di Federico Mariani
L’ideale abbraccio col quale il Philippe Chatrier avvolge Novak Djokovic riservandogli una meravigliosa standing ovation di due minuti è il ricordo più bello e toccante della domenica del serbo. Il numero uno del mondo è stato appena schiaffeggiato per quattro set da un Wawrinka formato deluxe, fallendo per l’ottava volta in finale Slam e, soprattutto, per la terza volta a Parigi nell’unico Major ancora mancante in bacheca.
Nole non ce la fa a trattenere le lacrime ed esplode in un pianto che trasuda umanità, che avvicina l’uomo alla gente. Un pianto che, per spontaneità, ricorda quello del Federer d’Australia versione 2009, ma se Roger si era riferito (direttamente o meno) ad un diavolo che non riusciva a battere, i diavoli da combattere per Djokovic sono dentro di lui. Sì, perché il serbo stava dimostrando torneo dopo torneo di non avere avversari neanche avvicinabili al suo livello medio, stava dominando il circuito maschile in modo quasi tirannico. Non soffriva nessun avversario, non lo impensieriva nessuna superficie. Eppure, nelle prove dello Slam il suo rendimento è tornato cocciare in modo piuttosto evidente con quanto si ammira altrove.
I numeri a riguardo fotografano una situazione preoccupante, addirittura grave se relazionata all’abituale strapotere che Djokovic esprime ormai da anni sul circuito maschile. Il serbo ha vinto 24 Masters 1000, tre in meno di Nadal ed uno più di Federer, ma rispetto a loro ha sei Slam in meno dello spagnolo ed addirittura meno della metà dell’elvetico. Djokovic ha superato Nadal nel numero di settimane sul trono più alto del tennis, ma rispetto al mancino di Manacor ha perso due finali Slam in più vincendone sei in meno. Da inizio 2012 il campione belgradese ha portato a casa 14 Masters 1000, tenendo l’impressionante e forse irripetibile ruolino di marcia di un torneo vinto ogni due (14 su 29), ed ha sempre trionfato nelle Finals londinesi di fine anno. Allo stesso tempo, tuttavia, ha incamerato “solo” quattro Slam su quattordici disputati vincendo, peraltro, tre volte in Australia. Sempre dal 2012 in poi ha perso sei delle dieci finali Slam a cui ha preso parte che vanno a disegnare il bilancio deficitario del 50% di successo nell’ultimo atto Major, che stride col 73% nel resto dei tornei. Fuori da Melbourne il suo parziale in finale diventa tre su otto. Poco, troppo poco per le mire e per il talento che tutti riconoscono a Nole.
Una discrepanza tale non può essere spiegata dalla lunghezza dei tre set su cinque. La lunga distanza, infatti, per le caratteristiche fisiche del serbo è un vantaggio. Nessuno può reggere un ritmo così alto per così tanto tempo, nessuno può pensare di far gara di resistenza con Djokovic. In quel perfetto meccanismo qual è il gioco di Nole, sintesi sontuosa tra difesa ed offesa, mezzi fisici ed atletici spaventosi coniugati ad un talento fuori dal comune, c’è forse una pecca: Djokovic fa giocare troppo bene gli avversari, li mette quasi in palla complicando di riflesso il suo compito. E’ molto difficile vedere un avversario del serbo giocar male, specie una partita importante. E’ sostanzialmente il contrario di quanto avviene a Nadal che è formidabile nel non mettere a proprio agio i rivali di turno. Col serbo, invece, quasi tutti si esaltano anche se ovviamente nella maggior parte dei casi ciò non basta a strappare la vittoria. Ieri Wawrinka ha sì trovato una di quelle giornata in cui la sua potenza è intrattabile, ma era lecito attendersi una prestazione diversa da parte di Nole, una reazione diversa dagli stordenti tre set persi consecutivamente. E invece il serbo si è mostrato insicuro e confuso, lui che fa della sicurezza e dell’ordine i cardini del suo essere. Ha provato folli serve&volley, ha inceduto nei dropshot seguito da lob sempre perdenti. Non si è ribellato alla giornata di grazia di un avversario forte senza dubbio, ma a lui inferiore.
Quella maturata ieri è senza dubbio la sconfitta più dolorosa perché dopo quattro anni di assalto Novak era riuscito per la prima volta ad eliminare il padrone di Parigi, schiacciato brutalmente in tre set in quella che tutti vedevano come finale anticipata prima e passaggio del testimone poi. E’ la più dolorosa, nonché inaspettata, perché la vittoria avrebbe significato completare il Career Grand Slam, ovverosia un posto fisso al tavolo degli immortali del gioco. Era tutto apparecchiato, ieri come il 7 giugno di sei anni fa quando a chiudere il cerchio fu Federer, ed in questo caso Djokovic non doveva neanche ringraziare nessuno perché si era preso da solo lo scalpo di Nadal.
Il tennis è uno sport tanto strano quanto maledettamente meraviglioso. Djokovic arrivava a Bois de Boulogne da re invincibile e lascia Parigi da re nudo, spogliato di un sogno che tutti credevano fosse ormai divenuto realtà. Questa è una sconfitta che potrebbe portare con sé effetti devastanti, starà a Nole reagire come solo i campioni sanno fare. Starà a Nole rialzare la testa ed andare avanti, verso nuovi successi, verso nuovi domini, verso l’immortalità che però deve forzatamente passare per Parigi.
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