di Marco Mazzoni
E’ quasi mezzanotte. Il silenzio della stanza è rotto da qualche gelida folata di vento, anche se siamo solo ai primi di settembre, e soprattutto da improvvisi sbalzi di decibel provenienti del mio tvc, vetusto ma affidabile. Sono gli effetti che arrivano dall’Arthur Ashe Stadium di NYC, dove Stan Wawrinka e Kei Nishikori stanno dando vita ad uno dei match più belli della stagione, che sfocerà al terzo set in un tibreak stupendo. La partita è interessante. Scorre via ricca di temi tecnici ed agonistici, e ti tiene incollata allo schermo, anche se l’ora inizia a farsi tarda e la lancetta dell’energia pende pericolosamente verso il rosso.
E’ un crescendo di emozioni, con i due tanto diversi quanto accomunati da uno stato di trance agonistica evidente. La tv mostra la maschera del nippo, che tradisce pochissime emozioni ma una profondità di sguardo che mi inquieta. E’ l’occasione più grande della sua vita, di una vita sportiva vissuta pericolosamente tra troppi infortuni e pause sfortunate. Vincere, e strappare la prima semifinale di uno Slam, il sogno è chiaro. Sarebbe pure il primo suddito dell’impero del Sol Levante a tagliare questo traguardo, e vista la tennis-mania dilagante e lo stuolo mediatico sterminato che Kei si porta dietro, l’impresa passerebbe tutt’altro che inosservata. Tensione, fisica e mentale, ma la racchetta di Nishikori taglia l’aria mai così cattiva, a frustare col dritto la palla con un nerbo che poche volte gli è appartenuto. Cross devastanti in progressione, rovesci da ogni lato del campo, tutto veloce, composto, magnifico. Kei c’è, con quello sguardo lì sta divorando tutto, palle, campo, avversari, pubblico, la sfiga che l’ha penalizzato da sempre, intrappolato in un corpo inadatto a reggere gli sforzi di un tennis diventato per supereroi.
Dall’altro lato della rete aleggia una tensione non minore, ma diversa. Anche Wawrinka ha la faccia delle grandi occasioni, quelle in cui il suo rovescio ti lascia senza fiato per tanta spericolata e maestosa bellezza. La smorfia dello svizzero è a suo modo più teatrale, ricca di espressioni che vanno in pochi secondi dal disgustato al divertito, e che trapelano il fuoco che gli arde dentro e lo tiene sportivamente in vita in un match che gli sta scivolando via. L’altro sembra più veloce, più cattivo, più tutto. Dopo un bel primo set, “il Waw” è sceso mentre l’altro saliva, altissimo. Arriva il tiebreak, e siamo vicino a mezzanotte, un momento anche simbolicamente perfetto a segnare il destino di questa sfida stupenda, e chissà, forse anche del torneo direttamente o indirettamente.
Sto provando dopo qualche ora a rivivere mentalmente, punto dopo punto, questo tiebreak. Ma non ci riesco. Sono sopraffatto dalle emozioni, dalla vibrazione che mi assale ripensando alle risposte di Kei, a come i suoi piedi volassero anticipando i colpi potenti e più coperti di Stan, portandolo nelle condizioni ideali a mulinare i suoi swing velocissimi, piatti, secchi, che già nel 2008 mi avevano colpito dentro, tanto da farmi rischiare una pericolosa previsione “questo sarà fortissimo…”. Alcuni rovesci di Kei, tirati in totale progressione ed anticipo a chiudere dal centro, oppure in corsa quasi fuori dal campo in lungo linea (un paio balisticamente illegali ed irripetibili, anche per la tensione del momento) mi hanno fatto letteralmente sobbalzare dalla sedia, alzare in piedi ed applaudire, come se fossi stato realmente lì sull’Ashe, in qualche angolo della tribuna stampa o anche nell’ultimo sfigatissimo posto di un catino troppo grande per il nostro amato sport. Meraviglia. E che dire allora delle prodezze di Stan, due – tre bordate terrificanti per potenza, precisione, e per la bellezza del suo gesto così ampio, mai strappato, totalmente decontratto. Questo tiebreak è stato uno degli spettacoli tennistici più alti a cui ho assistito negli ultimi tempi. Perché? Perché in campo c’era tutto, ma proprio tutto, quello che rende il tennis uno sport unico e diverso da tutte le altre discipline atletiche umane. Tensione, contrasto di stile e di gioco; aggressività mista a lucidità; gesti tecnici vari e classicheggianti, ricchi di un mix di forza ed eleganza di massimo livello. C’era la voglia di dare il massimo provandoci fino in fondo, rischiando tutto il proprio talento per cogliere quell’attimo, per strappare quei 7 punti che potevano cambiare il match ed in torneo di entrambi. L’uno dava il meglio, e l’altro è stato capace di rispondere elevando ancor più il proprio livello, alzando l’asticella del proprio gioco superando ostacoli altissimi e rischiando al massimo.
A chi mi chiede perché spesso sono molto critico col tennis attuale di vertice, la risposta è che poche volte va in scena uno spettacolo come quello offerto ieri sera da Wawrinka e Nishikori, soprattutto in quel tiebreak eccezionale. Due grandi tennisti che hanno cercato il vincente da ogni posizione, esplorando tutto il campo. Due tennisti che si sono presi alti rischi, al massimo della velocità di braccio e della ricerca della traiettoria e della riga; il tutto per fare il vincente non solo bello ma che mentalmente potesse spezzare le gambe al rivale, anche lui spinto al massimo. Una ricerca della propria eccellenza tecnica che ha prodotto winner stupendi, e pure diversi errori. Attenzione: non c’è niente di male, anzi è forse proprio questo il nocciolo della questione, e della mia critica a troppi match di oggi tra i più grandi campioni. Campioni che non sbagliano quasi mai. L’errore a volte è figlio della sfida, della ricerca della meraviglia, della voglia di superarsi. Questo tipo di errori producono spettacolo, sono l’essenza dello sport, e se vogliamo anche della vita. La “morte dello spettacolo” tennistico è proprio l’atteggiamento iper conservativo, di rimessa, utilitaristico; il super-atletismo abbinato alla tattica percentuale, quella del giocare “quasi” al massimo ma troppo attenti a non sbagliare mai, cercando invece di forzare l’avversario all’errore; peggio se il tutto è operato con toppate estreme e con un gioco esageratamente sbilanciato sul lato fisico, con palle che veleggiano così lontane dalle righe e dalla ricerca del vincente, e dello spettacolo.
Proprio il contrario di quello che s’è visto ieri tra Nishikori e Wawrinka. Due atleti assolutamente imperfetti, dotati di grandi doti tecniche e qualche lacuna fisica o mentale, ma che hanno provato a superarsi dando tutto non solo sul piano agonistico ma soprattutto su quello tecnico. Prendendosi il massimo del rischio e creando così uno spettacolo di altissima qualità ed adrenalina, buono per gli amanti della “lotta” e sopraffino per quelli che più apprezzano il gesto tecnico, la ricerca della giocata e della bellezza.
Alla fine ha vinto Nishikori, ma francamente resta un dettaglio in un contesto così diverso. Grazie Kei, e grazie Stan. Avete regalato a me e a tantissimi altri amanti del tennis una notte dolcissima, che non scorderemo facilmente.
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