cinese.
A 12 anni, come lasciato intendere prima, Louisa ha sciolto gli indugi in fatto di sport da seguire, decidendo allo stesso tempo di testarsi in qualche manifestazione di un certo livello. Due anni dopo, nel 2010, Chirico otteneva diversi successi nei tornei della macroregione statunitense centro-orientale (9 allori, oltre a 2 finali) che convinsero i vertici federali, capitanati da Patrick McEnroe, a convocarla a Flushing Meadows per un clinic: era la prima volta che dall’USTA qualcuno virava dritto su di lei. Quello che emerse fu piuttosto incoraggiante, perché, nonostante la ragazza fosse in ritardo rispetto alle coetanee più brillanti, aveva un’attitudine ed una voglia di imparare seconda a quelle di nessuno. Unendo ciò ad altre sue doti innate, come il footwork, si intravedevano in lei le potenzialità di una sicura professionista. C’era però da sistemare qualcosa.
In effetti rimasero tutti stupiti quando la videro colpire di dritto, notando come la sua impugnatura, una western estrema, era alquanto esasperata, tanto da renderle ipoteticamente difficile il colpo in talune situazioni, ovvero quando la palla era troppo alta sopra la spalla. Pat McEnroe fu piuttosto chiaro, tanto con lei quanto con i genitori: Louisa poteva rientrare nel programma nazionale, a patto che lei avesse accettato una modifica a quel movimento, e soprattutto, per fare ciò, avrebbe dovuto lasciare la scuola tradizionale, poiché il tempo a sua disposizione non sarebbe stato più sufficiente.
Non ci furono dubbi attorno al fatto che la ragazzina potesse approvare, dal momento in cui il suo sogno, ormai, era di diventare una campionessa in questo campo, mentre i genitori, fedeli alla loro linea, non vollero interferire: non avevano alcuna preparazione in materia, e, saggiamente, lasciarono che la figlia intraprendesse la strada a lei più cara. A seguirla, dal primo momento, da vicino, sarebbe stato il coach federale Jay Gooding. “Fu deciso che Chirico si sarebbe fermata per cambiare quell’impugnatura, che le aveva fatto vincere tanto, ma che, nello sviluppo, l’avrebbe limitata. Temevo potessero esserci problemi, non è facile chiedere ad una quattordicenne, affamata di vittorie, di non giocare partite per 6 mesi per sistemare un particolare tecnico. Ed invece il suo carattere e la sua volontà di imparare sono stati basilari per la riuscita nel nostro progetto.” Eco le fece Louisa “Sono grandi allenatori, sanno sicuramente qual è la cosa migliore per me, per cui mi sono fidata. E devo dire che, per quanto abbia lisciato tante palle nei primi momenti, ora il mio dritto è molto più valido, mi piace”.
Una carriera tutta in rincorsa, quella di Louisa, partita in ritardo, ma destinata a recuperare tutto il terreno perduto, si era detto. E macinarne tanto altro. Non un caso, dunque, se già al secondo tentativo nel mondo pro il risultato è stato una vittoria, nel torneo da 10.000$ di Sumter, South Carolina, dove in finale ha sconfitto la sfortunata Victoria Duval, poco più di 2 anni fa. “Non è francamente riscontrabile in altre giocatrici una perseveranza così elevata. Alla fine dell’allenamento ringrazia sempre e non si è mai tirata indietro in nessuna occasione davanti alla possibilità di scendere in campo. Il gap con le sue coetanee è stato colmato con questa mentalità. Senza scordare le sue qualità.” Già, perché Chirico, anche per quella sua particolare impostazione, è una statunitense atipica: per quanto cresciuta sul cemento, ama la terra battuta. E lo ha già dimostrato.
Dopo aver frequentato, fino al 2012, il solo circuito americano juniores, nel 2013 i vertici federali decisero che fosse ora che la ragazza solcasse le colonne atlantiche e sbarcasse in Europa a misurarsi con le migliori junior del vecchio continente. Proprio sulla terra battuta parigina Louisa diede prova delle sue qualità, sconfiggendo di slancio ragazze cresciute a pane e polvere di mattone come l’iberica Sorribes Tormo, prima di cedere, ma solo dopo tre frazioni tirate, alla “next big thing” rossocrociata, Belinda Bencic, nelle semifinali. Risultato emulato a Londra, dove sempre la stessa avversaria le avrebbe sbarrato la strada, ma in maniera più netta, mentre a New York, nonostante la sconfitta le fosse stata ancora inflitta dalla futura vincitrice, in questo caso Ana Konjuh, lo stop sarebbe giunto nel corso di quarti di finale. A seguito della brillante campagna europea, gli Stati Uniti, ed in maniera particolare gli organizzatori dei tornei di Washington e di Cincinnati, misero gli occhi su di lei, garantendole wild-card, ma Gooding preferì declinare l’invito, acconsentendo soltanto a quello per le qualificazioni degli U.s. Open – dove Louisa si sarebbe arresa al turno finale: “Semplicemente non era pronta, e quando metti taluni giocatori su palcoscenici che potrebbero non avere la sufficiente maturità da gestire, si rischia di perderli. Lei sta seguendo un cammino corretto e lo sta facendo nella maniera migliore possibile: non c’è bisogno di stravolgerlo.”
In un certo qual senso, però, è stata Louisa stessa a scompaginarsi nuovamente la vita, perché dopo le oltre 600 posizioni scalate nel ranking WTA nel corso del 2013 (dalla 912 alla 312), in questa prima parte di 2014, da poco diciottenne, ha lasciato alle spalle un altro centinaio di giocatrici, di tutt’altro valore e tenore rispetto alle precedenti: l’abbiamo vista districarsi bene pure nel Belpaese, centrando a Padova (25.000$) il suo secondo titolo professionistico. Dopo aver rifiutato gli inviti di Duke, North Carolina University e Stanford ad unirsi a loro nel prossimo autunno, Louisa ha firmato a maggio con la Octagon Sport ponendo fine alla querelle “pro vs college”, che spesso attanaglia molti giocatori al termine delle high-school. Ora non le resta che emulare il fondatore della sua città: armarsi – ma non prendendo un cavallo, bensì la sua racchetta – ed andare a delineare quali saranno le zone da sottomettere al suo dominio. Valutando il suo percorso, pare poco probabile che non cerchi di conquistare l’intero mondo.
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